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GIACOMO LEOPARDI- ANTOLOGIA

Ultimo Aggiornamento: 26/08/2007 12:21
27/07/2007 12:04
 
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Giacomo Taldegardo Francesco di Sales Saverio Pietro Leopardi nacque a Recanati, nelle Marche, allora appartenente allo Stato pontificio, da una delle più nobili e cospicue famiglie del paese, primo di otto figli.
Il padre, il conte Monaldo, era un uomo di animo buono, amante degli studi ma conservatore e d'idee reazionarie, mentre la madre, la marchesa Adelaide Antici, era una donna energica, legata alle convenzioni sociali e ad un concetto profondo di dignità della famiglia, motivo di sofferenza per il giovane Giacomo che non riuscì a ricevere tutto l'affetto di cui aveva bisogno. A causa di speculazioni azzardate fatte dal marito, la marchesa prese in mano il patrimonio familiare dissestato e riuscì, con una rigida economia domestica, a rimetterlo in sesto. I sacrifici economici e i pregiudizi nobiliari dei genitori resero infelice il giovane Giacomo che, costretto a vivere in un piccolo borgo di provincia e in uno stato tra i più retrogradi d'Italia, rimase escluso dalle correnti di pensiero che circolavano nel resto dell'Italia e in Europa.
Fino al termine dell'infanzia Giacomo crebbe comunque allegro, giocando volentieri con i suoi fratelli e soprattutto con Carlo e Paolina che erano più vicini a lui come età e che amava intrattenere con racconti ricchi di fervida fantasia.



La formazione giovanile


Ricevette la prima educazione, come da tradizione familiare, da due precettori ecclesiastici, il gesuita don Giuseppe Torres fino al 1808 e l'abate don Sebastiano Sanchini fino al 1812, che influirono sulla sua prima formazione con metodi improntati alla scuola gesuitica. Tali metodi erano incentrati non solo sullo studio del latino, della teologia e della filosofia, ma anche su una formazione scientifica di buon livello contenutistico e metodologico.
I momenti significativi delle sue attività di studio, che si svolgono all'interno del nucleo familiare, sono da rintracciare nei saggi finali, nei componimenti letterari da donare al padre in occasione delle feste natalizie , la stesura di quaderni molto ordinati e accurati e qualche composizione di carattere religioso da recitare in occasione della riunione della Congregazione dei nobili.
Il ruolo avuto dai precettori non impedì comunque al giovane Leopardi di intraprendere un suo personale percorso di studi avvalendosi della biblioteca paterna molto fornita e di altre biblioteche recanatesi, come quella degli Antici, dei Roberti e probabilmente da quella di Giuseppe Antonio Vogel, un sacerdote dell'Alsazia, esule in Italia in seguito alla Rivoluzione francese e giunto a Recanati tra il 1806 e il 1809 come canonico onorario della cattedrale della cittadina.

Nel 1809 il giovane Giacomo compone il sonetto intitolato "La morte di Ettore" che, come lui stesso scrive nell'"Indice delle produzioni di me Giacomo Leopardi dall'anno 1809 in poi", è da considerarsi la sua prima composizione poetica. Da questi anni ha inizio la produzione di tutti quegli scritti chiamati "puerili".


La produzione dei "puerili"


Il corpus delle opere così dette "puerili" pubblicato da Bompiani a Milano nel 1972 a cura di Maria Corti in "Giacomo Leopardi. Tutti gli scritti inediti, rari e editi 1809-1810", dimostrano che il giovane Leopardi sapeva scrivere in latino fin dall'età di nove-dieci anni e sapeva padroneggiare i metodi di versificazione italiana in voga nel settecento, come i metri barbari di Fantoni, oltre ad avere una passione per le burle in versi dirette al precettore ed ai fratelli.
Nel 1810 iniziò lo studio della filosofia, e due anni dopo, come sintesi della sua formazione giovanile, scrisse le "Dissertazioni filosofiche", che riguardano argomenti di logica, filosofia, morale, fisica teorica e sperimentale (astronomia, gravitazione, idrodinamica, teoria dell'elettricità, eccetera).
Nel 1812, con la presentazione pubblica del suo saggio di studi che discusse davanti a esaminatori di vari ordini religiosi e al vescovo, si può far concludere il periodo della sua prima formazione che è soprattutto di tipo sei-settecentesco ed evidenzia l'amore per l'erudizione e uno spiccato gusto arcadico.


