00 23/01/2009 02:01
ALLA RICERCA DEL SACRO GRAAL - Posts: 40
(10/04/03 05:55:52)


Walko

12.

L’alchimista Jammarcus Cepostas aveva fama d’essere uomo di grande ospitalità e tale si rivelò, lasciando senza problemi che l’insolita combriccola invadesse la sua dimora. Solo sul dobermann avanzò una piccola riserva:
- Morde?
Fu il dobermann stesso a rassicurarlo, rispondendogli:
- Solo chi se lo merita.

Zeno aveva una curiosità: quell’uomo non aveva l’aria di essere una persona avida, come mai si era messo proprio su quella strada, quella cioè di trasformare in oro i metalli volgari? Fu Jovall, che lo conosceva da tempo immemorabile, a spiegare agli amici che in realtà Jammarcus Cepostas era diventato alchimista indipendentemente dai suoi desideri: i suoi esperimenti infatti si indirizzavano inizialmente in tutt’altra direzione, ossia verso la ricerca della formula attraverso la quale si sarebbero potute trasformare la gramigna e l'ortica in purissimo radicchio d'Abruzzo. Non si sa come fu, probabilmente un errore di dettatura della formula alla sua fedele assistente padanamericana , la vice-alchimista Snowflower, (tesi assai probabile a causa della proverbiale particolarità di Cepostas, che essendo molto distratto spesso sbagliava a pronunciare le parole, come può capitare a un dattilografo che preme i tasti errati sulla macchina da scrivere); sia come sia, ad un certo momento la pignatta di rame nella quale cuoceva l’intruglio si trasformò sotto gli sguardi esterefatti dei due, e divenne d’oro. Da quel momento Cepostas cominciò a definirsi un “alchimista per caso”. Per anni aveva trasformato in oro metalli e materiali di ogni genere, dal ferro alla carta stagnola, donandolo ai poveri perché in effetti non era affatto avido, come aveva subito capito Zeno. Ad un certo momento, in tutto il circondario non c’era più un povero, per cui si rendeva difficile individuare qualcuno da beneficiare, senza contare che un’eccessiva produzione dell’aureo metallo ne avrebbe fatalmente fatto crollare il valore, secondo l’inoppugnabile legge di mercato, ragion per cui era tornato da tempo a dedicarsi agli esperimenti alchemico-botanici inerenti il radicchio, e nel contempo aveva aperto la sua casa agli incontri di poeti e stornellatori che ospitava e foraggiava, come un moderno mecenate.
Terminate le presentazioni, Jovall entrò in argomento, rivolgendosi all’alchimista:
- Si dice che da queste parti sia passato un Oggetto sacro, in possesso di una o più persone che se ne sono appropriate. I miei amici, che lavorano per un’Assicurazione, hanno ricevuto l’incarico di cercarne il recupero. Pensi di poterci essere di qualche aiuto?
- Esseticadente uan ria casirrima coppaboratroce chi ho il mone id um calzar biellese, tolto censabile alce cosce macre, ah azzertuto la prisanza ni qeutsa cisa, par ub corto tempio, do un Offetto colto parvisolare, zimuracente volto, folto parco.

I cinque amici si guardarono l’un l’altro con visibile smarrimento e anche con sgomento, Cornelius IV lanciò un alto, straziante guaito. Jovall pensò che forse sarebbe stato utile portare con loro Esmeraldas, che magari avrebbe potuto aiutarli a ricostruire sintatticamente e morfologicamente quelle frasi alquanto misteriose, oppure Faber che in diverse occasioni aveva dimostrato di saper ricostruire sintatticamente e morfologicamente le frasi altrettanto misteriose di Esmeraldas. Snowflower prese in pugno la situazione.
– Traduco io. Io sola sono in grado di capirlo, ci sono abituata da anni. Cepostas ha detto: “Effettivamente una mia carissima collaboratrice che ha il nome di un valzer viennese, molto sensibile alle cose sacre, ha avvertito la presenza in questa casa, per un certo tempo, di un Oggetto molto particolare, sicuramente molto, molto sacro”.
- Furcrobbo di qiu massa santa pende, darenne doffacile so onn ipnotibbile indigitaure lu serpone ech lo deretavano miprorpiacente. Mo dosfiacco poltissimo, micia, mannaggia!

