Paolo era stato catturato dai tedeschi dopo l’armistizio dell’otto settembre 1943, assieme ad altri coetanei della sua età, diciannove anni, tutti promossi carabinieri pochi mesi prima a Roma, sotto i bombardamenti.
Si trovava già da quasi due anni in Germania. Non erano considerati veri prigionieri di guerra, ma come “internati militari italiani”, IMI. Perciò godevano di particolari privilegi. Il privilegio di lavorare fuori del campo di prigionia e di rientrarvi solo la notte, per dormire. Il privilegio di lavorare nelle campagne, nelle fattorie, rimpiazzando i contadini tedeschi arruolati, mangiare lo stesso cibo delle loro famiglie, al loro stesso tavolo.
Quando le cose cominciarono ad andare male per la Germania e gli alleati si avvicinavano ogni giorno sempre di più ai suoi confini, i prigionieri venivano lentamente spostati in altri campi, viaggiando su treni e su camion. Spesso venivano impiegati come manodopera per recuperare rottami di aerei alleati abbattuti dalla contraerea.
I rottami venivano portati alle acciaierie Krupp, fusi e riutilizzati per costruire cannoni e panzer.
Durante uno di questi spostamenti, il treno dei prigionieri si era fermato a Dresda, una città bellissima, mai bombardata dagli alleati. Paolo guardava a bocca aperta le chiese gotiche, i palazzi, le case e i giardini. Ignorava la storia e gli stili, ma, nonostante la fame e la stanchezza, che non lo abbandonavano mai, si rendeva conto di essere davanti a qualcosa di veramente bello.
E quell’atmosfera di pace, di pulizia e serenità erano come un balsamo per il suo animo e per quello dei suoi compagni.
Persino la scarsa razione di pane di segala duro, consumata seduti per terra, sembrava più buona.
Paolo pensava alla sua casa in Italia, alla sua famiglia, che non aveva più avuto sue notizie e che sicuramente lo credeva morto.
Pensava che fra pochi giorni, il diciassette febbraio, avrebbe compiuto ventuno anni.
Era il tredici febbraio 1945.
Il cielo si oscurò su Dresda, coprendosi di rumori. Ma non erano le nuvole di un temporale.
I soldati tedeschi che scortavano i prigionieri e quelli locali guardarono in alto meravigliati : nessun aereo alleato aveva mai sorvolato Dresda dall’inizio della guerra e ora sembravano tutti sopra di loro. Suonarono penosamente le sirene d’allarme, come lamenti inutili. Ancora non succedeva niente, ma una cappa pesante di aria incombeva su di loro sempre più bassa e satura di sentori minacciosi. Poi esplose.
Per tre giorni consecutivi solo esplosioni, fiamme, esplosioni.
Il cielo non si vedeva più. Era scomparso. Solo polvere rovente.
Paolo, alcuni suoi compagni e un gruppo di soldati tedeschi si erano nascosti sotto un ponte stradale. Non osarono muoversi per tre giorni e tre notti, anche perché erano convinti che era giunta la fine del mondo. Non vedevano nulla. Polvere. Un vento caldo come in Africa scottava la loro pelle, ardeva la gola e non avevano niente da bere. La terra tremava in continuazione, il ponte barcollava come ubriaco, perdendo pezzi, ma non osavano uscire da li sotto. Non volevano vedere l’inferno.
Al terzo giorno, con la testa dolorante, le orecchie che fischiavano come per una caduta da incommensurabili altezze, si trascinarono fuori, sentendo delle voci. Qualcuno diede loro dell’acqua e del pane, si riunirono, si incamminarono in silenzio, come se sapessero dove andare. Vagarono in un mare di rovine in fiamme.
File di morti dappertutto. Uomini in uniforme dappertutto. Camion pieni di morti dappertutto. Montagne di rovine scalfite da migliaia di mani silenziose e febbrili.
Mani che recuperavano sagome sporche e immobili, che una volta erano state esseri umani, ora solo materia carbonizzata.
Molte sagome erano tanto piccole.
“Italiani!”
Si girarono a fatica, scossi da quella voce stentorea dall’accento tedesco.
Era un ufficiale della Wehrmacht, i capelli bianchi scompigliati, l’uniforme piena di polvere.
“Italiani…in nome di Dio…aiutateci…”
E si coprì il viso con le mani scorticate, piangendo.
Paolo e i suoi compagni si unirono agli altri.
Si sentivano degli spari.
Estrassero dalle macerie tanti morti, li mettevano in fila dove veniva loro detto, prendevano le pompe dell’acqua dei vigili per srotolarle verso montagne di detriti in fiamme, dirigendo l’acqua sul fuoco che non si spegneva mai.
Si sentivano degli spari.
Paolo e un suo amico, Andrea, videro un bambino che si muoveva dentro una pozza d’acqua nera, a fianco di un palazzo sventrato.
Era immerso quasi completamente per tutto il fianco sinistro, compresa la guancia, che non staccava dall’acqua.
Sembrava sforzarsi a rimanere in quella posizione, a non uscire dalla pozza d’acqua. Era tutto sporco, come di catrame. Solo gli occhi, gli occhi avevano una luce disperata. Non emetteva un lamento dalla sua bocca chiusa. Severa. Offesa.
“Aiutiamolo a uscire” disse Andrea dirigendosi verso la pozza.
Paolo lo seguì lentamente, perché zoppicava.
Vide Andrea chinarsi sul bambino, afferrarlo a un fianco e sollevarlo. Dalla parte immersa di quel corpo, appena fuori dall’acqua, si sprigionarono fiamme arancioni, che fecero urlare il bambino e Andrea, che lo mollò immediatamente, scuotendosi con forza e tossendo, mentre il bambino rotolava nell’acqua fino a immergere nuovamente la parte in fiamme, rimanendo immobile, con la bocca semiaperta gli occhi fissi.
Si avvicinò un soldato. Indossava l’uniforme nera delle SS.
Guardò il bambino. Gli sorrise. Si chinò su di lui dicendogli qualcosa, lo accarezzò. Estrasse la pistola. Si sentì uno sparo.
Si girò verso Andrea, che alzò le mani. Il soldato rimase a guardarlo, inebetito, ripose la pistola nel fodero e guardò il bambino, che si era parzialmente girato e ardeva a tratti, di un fuoco che non si spegneva e si accendeva sempre a contatto con l’aria. Fece cenno ad Andrea e Paolo di tornare al lavoro.
Aveva uno sguardo duro, nonostante, sulla faccia impolverata, ci fosse il solco di una lacrima.
Si sentì un altro sparo.
Non si sapeva come spegnere l’effetto delle bombe incendiarie sulla pelle…