La formazione personale

Cessata la formazione nel 1812 dell'abate Sanchini, il Leopardi si immerse totalmente in uno studio "matto e disperatissimo" che assorbì tutte le sue energie e che recò gravi danni alla sua salute. Senza l'aiuto di maestri apprese il greco e l'ebraico e compose opere di grande impegno ed erudizione.
Risalgono a questi anni la "Storia dell'astronomia" del 1813, il "Saggio sopra gli errori popolari degli antichi" del 1815, diversi discorsi su scrittori classici, alcune traduzioni poetiche, dei versi e le due tragedie "La virtù indiana" e il "Pompeo in Egitto".
Iniziò anche le prime pubblicazioni e lavorò alle traduzioni dal latino e dal greco dimostrando sempre di più il suo interesse per l'attività filologica. Sono questi anche gli anni dedicati alle traduzioni dal latino e dal greco corredate di discorsi introduttivi e di note, tra i quali "Gli scherzi epigrammatici" tradotti dal greco del 1814 e pubblicati in occasione delle nozze Santacroce-Torre dalla Tipografia Frattini di Recanati nel 1816, la "Batracomiomachia" nel 1815 e pubblicata su "Lo Spettatore italiano" il 30 novembre 1816, gli idilli di Mosco, il "Saggio di traduzioni dell'Odissea", la "Traduzione del libro secondo dell'Eneide" e la "Titanomachia" di Esiodo, pubblicata su "Lo spettatore italiano" il 1° giugno 1817.


La conversione letteraria: dall'erudizione al bello


Ma già tra il 1815 e il 1816 si avverte in Leopardi un forte cambiamento frutto di una profonda crisi spirituale che lo porterà ad abbandonare l'erudizione per dedicarsi alla poesia. Egli si rivolge pertanto ai classici, non più come ad arido materiale adatto a considerazioni filologiche ma come a modelli di poesia da studiare. Seguiranno le letture di autori moderni come l'Alfieri, il Parini, il Foscolo e il Monti che servirono a maturare la sua sensibilità romantica. In questo modo il Leopardi iniziò a liberarsi dall'educazione paterna accademica e sterile, a rendersi conto della ristrettezza della cultura recanatese e a porre le basi per liberarsi dai condizionamenti familiari.
Appartengono a questo periodo alcune poesie significative come le "Rimembranze", l'"Appressamento della morte" e l'"Inno a Nettuno".


La conversione filosofica: dal bello al vero

Dopo il primo passo verso il distacco dall'ambiente giovanile e con la maturazione di una nuova ideologia e sensibilità che lo portò a scoprire il bello in senso non arcaico ma neoclassico, si annuncia nel 1817 quel passaggio dalla poesia di immaginazione degli antichi alla poesia sentimentale che il poeta definì l'unica ricca di riflessioni




I mutamenti profondi del 1817


Il 1817 fu per il Leopardi, che giunto alle soglie dei diciannove anni aveva avvertito in tutta la sua intensità il peso dei suoi mali e della condizione infelice che ne derivava, un anno decisivo che determinò nel suo animo profondi mutamenti.
Consapevole ormai del suo desiderio di gloria e insofferente dell'angusto confine in cui fino a quel momento era stato costretto a vivere, sentì l'urgente desiderio di uscire, in qualche modo, dall'ambiente recanatese. Gli avvenimenti seguenti incideranno sulla sua vita e sulla sua attività intellettuale in modo determinante.


La corrispondenza con Pietro Giordani

In quell'anno egli scrisse al classicista e purista Pietro Giordani che aveva letto la traduzione del Leopardi del II libro dell'Eneide e, avendo compreso la grandezza del giovane, lo aveva incoraggiato. Ebbe inizio così una fitta corrispondenza e un rapporto di amicizia che durerà nel tempo. In una delle prime lettere scritte al nuovo amico, datata 30 aprile 1817, il giovane Leopardi sfogherà il suo malessere, non con atteggiamento remissivo ma polemico e aggressivo:

« Mi ritengono "un ragazzo, e i più ci aggiungono i titoli di saccentuzzo, di filosofo, di eremita, e che so io. Di maniera che s'io m'arrischio di confortare chicchessia a comprare un libro, o mi risponde con una risata, o mi si mette in sul serio e mi dice che non è più quel tempo.....Unico divertimento in Recanati è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia »


Egli vuole uscire da quel "centro dell'inciviltà e dell'ignoranza europea" perché sa che al di fuori c'è quella vita alla quale egli si è preparato ad inserirsi con impegno e con studio profondo.

Nel febbraio 1817 ebbe inizio una corrispondenza con il letterato Pietro Giordani. Nell’estate 1817 fissa le prime osservazioni all’interno di un diario di pensiero che prenderà poi il nome di Zibaldone, in dicembre si innamorerà per la prima volta della cugina. Pietro Giordani riconosce l’abilità di scrittura di Leopardi e lo elogia a dedicarsi alla scrittura, inoltre lo inserisce all’interno di un giornale: “la biblioteca italiana” e lo fa partecipare al dibattito culturale tra classici e romantici. Leopardi difese la cultura classica e ringrazia Dio di aver incontrato Giordani che reputa l’unica persona che riesce a comprenderlo.


