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Paradiso all'alba

Ultimo Aggiornamento: 12/05/2008 00:31
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27/04/2008 18:29
 
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Parecchio che Marco non viaggiava in treno, meglio, così aveva tempo per pensare, anche se lo faceva spesso, alla sua vita, per rimanere, ancora una volta, con l’amaro in bocca.
Ma non si lamentava mai in modo eclatante. Certo, sarebbe stato bello se le cose fossero andate diversamente.
E poi oggi era una giornata diversa. Dopo aver consegnato i plichi al Ministero, aveva preso la pazza decisione di fermarsi alla Scuola Militare frequentata da ragazzo, quasi quaranta anni prima. Veramente una pazza idea, ma in fondo lui amava vivere di ricordi
e quella Scuola era un piacevole ricordo.
Chissà perché, dondolato dal rumore del treno, gli era così dolce e congeniale ricordare tutta la sua vita.
Gli tornava puntuale alla mente il pensiero di non essersi fatto una famiglia. Gli sarebbe piaciuto tanto, una donna, dei bambini, ma non c’era mai riuscito. Non aveva mai provato e dentro di se ammetteva di non avere avuto coraggio, in questo come in altre cose.
Quando si era arruolato i suoi genitori erano ancora vivi, la famiglia unita, i parenti in armonia. Quanto erano belle le feste di Natale e Pasqua e quelle del Santo Patrono, tutti uniti, davanti alla chiesetta bianca che si affacciava sul mare!
Per non parlare dei battesimi, comunioni e cresime, nonché dei matrimoni all’antica, che duravano una settimana, con le file di spiedi che arrostivano nei cortili e i vecchi che parlavano di cose memorabili! I nonni tenevano unita la famiglia. Morti loro, erano cominciati i primi screzi, i litigi sulla spartizione dei terreni, cause in tribunale, voltafaccia, smettere di rivolgersi anche la parola.
Ricordava i giorni che tornava in licenza, i genitori tristi, abbandonati dagli altri figli, che erano andati a trovare lavoro lontano, come lui. Ma lui tornava sempre a casa appena poteva.
Anche dopo che i suoi morirono. Tornava sempre e guardava con dolore l’erba che aveva invaso l’orto e allora, sgomento, usciva da quella casa vuota, cercando il calore della gente nel paesino bianco di sole e di facce che lo evitavano.
Con immenso dolore aveva venduto la casa dei genitori e non era più tornato al paese.
La caserma era diventata il suo paese, la sua casa, la sua famiglia. Il suo monastero. Ora stava per andare in pensione e non sapeva dove andare. Aveva insistito perché mandassero lui al Ministero a portare delle scartoffie urgenti, suscitando sorrisi di compatimento nei superiori e nei colleghi, davanti a questo suo colpo di coda, lui, che si teneva sempre accuratamente in disparte.
Ma si era messo di puntiglio, e alla fine l’aveva spuntata.
Si complimentava con se stesso. E poi aveva deciso di fare una capatina alla sua vecchia Scuola di allievo. Sentiva che doveva andarci. Si prendeva in giro, tollerante, dichiarandosi un poeta fallito, a causa di questo suo sentimentalismo infantile. Si. In fondo era un poeta, anche se non aveva mai scritto poesie.
Ma bisogna veramente scrivere poesie per essere poeti?
Non era mai riuscito a essere se stesso, pensava di essere buono, ma sicuramente era sempre stato travisato per questo suo atteggiamento. Passava un po per lunatico, suonato, forse anche ambiguo, guardato con divertente e malevolo sospetto per la sua scarsa partecipazione a interessi e divertimenti comuni. Era come un marchio rimastogli appiccicato addosso tutta la vita e che lo faceva stare male. Si era sempre stupito della superficialità e della crudeltà di quanti gli stavano intorno, uomini che tornavano alle loro case ed erano amorevoli mariti e padri di famiglia. Ma non avevano lo stesso amore nei confronti dei loro simili, più sfortunati.
Invano aveva cercato di farsi valere, ma un’anima di poeta non può indossare la giubba di battaglia.
Sospirava Marco, con i rumori del treno che battevano assieme al suo cuore. Attraverso il finestrino, sotto una fantastica luna piena, vedeva colline su cui si inerpicavano vigne all’infinito, ceppi alti, contorti, come braccia spalancate al cielo in una processione supplichevole…la povera vigna di suo padre, che aveva abbandonato…
Una lacrima salata, eppure, eppure non aveva risentimento, guardava ancora al mondo con stupore, aspettativa fiduciosa, voglia di fare…anche se sapeva di non essere riuscito a fare niente.
Con un certo sforzo era riuscito a scendere dal treno, sgusciando tra la folla stretta intorno a lui, tutti che urlavano, lo soffocavano, gli toglievano il respiro. Con le orecchie che ancora sibilavano si era ritrovato solo, su un marciapiede di pietra nera lucido di pioggia, a fianco di un binario che si perdeva all’infinito.
Mancava ancora un po all’alba, era evidente dalle striature arancio e bianche lampeggianti che si intravedevano attraverso il cielo.
La stazione era deserta, illuminata da antiquati lampioni gialli.
Uscì all’aperto, alzando il bavero del suo cappotto, perché sentiva freddo. Riconobbe la piazza a emiciclo, vi aveva passeggiato spesso da giovane, con i compagni. Si guardò intorno. Nessuno.