Va da sé che si era potuto capire solo “mannaggia. Riprese Snowflower:
- Traduco: “Purtroppo di qui passa tanta gente, sarebbe difficile se non impossibile individuare le persone che lo detenevano impropriamente. Mi dispiace moltissimo, amici, mannaggia!”.
- Volando, vorrei ruttare un cacchio alla zia cotoletta fracica pur cervare novizie, ka teso ceh nin sorda e bulla in cesta wircospanza. Veglio rincupiare, affancù oi nol merda li fio rembo e ovi ik mostro.

Suguì un momento di imbarazzo, poi Snowflower si schiarì la voce e tradusse:
- Dice Jammarcus: “Volendo, potrei buttare un occhio alla mia scatoletta magica per cercare notizie, ma temo che non serva a nulla in questa circostanza. Meglio rinunciare, affinché io non perda il mio tempo e voi il vostro”.
- La rapate pene, von seno il topo de falko pezzente chi pende porcezie nu canto al culo.

Riprese la sua assistente, rossa in viso.
- Ehm…”Lo sapete bene, non sono il tipo di falso veggente che vende profezie un tanto al chilo”.

La serata terminò con l’immancabile invito a cena dell’alchimista per i cinque amici, naturalmente tutta a base di radicchio, dall’antipasto al dolce e anche al caffè, o per meglio dire “radè”, una recente invenzione di Cepostas. Degustarono infine un bicchierino di pura grappa al radicchio fatta in casa (160 gradi) che provocò qualche problema a Cornelius IV, il quale se per vicissitudine ora aveva le sembianze di un cane, come Barone Occlavius era pur sempre stato un inveterato donnaiolo: perduto ogni freno inibitorio, affogato nella notevole gradazione alcoolica della bevanda, prese a inseguire Snowflower per tutta la casa, sin dentro alle cucine dove la sventurata cercò riparo in un pentolone, e a quel punto il dobermann fu messo a cuccia da Jovall, con un ben assestato colpo di mestolo in testa.
Sulla porta, Jammarcus Cepostas li congedò con una frase misteriosa, pronunciata con le braccia levate al cielo ed un radioso sorriso in volto:
- Edvérice! Aceporràbia nunca veteriàsica! Olmòna ràuda mésa murvagòciva. Edde vilàntes brévia filippòttera!

Gli amici si voltarono tutti verso Snowflower, che allargò le braccia, e rispose al loro muto interrogativo con una desolata espressione in volto:
- Mi spiace…questa qui non l’ho capita nemmeno io!

Ripartirono che era notte fonda, senza aver fatto un passo avanti sulla strada del Graal.





Gio Girisper

13.

E fu così che, in contemporanea, i cinque uomini della 600 e le dieci ragazze del pulmino fecero rientro a Genova. Si sarebbero incontrati tutti la sera stessa al solito posto, il Free Bar, dove Jovall svolgeva le sue mansioni di pianista muto e di cecchino infallibile, per cercare di mettere a punto una strategia comune, visti gli insuccessi delle spedizioni in Piemonte e in Abruzzo. Dato che che al Free Bar era proibito l'ingresso ai cani di taglia considerevole, il Barone Occlavius per evitare discussioni decise di ricorrere ad un nuovo travestimento, con Jovall che si raccomandò di non dare nell'occhio.
Alla spicciolata, fra le otto e le nove di sera entrarono nell'ordine: Jovall, tutto in nero come sempre, che andò a prendere posto al pianoforte; Zeno, più magro del solito, quasi scheletrico, al punto che qualcuno lo scambiò per l'onorevole Fassino; il dottor Campanal, con una sgargiante camicia a quadrettoni rossi e gialli e una terrificante cravatta verde a pallini blu; Angela, con una camicetta scura trasparente che lasciava vedere tutto, visto che non indossava biancheria intima, e una minigonna vertiginosa; poi arrivarono insieme tutte le ragazze; e infine fece il suo rutilante ingresso Tarzan, a torso nudo, con un gonnellino di pelle di leopardo, muscolosissimo e abbronzatissimo! Subito Gio lo invitò a sedersi al tavolino e gli chiese se la lasciava sedere sulle sue ginocchia, mentre Jovall lo fulminò con lo sguardo mormorando tra i denti: "Barone, questa prima o poi te la farò pagare!"