Il primo amore

Nel luglio del 1817 il Leopardi iniziò a compilare lo Zibaldone, diario sul quale registrerà fino al 1832 le sue riflessioni, le note filologiche e gli spunti di opere, lesse la vita di Alfieri e compilò il sonetto "Letta la vita scritta da esso" che toccava i temi della gloria e della fama.
Alla fine del 1817 un altro avvenimento lo colpì profondamente: l'incontro, nel dicembre dello stesso anno, con Geltrude Cassi Lazzari, una cugina di Monaldo, che fu ospite presso la famiglia per alcuni giorni e per la quale provò un amore inespresso. Scrisse in questa occasione il "Diario del primo amore" e l'"Elegia I" che verrà in seguito inclusa nei "Canti" con il titolo "Il primo amore".




Verso una posizione romantica

Fra il 1816 e il 1818 la posizione di Leopardi verso il Romanticismo, che stava suscitando in quegli anni forti polemiche e aveva ispirato la pubblicazione del "Conciliatore", va maturando e se ne possono avvertire le tracce in numerosi passi dello Zibaldone e nei due saggi, la "Lettera ai Sigg. compilatori della "Biblioteca italiana"" scritta nel 1816 in risposta a quella di Madama la baronessa di Staël e il "Discorso di un italiano attorno alla poesia romantica", scritto in risposta alle "Osservazioni" di Di Breme sul Giaurro di Byron.
Aveva intanto scritto le due canzoni ispirate a motivi patriottici "All'Italia" e "Sopra il monumento di Dante" che stanno ad attestare il suo spirito liberale e la sua adesione a quel tipo di letteratura di impegno civile che aveva appreso dal Giordani.


La prima fase dell'ideologia leopardiana

Nel 1819 una malattia agli occhi, che lo privò persino del conforto dello studio, lo gettò in una profonda prostrazione che acuì la sua insofferenza per la vita recanatese. Tra il luglio e l'agosto progettò la fuga e cercò di procurarsi un passaporto per il Lombardo-Veneto, da un amico di famiglia, il conte Saverio Broglio d'Ajano, ma il padre lo venne a sapere e il progetto di fuga fallì.
Fu appunto nei mesi che seguirono che il Leopardi elaborò le prime basi della sua filosofia e riflettendo sulla vanità delle speranze e l'ineluttabilità del dolore, scoprì la nullità delle cose e del dolore stesso.
Inizia intanto la composizione di quei canti che verranno in seguito pubblicati con il titolo di "Idilli" e scrive "L'infinito", "La sera del dì di festa" e "Alla luna".


Il soggiorno a Roma e il ritorno a Recanati

Nell'autunno del 1822 ottenne dai genitori di recarsi a Roma, dove rimase dal novembre all'aprile dell'anno successivo, ospite dello zio materno, Carlo Antici.
A Leopardi Roma apparve squallida e modesta al confronto con l'immagine idealizzata che egli si era figurata fantasticando sulle "sudate carte" dei classici. Rimase invece entusiasta della tomba di Torquato Tasso, al quale si sentiva accomunato dall'innata infelicità.
Nell'ambiente culturale romano Leopardi visse isolato e frequentò solamente studiosi stranieri, tra cui i filologi Christian Bunsen e Barthold Niebuhr che si interessò per farlo entrare nella carriera dell'amministrazione pontificia, ma Leopardi rifiutò. Nell'aprile del 1823 Leopardi ritornò a Recanati dopo aver constatato che il mondo al di fuori di esso non era quello sperato.
Tornato a Recanati il Leopardi si dedicò alla composizione dei primi idilli, alle canzoni di contenuto filosofico o dottrinale e tra il gennaio e il novembre del 1824 compose le Operette morali.


Lontano da Recanati: Milano, Bologna, Firenze, Pisa

Nel 1825 il poeta, invitato dall'editore Antonio Fortunato Stella si recò a Milano con l'incarico di dirigere l'edizione completa delle opere di Cicerone e altre edizioni di classici latini e italiani. A Milano però egli non rimase a lungo perché il soggiorno gli era dannoso alla salute e l'ambiente culturale, troppo polarizzato intorno al Monti, gli recava noia.

