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GIACOMO LEOPARDI- ANTOLOGIA

Ultimo Aggiornamento: 26/08/2007 12:21
28/07/2007 00:17
 
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XXXIX

FRAMMENTO




Spento il diurno raggio in occidente,

E queto il fumo delle ville, e queta

De' cani era la voce e della gente;

Quand'ella, volta all'amorosa meta,

Si ritrovò nel mezzo ad una landa

Quanto foss'altra mai vezzosa e lieta.

Spandeva il suo chiaror per ogni banda

La sorella del sole, e fea d'argento

Gli arbori ch'a quel loco eran ghirlanda.

I ramoscelli ivan cantando al vento,

E in un con l'usignol che sempre piagne

Fra i tronchi un rivo fea dolce lamento.

Limpido il mar da lungi, e le campagne

E le foreste, e tutte ad una ad una

Le cime si scoprian delle montagne.

In queta ombra giacea la valle bruna,

E i collicelli intorno rivestia

Del suo candor la rugiadosa luna.

Sola tenea la taciturna via

La donna, e il vento che gli odori spande,

Molle passar sul volto si sentia.

Se lieta fosse, è van che tu dimande:

Piacer prendea di quella vista, e il bene

Che il cor le prometteva era più grande.

Come fuggiste, o belle ore serene!

Dilettevol quaggiù null'altro dura,

Né si ferma giammai, se non la spene.

Ecco turbar la notte, e farsi oscura

La sembianza del ciel, ch'era sì bella,

E il piacere in colei farsi paura.

Un nugol torbo, padre di procella,

Sorgea di dietro ai monti, e crescea tanto,

Che più non si scopria luna né stella.

Spiegarsi ella il vedea per ogni canto,

E salir su per l'aria a poco a poco,

E far sovra il suo capo a quella ammanto.

Veniva il poco lume ognor più fioco;

E intanto al bosco si destava il vento,

Al bosco là del dilettoso loco.

E si fea più gagliardo ogni momento,

Tal che a forza era desto e svolazzava

Tra le frondi ogni augel per lo spavento.

E la nube, crescendo, in giù calava

Ver la marina sì, che l'un suo lembo

Toccava i monti, e l'altro il mar toccava.

Già tutto a cieca oscuritade in grembo,

S'incominciava udir fremer la pioggia,

E il suon cresceva all'appressar del nembo.

Dentro le nubi in paurosa foggia

Guizzavan lampi, e la fean batter gli occhi;

E n'era il terren tristo, e l'aria roggia.

Discior sentia la misera i ginocchi;

E già muggiva il tuon simile al metro

Di torrente che d'alto in giù trabocchi.

Talvolta ella ristava, e l'aer tetro

Guardava sbigottita, e poi correa,

Sì che i panni e le chiome ivano addietro.

E il duro vento col petto rompea,

Che gocce fredde giù per l'aria nera

In sul volto soffiando le spingea.

E il tuon veniale incontro come fera,

Rugghiando orribilmente e senza posa;

E cresceva la pioggia e la bufera.

E d'ogn'intorno era terribil cosa

Il volar polve e frondi e rami e sassi,

E il suon che immaginar l'alma non osa.

Ella dal lampo affaticati e lassi

Coprendo gli occhi, e stretti i panni al seno,

Già pur tra il nembo accelerando i passi.

Ma nella vista ancor l'era il baleno

Ardendo sì, ch'alfin dallo spavento

Fermò l'andare, e il cor le venne meno.

E si rivolse indietro. E in quel momento

Si spense il lampo, e tornò buio l'etra,

Ed acchetossi il tuono, e stette il vento.

Taceva il tutto; ed ella era di pietra.


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