Walko

14.

Intorno alle due di mattina il Free Bar si svuotò finalmente, dando modo alla combriccola di prendere contatto. Per prima cosa Jovall chiuse la tastiera del pianoforte, si alzò, si avvicinò a Tarzan e gli mollò un calcio in uno stinco, di punta, facendogli emettere il famoso urlo.
- Meno male che avevo detto di non dare nell’occhio! Diversamente, avessi detto di dare nell’occhio da cosa ti saresti travestito? Da fuoco artificiale?
- Perdonami Jovall, credimi: sono io per primo molto imbarazzato. Sono pur sempre un nobile di antico e glorioso lignaggio. C’è stato un errore. Da quando hanno inventato quel nuovo meccanismo informatizzato per la trasformazione di noi fantasmi non si capisce più nulla. Prima si doveva fare richiesta e aspettare un paio di giorni, adesso è tutto automatico, ma… Ho inserito i dati della nuova identità scegliendo le opzioni: essere umano, sesso maschile, trenta anni circa, capelli scuri lunghi, fisico atletico, voce potente, amante degli animali, amante dei luoghi solitari e della natura incontaminata… ed ecco qua! Tarzan!
- E non potevi ritrasformarti subito in qualcos’altro?
- No, purtroppo. E’ consentita una sola trasformazione nelle ventiquattro ore. Comunque poteva andare peggio: un mio vecchio amico, il fantasma del Cardinale Prestigiani, qualche settimana fa si è sbagliato ad inserire i dati e si è trovato trasformato in una latrina nel bel mezzo di Piazza Montecitorio durante una manifestazione. I manifestanti sono stati felici di avere a loro disposizione un vespasiano. Il Cardinale molto meno.
- Immagino. Bhè, vedi di stare più attento la prossima volta! Inserisci dati molto soft. Però anche tu, Angela, non potevi essere un po’ più sobria?

Angela arrossì e abbassò la testa. In effetti, nel pomeriggio aveva fatto un po’ di shopping e si era lasciata prendere la mano, era la prima a riconoscerlo. Da quando era uscita così conciata dal negozio del centro aveva già ricevuto un centinaio di proposte indecenti e sarebbe stata dura spiegare che, anche volendo, non avrebbe comunque potuto accontentare nessuno da quel lato, dato che non aveva sesso, essendo un angelo.
I cinque uomini del misterioso gruppo di Jovall e le dieci ragazze del Club di Libere Parole si scambiarono le informazioni sugli ultimi avvenimenti, prendendo atto del sostanziale fallimento delle rispettive spedizioni. Ad un tratto la porta del locale si spalancò e un uomo vi fece la sua disastrosa entrata: probabilmente inciampando sul gradino d’ingresso, entrò infatti volando e finendo sopra ad un tavolino che ne risultò distrutto. Jovall immediatamente puntò la pistola verso di lui, mentre Tarzan con un balzo gli fu addosso e cominciò a picchiarlo di santa ragione. Per sua fortuna LuBa ebbe un’intuizione:
- Ehi, ma mi sembra di conoscere questa faccia!

Tarzan, tenendo lo sventurato per i capelli, voltò quella faccia verso di lei, perché potesse vederla meglio. Gio, attenta osservatrice, la anticipò:
- Ma sì! Non avete presente la foto? E’ lui: capelli corti neri, maglietta bianca, occhiali… è Zublinky!