Decise così di trasferirsi a Bologna dove visse, tranne una breve permanenza a Recanati nell'inverno del 1827, sino al giugno di quello stesso anno mantenendosi con l'assegno mensile dello Stella e dando lezioni private.
Nell'ambiente bolognese il Leopardi conobbe il conte Carlo Pepoli, patriota e letterato al quale dedicò un'epistola in versi intitolata "Al conte Carlo Pepoli" che lesse il 28 marzo 1826 nell'Accademia dei Felsinei. Nell'autunno iniziò a compilare, per ordine di Stella, una "Crestomazia", antologia di prosatori italiani dal Trecento al Settecento che venne pubblicata nel 1827 alla quale fece seguito, l'anno successivo, una "Crestomazia" poetica.
A Bologna conobbe anche la contessa Teresa Carnian Malvezzi della quale si innamorò senza essere corrisposto. Uscivano intanto presso Stella le sue Operette morali.

Nel giugno dello stesso anno si trasferì a Firenze dove conobbe il gruppo di letterati appartenenti al circolo Viesseux tra i quali Gino Capponi, Giovanni Battista Niccolini, Pietro Colletta, Niccolò Tommaseo ed anche il Manzoni che si trovava a Firenze per rivedere dal punto di vista linguistico i suoi Promessi Sposi.

Nel novembre del 1827 si recò a Pisa dove rimase fino alla metà del 1828. A Pisa, grazie all'inverno mite, la sua salute migliorò e il Leopardi tornò alla poesia, che taceva dal 1823, e compose la canzonetta in strofe metastasiane il "Risorgimento" e il canto "A Silvia" inaugurando il periodo creativo detto dei Canti "pisano-recanatesi", chiamati anche "grandi idilli", all'interno del quale il poeta sperimenta la cosiddetta canzone libera o canzone leopardiana.


Il ritorno a Recanati

Purtroppo il periodo di benessere era finito e il poeta, ripreso dalle sofferenze e aggravatosi il disturbo agli occhi, fu costretto a sciogliere il contratto con Stella e durante l'estate del '28 si recò a Firenze nella speranza di trovare un modo per poter vivere in modo indipendente. Ma le sue condizioni di salute non glielo permisero ed egli fu costretto a ritornare a Recanati dove rimase fino al 1830.
In questi due anni il Leopardi si dedicò alla poesia e scrisse alcune delle sue più importanti liriche tra cui "Le ricordanze", "Il sabato del villaggio", "La quiete dopo la tempesta", "Il passero solitario", "Canto notturno di un pastore errante dell'Asia". Queste poesie, a lungo denominate dai critici "Grandi idilli", sono ora conosciute, insieme ad "A Silvia" come "Canti pisano-recanatesi".


A Firenze dal 1830 al 1833

Intanto, nell'aprile del 1830, il Colletta, al quale il poeta scriveva della sua vita infelice, gli offrì, grazie ad una sottoscrizione degli "amici di Toscana", l'opportunità di tornare a Firenze.
Qui curò, nel 1831, un'edizione dei "Canti", partecipò ai convegni dei liberali fiorentini e strinse un'affettuosa amicizia col giovane esule napoletano Antonio Ranieri. Risale a questo periodo la forte passione amorosa per Fanny Targioni Tozzetti, conclusasi in una delusione, che gli ispirò il cosiddetto "ciclo di Aspasia", una raccolta di poesie scritte tra il 1830 e il 1835 che contiene: "Il pensiero dominante", "Amore e morte", "A se stesso", "Consalvo" e "Aspasia". Nell'autunno del 1831 si recò a Roma con Ranieri per ritornare a Firenze nel 1832 e nel corso di questo anno scrisse i due ultimi dialoghi delle "Operette", Il "Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un passeggere" e il "Dialogo di Tristano e di un amico".

A Napoli: la morte

Nel settembre del 1833, dopo aver ottenuto un modesto assegno dalla famiglia, partì per Napoli con l'amico Ranieri sperando che il clima mite di quella città potesse giovare alla sua salute. Durante gli anni trascorsi a Napoli si dedicò alla stesura dei "Pensieri" che raccolse probabilmente tra il 1831 e il 1835 e riprese i "Paralipomeni della Batracomiomachia" che, iniziati nel 1831, aveva interrotto. A quest'ultima opera lavorò, assistito dal Ranieri, fino agli ultimi giorni di vita.
Nel 1836, quando a Napoli scoppiò l'epidemia di colera, il Leopardi si recò con l'amico Ranieri e sua sorella Paolina nella Villa Ferrigni fra Torre del Greco e Torre Annunziata dove rimase dall'estate di quell'anno all'inverno del 1837. In questo luogo egli compose "Il tramonto della luna" e "La ginestra o il fiore del deserto" nei quali si coglie l'invocazione ad una fraterna solidarietà contro l'oppressione della natura e del destino.
Nel febbraio del '37 ritornò a Napoli con il Ranieri ma la sua salute si aggravò e il 14 giugno di quell'anno morì. Grazie ad Antonio Ranieri, che fece interessare della questione addirittura il Ministro di Polizia, le sue spoglie non furono gettate in una fossa comune -come le severe norme igieniche richiedevano a causa del colera che colpiva ancora la città- ma inumate nell'atrio della chiesa di San Vitale, sulla via di Pozzuoli presso Fuorigrotta. Nel 1939 la sua tomba, spostata al Parco Vergiliano a Piedigrotta (altrimenti detto Parco della tomba di Virgilio) nel quartiere Mergellina, fu dichiarata monumento nazionale.



http://it.wikipedia.org/wiki/Giacomo_Leopardi#L.27infanzia


27/07/2007 17:11
 
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ALL'ITALIA.