La pioggia notturna era cessata, una nebbia fine avviluppava i vecchi palazzi intorno a lui, penetrando arcate e portici, fuoriuscendo sinuosa, blandendo colonne e pareti, circondandolo silenziosa. Sorrise.
Gli venne in mente che non aveva nessun motivo per entrare alla Scuola Militare, la nostalgia non era sufficiente. Gli sarebbe bastato rimirarla da fuori per accendere i suoi ricordi, poi sarebbe ripartito. Ricordava la piccola chiesa all’angolo della strada in salita che portava alla Scuola. Ecco la chiesa. Spesso vi si era recato a pregare, senza dirlo a nessuno. Come si chiamava?
Il massiccio portone era ancora chiuso, guardò le pareti scolpite : una moltitudine di angeli dagli ineffabili sorrisi sembravano fluttuare avvolti dalla nebbia, i visi bagnati, luccicanti,sereni.
Uno di questi angeli, il più maestoso, indicava un punto, con tanta dolcezza e al contempo con tanta solenne autorità, che Marco, essendo un poeta, non si stupì di voler vedere dove indicava.
La strada della sua vecchia caserma. Degli Angeli. Ricordò che la chiesa si chiamava degli Angeli.
Cominciò a camminare,
Si, era strano non vedere assolutamente nessuno, era quasi l’alba, che giorno era? Forse domenica? Ma in fondo, non aveva importanza. Quella salita era veramente bella, circondata da alberi maestosi, che in fondo, alla fine, cominciava a incendiarsi del sorgere del sole.
E quell’aria familiare, come l’odore del posto dove si è nati, piacevole da respirare a pieni polmoni e a occhi chiusi.
Sentiva che poteva permettersi di camminare in mezzo alla strada, non sarebbe passato nessuno. E lo fece.
Raggi di sole bucarono all’improvviso il nero degli alberi, formando un reticolato luminoso davanti a lui.
Marco si sentì avvolgere da quella luce, piacevole, guardava quegli alberi altissimi, che sembravano bucare il cielo.
Ci aveva messo poco ad arrivare davanti al cancello.
Miriadi di gocce d’acqua luccicanti come perle ne decoravano le inferriate, impreziosendole.
Un giovane militare, avvolto in un mantello, stava in piedi, in mezzo alla prima luce che l’alba stava elargendo.
Era talmente perfetto, nella bellezza della sua giovinezza e della sua uniforme, che Marco ebbe un moto di commozione e istintivamente portò la mano alla fronte nel saluto militare.
Il giovane sorrise, un sorriso bellissimo, scuotendo il capo
“Sono un semplice soldato” disse
“Io…”
“Ti aspettano”
“Chi…mi aspetta..?”
Il militare indicò oltre il cancello, che si stava lentamente aprendo.
Una massa nebbiosa, luminosissima si estendeva, forse all’infinito.
Qualcosa si muoveva in mezzo, movimenti silenziosi.
Un suono, eppure era silenzio, eppure era aspettativa.
Figure indistinte si materializzarono in mezzo a quella luce.
Marco sapeva che non era possibile, ma non poteva stupirsi…era semplicemente bello rivedere quella vecchina di sua madre e suo padre, sorridenti, che lo guardavano sereni, consapevoli, in attesa, pieni di amore. Era troppo bello. Si voltò verso il militare, che questa volta indicò la strada per la quale era venuto.
Vide un uomo seduto, con il capo reclino, pareva dormisse.
Intorno a quell’uomo altri uomini si muovevano, si agitavano in un sentore di voci e rumori ovattati, vagamente riconoscibili, perché molto lontani. Marco si avvicinò per sentire meglio e riconobbe quell’uomo : era lui. E non era più lì. Indubbiamente. Sentì una mano posarsi sulla sua spalla. Seppe in quel preciso momento che tutta la vita aveva aspettato quella mano, quel calore, quel conforto quell’ aiuto, quella liberazione. Tutta la sua vita, che in fondo, aveva vissuto anche lui.
La luce diventava accecante, invadeva il cielo, chiamava con assoluta, immensa ed eterna dolcezza. Bisognava andare.
“Non avere paura” disse il giovane indicandogli la strada.
“No. Non più.”
Ora, era se stesso. Sentiva di amare come non mai. Era bello.
Entrare in Paradiso all’alba.











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27/04/2008 18:47
 
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Stupendo..! Che racconto... Scritto con maestria! Bravissimo...

Un cordiale saluto [SM=x142887]

Grazie per questa meravigliosa lettura!


aurora

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27/04/2008 19:17
 
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Ti ringrazio per aver apprezzato il mio racconto Aurora, mi fa piacere che ti sia piaciuto.
Ciao.

Alberto
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28/04/2008 13:38
 
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Molto bello realmente.
Tutto il racconto trasuda tristezza già dalle prime righe e il finale inaspettato.
Compliementi! [SM=x142874]
12/05/2008 00:31
 
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“Non avere paura” disse il giovane indicandogli la strada.
“No. Non più.”
Ora, era se stesso. Sentiva di amare come non mai. Era bello.
Entrare in Paradiso all’alba.



Rara maestria nel raccontare, un finale che lascia un senso di dolcezza infinita.

Bravissimo. [SM=x142874] [SM=x142876] [SM=x142896] [SM=x142897]
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