Era proprio lui, infatti. Avvisato tramite una misteriosa email circolare di tenersi pronto per un incontro a Genova con gli altri componenti del Club per svolgere una missione segreta, aveva preso ferie ed era andato subito lì al Free Bar, che secondo l’email era il luogo di raduno. Mise a fuoco i visi delle ragazze che aveva di fronte, mentre Tarzan lo risollevava in piedi e lo rimetteva un po’ in sesto spolverandolo e pettinandolo con le mani, e si rese conto di trovarsi proprio in mezzo alle ragazze del Club che finora aveva visto solo in fotografia. Seguirono saluti calorosi e la presentazione di Jovall, Angela, Zeno, Campanal e Tarzan che si scusò nuovamente e si presentò come il Barone Occlavius, al che Zublinky ragionò fra sé chiedendosi che razza di nobile fosse questo che andava in giro praticamente nudo e tutto scarmigliato aggredendo e prendendo a schiaffoni il primo malcapitato che inciampava e cadeva entrando in un bar. Quando gli dissero che si trattava di un fantasma si spaventò e voleva scappare, e ci volle tutta la pazienza di Kate Orlandow per convincerlo che si trattava di un fantasma buono e persino simpatico, che non gli avrebbe fatto alcun male, salvo al massimo farlo volare su un tetto. Jovall tagliò corto, spiegando all’ultimo venuto tutta la situazione, poi si rivolse agli altri.
- Dovete sapere che il qui presente Zublinky è uno storico per passione. Io credo che sarebbe utile per tutti conoscere nei dettagli la storia del Sacro Graal ed egli è la persona più indicata per renderci edotti.

