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Ultimo Aggiornamento: 28/01/2009 18:51
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Si accomodi” disse il primario, voce profonda.
Giovanni sedette davanti alla scrivania, trattenendo il respiro, guardandolo mentre sfogliava silenziosamente la cartella celestina, con atteggiamento severo.
“Suo padre ha settantotto anni…”
“Si… da poco…”
Il primario annuiva lentamente, sempre sfogliando la cartella, poi la chiuse, con un rumore secco.
“Dagli esami… dall’andamento generale… da ulteriori riscontri…per quanto alcuni… si, ancora in fase di ulteriore accertamento… non ci sono dubbi.”
“…Si..?”
“Il polmone sinistro di suo padre è compromesso. Tenteremo un decorticamento, ma è troppo tardi. Il … problema si è esteso. Troppo.”
“Vuol dire…”
“Si.”
“Quando..?”
Il primario scosse la testa. Lo guardò attraverso le lenti.
“Molto poco. Un mese.”
Giovanni guardò fuori dalla finestra. Sentiva le orecchie fischiargli fino a fare male, la gola seccarsi, la lingua assumere sapore di ferro.
Quell’albero fuori muoveva le cime al vento, parvenza di vita.
Non lo aiutava.
Non riusciva a fermare le sue lacrime repentine.
Il primario chinò lo sguardo sulla cartella, rimase in silenzio.
“Cosa… devo fare … dottore?”
“Cerchi di stargli vicino. Senza fargli capire.”
“Come si chiama … quello che ha?”
“Carcinoma”.

Giovanni uscì nel corridoio. Vide un infermiere aprire la porta a vetri che dava sul corridoio dei ricoverati in chirurgia.
Era l’orario delle visite.
Alcuni parenti cominciavano a entrare. Lui rimase in piedi, in un angolo, poi prese l’ascensore e scese al piano terreno. Si ritrovò in accettazione. Gente seduta e in piedi, tutti che parlavano, le voci che rimbombavano, aspettavano che si accendesse il numero di prenotazione sui pannelli sopra le teste degli impiegati.
Non gli era di conforto stare in mezzo alla gente.
Nessuno sapeva di suo padre.
Voleva stare solo. Si mise a piangere dietro la macchinetta delle bibite. Silenziosamente. Le lacrime scorrevano. Nessuno si girava a guardarlo.
“Non devo…Non devo…Non devo piangere. Se ne accorgerà.”
Mise delle monete dentro la macchinetta, schiacciò un bottone a casaccio, uscì una lattina ghiacciata.
Se la passò in faccia, sulla fronte.
Bevve. Senza sentire sapore. Si sciacquò la faccia in bagno. Passava il tempo. Doveva andare. Risalì in chirurgia.
Un’infermiera ne usciva trascinando il lungo carrello del pranzo.
Entrò nel corridoio, quella porta che conosceva da mesi. Suo padre era nella terza stanza a destra, secondo letto, come si entrava.
Era intento a mangiare, con le spalle alla porta e non si era accorto di lui.
Il piatto posato ordinatamente in un angolo del comodino, mangiava lentamente, le spalle curve, i capelli bianchi, inusitatamente lunghi, li portava sempre corti, retaggio della sua vita passata nell’Arma dei carabinieri, fuoriuscivano dal colletto del pigiama in ciocche disordinate.
Sul letto disfatto un giornale accuratamente piegato.
Lo comprava e lo leggeva tutti i giorni, anche lì.
Annuiva masticando, muovendo i baffoni, come rispondendo a delle domande, che solo lui sentiva.
Guardava il cielo oltre la vetrata davanti e sicuramente stava valutando che era il tempo ideale per cominciare a potare la vigna, svecchiarla di quei ceppi che sapeva lui, eseguire quegli innesti, aggiustare quel palo, prenotare il trattore per ararla.
Come fosse a casa sua, potesse disporre del suo tempo per farlo, come sempre.