Canti


I

ALL'ITALIA


O patria mia, vedo le mura e gli archi

E le colonne e i simulacri e l'erme

Torri degli avi nostri,

Ma la gloria non vedo,

Non vedo il lauro e il ferro ond'eran carchi

I nostri padri antichi. Or fatta inerme,

Nuda la fronte e nudo il petto mostri.

Oimè quante ferite,

Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio,

Formosissima donna! Io chiedo al cielo

E al mondo: dite dite;

Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,

Che di catene ha carche ambe le braccia;

Sì che sparte le chiome e senza velo

Siede in terra negletta e sconsolata,

Nascondendo la faccia

Tra le ginocchia, e piange.

Piangi, che ben hai donde, Italia mia,

Le genti a vincer nata

E nella fausta sorte e nella ria.

Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,

Mai non potrebbe il pianto

Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;

Che fosti donna, or sei povera ancella.

Chi di te parla o scrive,

Che, rimembrando il tuo passato vanto,

Non dica: già fu grande, or non è quella?

Perché, perché? dov'è la forza antica,

Dove l'armi e il valore e la costanza?

Chi ti discinse il brando?

Chi ti tradì? qual arte o qual fatica

O qual tanta possanza

Valse a spogliarti il manto e l'auree bende?

Come cadesti o quando

Da tanta altezza in così basso loco?

Nessun pugna per te? non ti difende

Nessun de' tuoi? L'armi, qua l'armi: io solo

Combatterò, procomberò sol io.

Dammi, o ciel, che sia foco

Agl'italici petti il sangue mio.

Dove sono i tuoi figli? Odo suon d'armi

E di carri e di voci e di timballi:

In estranie contrade

Pugnano i tuoi figliuoli.

Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi,

Un fluttuar di fanti e di cavalli,

E fumo e polve, e luccicar di spade

Come tra nebbia lampi.

Né ti conforti? e i tremebondi lumi

Piegar non soffri al dubitoso evento?

A che pugna in quei campi

L'itala gioventude? O numi, o numi:

Pugnan per altra terra itali acciari.

Oh misero colui che in guerra è spento,

Non per li patrii lidi e per la pia

Consorte e i figli cari,

Ma da nemici altrui

Per altra gente, e non può dir morendo:

Alma terra natia,

La vita che mi desti ecco ti rendo.

Oh venturose e care e benedette

L'antiche età, che a morte

Per la patria correan le genti a squadre;

E voi sempre onorate e gloriose,

O tessaliche strette,

Dove la Persia e il fato assai men forte

Fu di poch'alme franche e generose!

Io credo che le piante e i sassi e l'onda

E le montagne vostre al passeggere

Con indistinta voce

Narrin siccome tutta quella sponda

Coprìr le invitte schiere

De' corpi ch'alla Grecia eran devoti.

Allor, vile e feroce,

Serse per l'Ellesponto si fuggia,

Fatto ludibrio agli ultimi nepoti;

E sul colle d'Antela, ove morendo

Si sottrasse da morte il santo stuolo,

Simonide salia,

Guardando l'etra e la marina e il suolo.

E di lacrime sparso ambe le guance,

E il petto ansante, e vacillante il piede,

Toglieasi in man la lira:

Beatissimi voi,

Ch'offriste il petto alle nemiche lance

Per amor di costei ch'al Sol vi diede;

Voi che la Grecia cole, e il mondo ammira.

Nell'armi e ne' perigli

Qual tanto amor le giovanette menti,

Qual nell'acerbo fato amor vi trasse?

Come sì lieta, o figli,

L'ora estrema vi parve, onde ridenti

Correste al passo lacrimoso e duro?

Parea ch'a danza e non a morte andasse

Ciascun de' vostri, o a splendido convito:

Ma v'attendea lo scuro

Tartaro, e l'onda morta;

Né le spose vi foro o i figli accanto

Quando su l'aspro lito

Senza baci moriste e senza pianto.

Ma non senza de' Persi orrida pena

Ed immortale angoscia.

Come lion di tori entro una mandra

Or salta a quello in tergo e sì gli scava

Con le zanne la schiena,

Or questo fianco addenta or quella coscia

Tal fra le Perse torme infuriava

L'ira de' greci petti e la virtute.