Furono tutti d’accordo su questo punto e quando il barista se ne andò, chiudendo la saracinesca e lasciando le chiavi a Jovall, tutti si sedettero in cerchio intorno a Zublinky che fece mente locale per qualche minuto e poi cominciò a raccontare:
- Dunque: in Gran Bretagna, moltissimi secoli fa, regnava un Re molto democratico e tollerante, di nome Arthur. Era talmente semplice di costumi e alla mano che quando andava al mercato a fare la spesa la gente, incontrandolo per le contrade, gli si rivolgeva fuori da ogni protocollo cerimoniale e gli diceva: “Uhé, Artu’, come va?”; da qui il nome con cui è universalmente noto: Artù, appunto. Re Artù aveva sposato una donna bruttissima, di nome Ginevra, che oltre che racchia era pure cattiva e pigra, tanto è vero che toccava a lui fare i lavori di casa e cucinare, mentre lei passava la mattina a dormire, il pomeriggio a guardare le telenovelas in tv e la sera a ballare al circolo dei Cavalieri, un locale affacciato sulla Manica, dove oggi ci sono le bianche scogliere di Dover che allora erano grige dato che non le avevano ancora imbiancate: nel locale in riva al mare si faceva ballo liscio e si giocava a ruba-mazzetto sulla famosa tavola rotonda che dava il nome al locale e che divenne arcinota poiché fu immortalata da un cantore dell’epoca, tale messer Alfred Bongusto detto Fred, nel suo immortale carme: “Una rotonda sul mare”. Il vecchio Artù aveva sposato quella cozza di Ginevra non per la sua bruttezza, ma perché era figlia di un banchiere svizzero, così che quel matrimonio salvò le casse del Regno, svuotate a suo tempo dal padre di Artù, Re Osvald detto Osvà, gran sbevazzone, donnaiolo e scommettitore sfigatissimo, fondatore della Tavola Rotonda dove si mangiò anche le mutande in una famosa sfida con un professionista del gioco d’azzardo, tale Emilio da Catania, crociato Cavaliere della Fede, già difensore del Sacro Sepolcro di Hammahmet e paggio di Sua Maestà il Re delle Italie e delle Antenne Silvion della Berlusca. Ginevra, oltre ad essere ricca come il mare e brutta come la sventura, era anche una gran troia, se mi si concede la licenza. Siccome non mancavano nemmeno a quei tempi gli uomini per cui basta che una femmina possieda la virtù di respirare per esser degna di copulazione, la Regina aveva in quegli anni avuto modo di piantare sulla testa del Re consorte altissime ed ampissime ramificazioni. In quel periodo la Regina se la faceva con un cameriere della Tavola Rotonda, che come tutti gli altri camerieri del locale aveva il titolo di Cavaliere ed era anche tenuto a combattere se ve ne fosse stato il caso. Questo Cavaliere si chiamava Peppino Lancillotto, detto Pepè, ed era talmente vanesio da rifiutarsi di portare gli occhiali, pur mancando di sette diottrie da un occhio e nove dall’altro: per questo motivo trovava Ginevra bellissima e ne era innamoratissimo; lei stessa se ne innamorò, vedendolo viincere il Rodeo che annualmente si teneva a Wembley tra i Cavalieri del Regno. In quell’occasione riuscì fortunosamente ad arrivare in finale, menando colpi di lancia a casaccio contro avversari negati come lui, ma in finale trovò niente meno che il Cavaliere Nero, che si era liberato degli avversari con grande maestria ed era noto come un invincibile campione. Lancillotto voleva ritirarsi, ma pensò che davanti a Ginevra non poteva fare una figuraccia simile e infine decise che si sarebbe interamente affidato alla sua arma segreta: il “culo”. Lancillotto e il Cavaliere Nero, alzata la visiera in gesto di sfida, si fissarono negli occhi molto a lungo, anche se a dire il vero Lancillotto non vedeva un tubo di niente, quindi partirono per la tremenda sfida, tra il silenzio pieno di tensione del pubblico; si sentiva soltanto Re Artù che assiso sul trono in tribuna centrale russava, essendosi addormentato durante l’attesa. Quando i due Cavalieri furono a pochi metri di distanza, Lancillotto che aveva il braccio stanco fece l’errore di abbassare troppo la lancia, tanto che questa si piantò nel terreno, catapuldandolo come un proiettile umano verso il Nero che venne colpito in piena faccia e stramazzò al suolo in stato di