Tutte cose che doveva fare, appena usciva di lì.
Continuava ad annuire lentamente, masticando, come a sancire che era proprio così.
Beveva l’acqua minerale dell’ospedale come se fosse il suo vino, con serietà e compostezza, come degustandola, posando con cura il bicchiere di plastica sul comodino.
Ogni tanto arrestava i movimenti del braccio, intralciati da quel tubicino di gomma che gli usciva dal fianco, andando a finire in un contenitore trasparente ai piedi del letto, che si riempiva lentamente, di un liquido giallastro, che usciva dal polmone. Giovanni, di traverso alla porta, lo osservava.
Quei movimenti così familiari, così cari, fin da quando era bambino. Le labbra gli tremarono, gli occhi ripresero a inumidirsi.
Si tirò lentamente indietro.
Quelle maledette lacrime.
- Finisci di mangiare tranquillo … papà…
Non ancora … Non ancora. -
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23/01/2009 22:12
 
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Ho avuto difficoltà a leggere fino in fondo, mi hai fatto riaffiorare tanti ricordi, ancora troppo recenti per riuscire a viverli serenamente.
Sono momenti terribili, momenti di rabbia, di dolore, anche di solitudine.
Ti chiedi perché è capitato proprio a te e ai tuoi cari perché fino al giorno prima pensavi che potesse capitare solo agli altri, non a te.
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23/01/2009 23:31
 
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Mi rendo conto di cosa provi, Eli. Io, quel momento l'ho vissuto sei anni fa,
Giovanni del racconto sono io, in tutto e per tutto, e ancora che ci penso.
Non mi è servito a niente cercare rifugio nella nostra religione, quando ti rendi conto che, levati gli orpelli, i dogmi, la pretesa di parlare in nome di Dio, duemila anni di squallida lotta per la ricchezza e il potere, levato questo, rimane poco o nulla che ti possa aiutare. Bisogna reagire da soli. Dentro di noi possiamo trovare la forza, che ci viene senz'altro da qualcosa di Infinito.
Solo la speranza che siamo davvero immortali e che un giorno ci riuniremo con chi abbiamo amato, ci può aiutare, nonostante squallidi individui continuino ad affermare che dobbiamo pentirci già appena nati.
Ma pentirci di che?

Alberto
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24/01/2009 14:50
 
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Di niente, proprio di niente.
La mia ricetta che va bene per me ma non ho la pretesa di fornirla anche agli altri è di vivere la vita come viene. Accontentandosi dei brevi momenti di gioia che ci regala e accettare le prove quando arrivano.
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27/01/2009 13:52
 
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In quel Giovanni, tanti di noi si riconoscono. Anch'io ho faticato ad arrivare alla fine. Gli occhi si rifiutavano di andare avanti. Anch'io ho vissuto un momento così, nascosto lacrime che alla fine, troppo trattenute sono sgorgate a fiumi, nella solitudine. Dopo sette anni, riesco ancora a malapena a ricordare quei momenti.
Ho imparato a vivere al presente e ora apprezzo molto di più quello che ho. Il dolore però, quello resta.
[Modificato da kamo58 27/01/2009 13:53]
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28/01/2009 15:17
 
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Mio marito mi ha detto una cosa molto toccante qualche settimana fa: "ti accorgi del tempo che passa perché hai la consapevolezza che quelli che se ne sono andati non torneranno mai più."
E' vero ed è disarmante prenderne consapevolezza.
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28/01/2009 18:51
 
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Si, è vero Eli, quelli che se ne sono andati non tornano.
Ma penso che la nostra vita abbia un motivo, una ragion d'essere.
Non voglio pensare che un uomo possa vivere una vita, bella o brutta, e poi morire e basta. Per che cosa è vissuto?
Certa gente crede solo a quello che vede. Vedono un corpo che muore e dicono : la vita è finita, stop. Voglio credere che esista un'anima in noi, che non muore mai, che sia stata mandata nel mondo materiale per fare esperienza, per capire e che per questo si viva, si soffra, ci si disperi.
Non riesco ad affermare che per una vita di ottanta anni del nostro tempo uno vada all'inferno o in paradiso per l'eternità, non ha senso.
Se uno sbaglia, che ripeta la vita e altre ancora, fino a capire, questa è la teoria della reincarnazione, ma non sono sicuro nemmeno di questa, è stata abbastanza ridicolizzata dai nostri mass media in parecchie occasioni, che a parlarne si sfiora il ridicolo, qualcosa deve esserci però.
Coloro che se ne sono andati non tornano dov'erano prima. (Almeno, non ci sono testimonianze attendibili, salvo sporadici casi di presunta reincarnazione, guardati però con sufficienza).
Ma forse, a sentire taluni scienziati, se è vero che esistono infiniti universi e universi paralleli...

Alberto
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