Ve' cavalli supini e cavalieri;

Vedi intralciare ai vinti

La fuga i carri e le tende cadute

E correr fra' primieri

Pallido e scapigliato esso tiranno;

Ve' come infusi e tinti

Del barbarico sangue i greci eroi,

Cagione ai Persi d'infinito affanno,

A poco a poco vinti dalle piaghe,

L'un sopra l'altro cade. Oh viva, oh viva:

Beatissimi voi

Mentre nel mondo si favelli o scriva.

Prima divelte, in mar precipitando,

Spente nell'imo strideran le stelle,

Che la memoria e il vostro

Amor trascorra o scemi.

La vostra tomba è un'ara; e qua mostrando

Verran le madri ai parvoli le belle

Orme del vostro sangue. Ecco io mi prostro,

O benedetti, al suolo,

E bacio questi sassi e queste zolle,

Che fien lodate e chiare eternamente

Dall'uno all'altro polo.

Deh foss'io pur con voi qui sotto, e molle

Fosse del sangue mio quest'alma terra.

Che se il fato è diverso, e non consente

Ch'io per la Grecia i moribondi lumi

Chiuda prostrato in guerra,

Così la vereconda

Fama del vostro vate appo i futuri

Possa, volendo i numi,

Tanto durar quanto la vostra duri.



27/07/2007 17:15
 
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II

SOPRA IL MONUMENTO DI DANTE

CHE SI PREPARAVA IN FIRENZE



Perché le nostre genti

Pace sotto le bianche ali raccolga,

Non fien da' lacci sciolte

Dell'antico sopor l'itale menti

S'ai patrii esempi della prisca etade

Questa terra fatal non si rivolga.

O Italia, a cor ti stia

Far ai passati onor; che d'altrettali

Oggi vedove son le tue contrade,

Né v'è chi d'onorar ti si convegna.

Volgiti indietro, e guarda, o patria mia,

Quella schiera infinita d'immortali,

E piangi e di te stessa ti disdegna;

Che senza sdegno omai la doglia è stolta:

Volgiti e ti vergogna e ti riscuoti,

E ti punga una volta

Pensier degli avi nostri e de' nepoti.

D'aria e d'ingegno e di parlar diverso

Per lo toscano suol cercando gia

L'ospite desioso

Dove giaccia colui per lo cui verso

Il meonio cantor non è più solo.

Ed, oh vergogna! udia

Che non che il cener freddo e l'ossa nude

Giaccian esuli ancora

Dopo il funereo dì sott'altro suolo,

Ma non sorgea dentro a tue mura un sasso,

Firenze, a quello per la cui virtude

Tutto il mondo t'onora.

Oh voi pietosi, onde sì tristo e basso

Obbrobrio laverà nostro paese!

Bell'opra hai tolta e di ch'amor ti rende,

Schiera prode e cortese,

Qualunque petto amor d'Italia accende.

Amor d'Italia, o cari,

Amor di questa misera vi sproni,

Ver cui pietade è morta

In ogni petto omai, perciò che amari

Giorni dopo il seren dato n'ha il cielo.

Spirti v'aggiunga e vostra opra coroni

Misericordia, o figli,

E duolo e sdegno di cotanto affanno

Onde bagna costei le guance e il velo.

Ma voi di quale ornar parola o canto

Si debbe, a cui non pur cure o consigli,

Ma dell'ingegno e della man daranno

I sensi e le virtudi eterno vanto

Oprate e mostre nella dolce impresa?

Quali a voi note invio, sì che nel core,

Sì che nell'alma accesa

Nova favilla indurre abbian valore?

Voi spirerà l'altissimo subbietto,

Ed acri punte premeravvi al seno.

Chi dirà l'onda e il turbo

Del furor vostro e dell'immenso affetto?

Chi pingerà l'attonito sembiante?

Chi degli occhi il baleno?

Qual può voce mortal celeste cosa

Agguagliar figurando?

Lunge sia, lunge alma profana. Oh quante

Lacrime al nobil sasso Italia serba!

Come cadrà? come dal tempo rosa

Fia vostra gloria o quando?

Voi, di ch'il nostro mal si disacerba,

Sempre vivete, o care arti divine,

Conforto a nostra sventurata gente,

Fra l'itale ruine

Gl'itali pregi a celebrare intente.

Ecco voglioso anch'io

Ad onorar nostra dolente madre

Porto quel che mi lice,

E mesco all'opra vostra il canto mio,

Sedendo u' vostro ferro i marmi avviva.