morte apparente. Da quel giorno fu detto il “Cavaliere Sdentato”. Sta di fatto che al vincitore del Rodeo Re Artù aveva deciso che avrebbe affidato una missione delicatissima: il Mago di corte, Gianbaldassarre Merlo, detto Merlino per la sua bassa statura, oltre a rivelargli come ogni settimana i numeri del “superenalotto” regolarmente sbagliati, gli aveva parlato del fortunoso ritrovamento del Sacro Calice, avvenuto in Terra Santa in quei giorni. Disse che aveva avuto una visione, ma in realtà lo aveva letto nelle pagine interne del ”Corriere della Sera”, secondo cui il Calice era stato trovato tempo prima nelle cantine della “Locanda dell’Ultima Cena”, a Gerusalemme, durante i lavori di ristrutturazione del locale, trasformato in una discoteca, ed ora era custodito nel palazzo dello Sceicco Masìm Mustafà D’Ahlema detto “Baffino”, discendente del famoso Feroce Saladino, Sceicco Josìf Abdhul Stahlìn detto anche “Baffone”. Si trattava di andare a recuperare il Sacro Graal con una bella crociata, come non se ne facevano da molti anni ormai. Re Artù telefonò al Papa, Giuliano I, noto anche come “Giuliano la Prostata”: il già Cardinale Pachidermo da Ferrara da anni pontificava su tutto dalle televisioni e dal foglio che pubblicava, finché, pontifica oggi pontifica domani, lo avevano elevato al Sacro Soglio come Sommo Pontefice, potendo anche contare sulla sua antica amicizia con il già nominato Sovrano delle Italie e delle Antenne. Il Papa accolse con entusiasmo l’idea di Artù, anche perché da tempo meditava di infliggere una sonora lezione all’odiato rinnegato ex Cardinale Gualtiero del Gran Veltro, detto il Veltrone, che da Vescovo ausiliario di Roma ai tempi di Papa Prodo I (ovverosia il già Cardinale Romano Emiliano da Reggio detto “er Mortadella”, in seguito spodestato, e in quei tempi Anti-papa insediatosi nella nuova Santa Sede di Bruxelles), si fece musulmano e si trasferì a Gerusalemme presso la corte dello Sceicco D’Ahlema diventandone consigliere. Papa Giuliano I benedisse la crociata, chiedendo che vi partecipasse anche la Francia, Paese di antica tradizione cattolica, retto all’epoca da Re Carlo dei Francesi, cattolicissimo e di origine romana come prova il fatto che in seguito fondò il Sacro Romano Impero, un omone di pari stazza rispetto a quella del Papa e di proverbiale grande appetito, che usava sospendere all’improvviso anche la riunione più importante e delicata con la frase: “Pausa! Mò magno!”, ragion per cui passò alla storia appunto con il nome di Carlo Magno. Mentre Artù mise a capo dei suoi crociati l’allibito Lancillotto, che si disse che stavolta il suo “culo” non aveva funzionato a dovere, poiché viste le consegunze tutto sommato il Rodeo sarebbe stato meglio perderlo, Carlo mise a capo delle sue truppe il proprio nipote Orlando, tanto per levarselo un attimo dalle scatole, lui e le sue continue richieste di soldi. In quei giorni Orlando era furioso perché la sua squadra, l’Inter, tanto per cambiare non aveva vinto lo scudetto, ma la cosa era aggravata dal sorpasso subito proprio all’ultima giornata dall’odiata rivale d’ogni tempo, la Juventus: la cosa lo fece talmente incazzare da uscir di senno. Carlo mandò Rinaldo sulla luna a cercare il senno di Orlando, ma quando vi arrivò trovò una bandiera americana e un negro che suonava la tromba. Esterefatto gli chiese chi fosse, e quegli rispose alquanto indispettito: “come chi sono? Sono Armstrong, il primo uomo ad aver suonato jazz sulla luna!”. Rinaldo andò in confusione per questa vicenda, anche perché a lui risultava che Armstrong fosse di pelle bianca e avesse vinto gli ultimi Tour de France di ciclismo. Sta di fatto che ritornò sulla terra recando seco non il senno di Orlando, bensì il seno di Alba Parietti, passando alla storia come lo scopritore del silicone. Quando Orlando seppe che il Re suo zio lo aveva nominato capo-spedizione, fuori di sé, andò ad armarsi della Durlindana, che era poi un enorme randello, e marciò verso il palazzo reale deciso a bastonare lo zio per l’idea balzana che aveva avuta, ma per strada fu raggiunto dalla notizia che tra gli scopi della spedizione vi era quello di punire il Cardinal rinnegato, il Veltrone, che era notoriamente un accanito tifoso della Juventus. Orlando, sentito questo, si gonfiò d’ulteriore furore e andò ad unirsi con entusiasmo con le truppe britanniche che avevano appena attraversato la Manica, capitanate da Pepè Lancillotto che muoveva in aria come un ossesso il manico di Excalibur, la spada fatata conficcata nella roccia che anni prima Artù aveva tentato di sradicare da lì, restando lui con il manico in mano e la lama conficcata dov’era. Era tradizione che il capo-crociato ricevesse dalle mani di Artù il manico della spada da portare in spedizione, anche se chiaramente non serviva a un cavolo di niente, tutt’al più la si poteva tirare o dare in testa a qualcuno procurandogli un bozzo. Quella volta non servì nemmeno a quello, dato che appena entrato nella Capitale di Francia Lancillotto lo sollevò alto per salutare la folla, ma il prezioso manico gli sfuggì di mano e finì in un tombino aperto, perdendosi nelle fogne di Parigi, dove fu ritrovato solo molti secoli dopo dal campanaro di Notre-Dame, che lo regalò a Esmeralda…
- A me? – interruppe Esmeraldas – Non è vero! Mai visto un manico di spada senza lama!
- No, doveva trattarsi di un’omonima, o di una tua ava – sentenziò Blondielaura –Continua, Zub!
- Dov’ero rimasto? Ah, sì: i crociati partirono da Parigi alla volta della Terra Santa e vi arrivarono alla rinfusa dopo alcuni mesi, un po’ a cavallo, un po’ a piedi, un po’ in bici e un po’ in autostop. Si riunirono tutti in una taverna alle porte di Gerusalemme, dove si ubriacarono e fecero notte cantando a squarciagola. Nel frattempo, nella Moschea dello Sceicco, Veltrone avvisò dell’arrivo dei crociati che cercavano il Sacro Graal. “E che minchia è ‘sto Graal?” chiese D’Ahlema. “La Coppa” rispose Veltrone. “La Coppa dei Campioni? E che ci fa qui a Gerusalemme?“ ribattè D’Ahlema. “Ma no, è il Calice!” puntualizzò Veltrone. “E tutto ‘sto casino per un bicchiere?” protestò lo Sceicco. Veltrone gli spiegò che non era propriamente un qualsiasi bicchiere, e che per i cristiani era un simbolo di grande importanza. D’Ahlema pensò che non era il caso di combattere per quella cianfrusaglia, ma nemmeno di consegnarla senza combattere e mandò Veltrone all’accampamento dei crociati, alle soglie del deserto, per trattare su queste basi: lui gli avrebbe dato il Graal, in cambio avrebbe avuto la concessione sui territori di Terra Santa per i prossimi cinquant’anni, senza più discussioni e crociate per tutto il periodo. Consegnò a Veltrone la sua insalatiera d’argento, ben lavata, dicendogli: “Io il Graal non so nemmeno dov’è e com’è fatto, questa insalatiera andrà benissimo, tanto quelli mica l’hanno mai visto ‘sto Graal!”. Veltrone portò l’oggetto insieme al documento stilato su pergamena coi termini dell’accordo, ma non fece in tempo a iniziare le trattative perché, appena lo vide e lo riconobbe, il paladino Orlando, più furioso che mai, lo aggredì. Veltrone, riconosciuto l’interista furioso che aveva perduto lo scudetto e il senno, fu tentato di scendere a patti, ma pensò che se aveva potuto rinnegare la fede cristiana per abbracciare quella islamica, mai e poi mai avrebbe potuto abiurare la fede juventina per quella interista; dunque risolse di non trattare né combattere contro quel forsennato e se la diede a gambe, con Orlando che non si rassegnò a lasciarlo andare così, e prese a inseguirlo per tutto il deserto, mollandogli ogni volta che gli veniva a tiro calci in culo e durlindanate sulla testa. I due scomparirono così nel deserto e non si seppe mai più nulla di loro. Lancillotto, rimasto unico comandante della spedizione, si consultò con Artù, Carlo e Giuliano “la Prostata” e accettò lo scambio, firmando in calce la pergamena con un segno di croce, non in quanto crociato, ma in quanto analfabeta quale era, quindi ritirò l’insalatiera e ripartì insieme alle truppe, destinazione casa. Quando Merlino vide l’insalatiera si mise a urlare come un ossesso. Lui aveva visto in visione, cioè ne aveva visto la foto sul “Corriere”, il vero Calice e non era affatto quell’insulsa insalatiera. Era chiaro che il viscido ed