O dell'etrusco metro inclito padre,

Se di cosa terrena,

Se di costei che tanto alto locasti

Qualche novella ai vostri lidi arriva,

io so ben che per te gioia non senti,

Che saldi men che cera e men ch'arena,

Verso la fama che di te lasciasti,

Son bronzi e marmi; e dalle nostre menti

Se mai cadesti ancor, s'unqua cadrai,

Cresca, se crescer può, nostra sciaura,

E in sempiterni guai

Pianga tua stirpe a tutto il mondo oscura.

Ma non per te; per questa ti rallegri

Povera patria tua, s'unqua l'esempio

Degli avi e de' parenti

Ponga ne' figli sonnacchiosi ed egri

Tanto valor che un tratto alzino il viso.

Ahi, da che lungo scempio

Vedi afflitta costei, che sì meschina

Te salutava allora

Che di novo salisti al paradiso!

Oggi ridotta sì che a quel che vedi,

Fu fortunata allor donna e reina.

Tal miseria l'accora

Qual tu forse mirando a te non credi.

Taccio gli altri nemici e l'altre doglie;

Ma non la più recente e la più fera,

Per cui presso alle soglie

Vide la patria tua l'ultima sera.

Beato te che il fato

A viver non dannò fra tanto orrore;

Che non vedesti in braccio

L'itala moglie a barbaro soldato;

Non predar, non guastar cittadi e colti

L'asta inimica e il peregrin furore;

Non degl'itali ingegni

Tratte l'opre divine a miseranda

Schiavitude oltre l'alpe, e non de' folti

Carri impedita la dolente via;

Non gli aspri cenni ed i superbi regni;

Non udisti gli oltraggi e la nefanda

Voce di libertà che ne schernia

Tra il suon delle catene e de' flagelli.

Chi non si duol? che non soffrimmo? intatto

Che lasciaron quei felli?

Qual tempio, quale altare o qual misfatto?

Perché venimmo a sì perversi tempi?

Perché il nascer ne desti o perché prima

Non ne desti il morire,

Acerbo fato? onde a stranieri ed empi

Nostra patria vedendo ancella e schiava,

E da mordace lima

Roder la sua virtù, di null'aita

E di nullo conforto

Lo spietato dolor che la stracciava

Ammollir ne fu dato in parte alcuna.

Ahi non il sangue nostro e non la vita

Avesti, o cara; e morto

Io non son per la tua cruda fortuna.

Qui l'ira al cor, qui la pietade abbonda:

Pugnò, cadde gran parte anche di noi:

Ma per la moribonda

Italia no; per li tiranni suoi.

Padre, se non ti sdegni,

Mutato sei da quel che fosti in terra.

Morian per le rutene

Squallide piagge, ahi d'altra morte degni,

Gl'itali prodi; e lor fea l'aere e il cielo

E gli uomini e le belve immensa guerra.

Cadeano a squadre a squadre

Semivestiti, maceri e cruenti,

Ed era letto agli egri corpi il gelo.

Allor, quando traean l'ultime pene,

Membrando questa desiata madre,

Diceano: oh non le nubi e non i venti,

Ma ne spegnesse il ferro, e per tuo bene,

O patria nostra. Ecco da te rimoti,

Quando più bella a noi l'età sorride,

A tutto il mondo ignoti,

Moriam per quella gente che t'uccide.

Di lor querela il boreal deserto

E conscie fur le sibilanti selve.

Così vennero al passo,

E i negletti cadaveri all'aperto

Su per quello di neve orrido mare

Dilaceràr le belve

E sarà il nome degli egregi e forti

Pari mai sempre ed uno

Con quel de' tardi e vili. Anime care,

Bench'infinita sia vostra sciagura,

Datevi pace; e questo vi conforti

Che conforto nessuno

Avrete in questa o nell'età futura.

In seno al vostro smisurato affanno

Posate, o di costei veraci figli,

Al cui supremo danno

Il vostro solo è tal che s'assomigli.

Di voi già non si lagna

La patria vostra, ma di chi vi spinse

A pugnar contra lei,

Sì ch'ella sempre amaramente piagna

E il suo col vostro lacrimar confonda.

Oh di costei ch'ogni altra gloria vinse

Pietà nascesse in core

A tal de' suoi ch'affaticata e lenta

Di sì buia vorago e sì profonda

La ritraesse! O glorioso spirto,

Dimmi: d'Italia tua morto è l'amore?

Di': quella fiamma che t'accese, è spenta?

Di': né più mai rinverdirà quel mirto

Ch'alleggiò per gran tempo il nostro male?

Nostre corone al suol fien tutte sparte?

Né sorgerà mai tale

Che ti rassembri in qualsivoglia parte?

In eterno perimmo? e il nostro scorno

Non ha verun confine?

Io mentre viva andrò sclamando intorno,

Volgiti agli avi tuoi, guasto legnaggio;

Mira queste ruine

E le carte e le tele e i marmi e i templi;

Pensa qual terra premi; e se destarti

Non può la luce di cotanti esempli,

Che stai? levati e parti.