infido Sceicco D’Ahlema li aveva turlupinati, gabbati, raggirati, abbindolati, insomma: aveva loro tirato un pacco. L’insalatiera d’argento fu destinata a diventare il premio per una competizione internazionale di un nuovo sport che stava prendendo piede in quei giorni: si trattava di buttare di qua e di là da una rete una pallina da cricket colpendola con un battipanni, uno sport inventato da un certo Tennis Davis, che diede il nome alla Coppa che in realtà era stata appunto l’insalatiera dello Sceicco “Baffino”. In Terra Santa era rimasto un aspirante Cavaliere, aiutante di campo di Lancillotto, che si era perso nel deserto dopo la sbronza del giorno dell’arrivo. Quando riuscì a ritrovare la via di Gerusalemme, indicatagli da Orlando e Veltrone incontrati nel deserto durante il loro furioso inseguimento, per prima cosa entrò in una locanda e chiese da bere. Una beduina gli disse di prendersi un bicchiere e andare a bere dalla fontanella che stava in piazza. Così fece, e quando fu il momento di ripartire decise di tenersi il bicchiere come ricordo. Giunto a casa, Merlino appena vide quel bicchiere vi riconobbe il Calice, proprio lui: il Sacro Graal! Fu così che grazie ad un’incredibile botta di culo, per mano di quell’attendente tonto e imbranato di nome Parsifal, subito nominato Cavaliere della Tavola Rotonda, le potenze cristiane entrarono in possesso del Sacro Graal. Venuto a conoscenza del misfatto, lo Sceicco D’Ahlema si incazzò e decise di muovere guerra all’Occidente, ma non potendo più contare sui preziosi consigli del Veltrone disperso nel deserto, sbagliò strada e al comando delle sue truppe rosse di due milioni di beduini invase la Russia, dove ebbe facilmente ragione dei Tartari, che per parte loro nonostante la fama erano pacifici e sedentari, tanto è vero che da secoli aspettano un loro attacco dalla Fortezza nel Deserto omonimo, Drogo e i suoi, e ancora non s’è visto nessuno. Quando D’Ahlema entrò trionfalmente a Mosca, credendo fosse Parigi, vi fece costruire il Cremlino a due passi dalla Moscova, che lui credeva la Senna, e lì stabilì la sua sede. Di lì a pochi anni, un Marajà che aveva capito tutto, prima che D’Ahlema fiutasse l’errore e ripartisse verso occidente col rischio di prenderle di santa ragione dalle potenze cristiane, ormai riunite nel Sacro Romano Impero, depose D’Ahlema e si assise al suo posto, dopo avergli fatto tagliare i baffi e averlo fatto rinchiudere in un manicomio, abolendo il titolo di Sceicco e assumendo il ruolo e il nome di Premier del Soviet Supremo Faust Ivan Bertinottiejev. Il Sacro Graal, passato nel frattempo dalle mani di Re Artù a quelle dell’Imperatore Carlo già Re dei Francesi, fu consegnato da questi con una solenne cerimonia al nuovo Papa Pippo I, già Cardinale Baudo da Catania detto “Pennellone”, pochi mesi prima innalzato a furor di popolo dalla sua sede di Arcivescovo di Sanremo al Soglio Pontificio. Egli raccolse nelle sue mani il Sacro Graal e lo depose in un luogo segretissimo delle stanze Vaticane, dove verrà trafugato da ignoti molti secoli dopo. Alla solenne cerimonia andata in onda a reti unificate con la telecronaca di Bruno Pizzul affiancato nell’occasione da Davide Cassani parteciparono, insieme all’Imperatore Carlo Magno, tutti i regnanti d’Europa: dal Re Italiano Silvion I della Berlusca al Monarca Spagnolo Julio IV Iglesias De La Noya, dal Sovrano Olandese Pietro III Astrologhens De Van Wood al Re Germanico Franz VII Beckenbauer Von Bayern München. Mancava solo il nuovo Sovrano dei Britannici, Re Lear, che aveva dovuto in quei giorni sottoporsi all’estero ad un delicato intervento chirurgico di appendicectomia, intervento peraltro non perfettamente riuscito, e che fece ritorno da Casablanca a Londra solo dopo diversi mesi di convalescenza, riprendendo in mano lo scettro e risedendosi in trono con il nome di Regina Amanda-Lear.

Così terminò il lungo racconto di Zublinky sull’affascinante storia del Graal. Ora si trattava di rimettersi in moto per ritrovare il Calice. Jovall chiese ai presenti se qualcuno di loro avesse qualche idea sul da farsi.





[Modificato da fiordineve 23/01/2009 02:03]