Non si conviene a sì corrotta usanza

Questa d'animi eccelsi altrice e scola:

Se di codardi è stanza,

Meglio l'è rimaner vedova e sola.


27/07/2007 17:17
 
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III

AD ANGELO MAI

QUAND'EBBE TROVATO I LIBRI DI CICERONE

"DELLA REPUBBLICA"


Italo ardito, a che giammai non posi

Di svegliar dalle tombe

I nostri padri? ed a parlar gli meni

A questo secol morto, al quale incombe

Tanta nebbia di tedio? E come or vieni

Sì forte a' nostri orecchi e sì frequente,

Voce antica de' nostri,

Muta sì lunga etade? e perché tanti

Risorgimenti? In un balen feconde

Venner le carte; alla stagion presente

I polverosi chiostri

Serbaro occulti i generosi e santi

Detti degli avi. E che valor t'infonde,

Italo egregio, il fato? O con l'umano

Valor forse contrasta il fato invano?

Certo senza de' numi alto consiglio

Non è ch'ove più lento

E grave è il nostro disperato obblio,

A percoter ne rieda ogni momento

Novo grido de' padri. Ancora è pio

Dunque all'Italia il cielo; anco si cura

Di noi qualche immortale:

Ch'essendo questa o nessun'altra poi

L'ora da ripor mano alla virtude

Rugginosa dell'itala natura,

Veggiam che tanto e tale

È il clamor de' sepolti, e che gli eroi

Dimenticati il suol quasi dischiude,

A ricercar s'a questa età sì tarda

Anco ti giovi, o patria, esser codarda.

Di noi serbate, o gloriosi, ancora

Qualche speranza? in tutto

Non siam periti? A voi forse il futuro

Conoscer non si toglie. Io son distrutto

Né schermo alcuno ho dal dolor, che scuro

M'è l'avvenire, e tutto quanto io scerno

È tal che sogno e fola

Fa parer la speranza. Anime prodi,

Ai tetti vostri inonorata, immonda

Plebe successe; al vostro sangue è scherno

E d'opra e di parola

Ogni valor; di vostre eterne lodi

Né rossor più né invidia; ozio circonda

I monumenti vostri; e di viltade

Siam fatti esempio alla futura etade.

Bennato ingegno, or quando altrui non cale

De' nostri alti parenti,

A te ne caglia, a te cui fato aspira

Benigno sì che per tua man presenti

Paion que' giorni allor che dalla dira

Obblivione antica ergean la chioma,

Con gli studi sepolti,

I vetusti divini, a cui natura

Parlò senza svelarsi, onde i riposi

Magnanimi allegràr d'Atene e Roma.

Oh tempi, oh tempi avvolti

In sonno eterno! Allora anco immatura

La ruina d'Italia, anco sdegnosi

Eravam d'ozio turpe, e l'aura a volo

Più faville rapia da questo suolo.

Eran calde le tue ceneri sante,

Non domito nemico

Della fortuna, al cui sdegno e dolore

Fu più l'averno che la terra amico.

L'averno: e qual non è parte migliore

Di questa nostra? E le tue dolci corde

Susurravano ancora

Dal tocco di tua destra, o sfortunato

Amante. Ahi dal dolor comincia e nasce

L'italo canto. E pur men grava e morde

Il mal che n'addolora

Del tedio che n'affoga. Oh te beato,

A cui fu vita il pianto! A noi le fasce

Cinse il fastidio; a noi presso la culla

Immoto siede, e su la tomba, il nulla.

Ma tua vita era allor con gli astri e il mare,

Ligure ardita prole,

Quand'oltre alle colonne, ed oltre ai liti

Cui strider l'onde all'attuffar del sole

Parve udir su la sera, agl'infiniti

Flutti commesso, ritrovasti il raggio

Del Sol caduto, e il giorno

Che nasce allor ch'ai nostri è giunto al fondo;

E rotto di natura ogni contrasto,

Ignota immensa terra al tuo viaggio

Fu gloria, e del ritorno

Ai rischi. Ahi ahi, ma conosciuto il mondo

Non cresce, anzi si scema, e assai più vasto

L'etra sonante e l'alma terra e il mare

Al fanciullin, che non al saggio, appare.

Nostri sogni leggiadri ove son giti

Dell'ignoto ricetto

D'ignoti abitatori, o del diurno

Degli astri albergo, e del rimoto letto

Della giovane Aurora, e del notturno

Occulto sonno del maggior pianeta?

Ecco svaniro a un punto,

E figurato è il mondo in breve carta;

Ecco tutto è simile, e discoprendo,

Solo il nulla s'accresce. A noi ti vieta

Il vero appena è giunto,

O caro immaginar; da te s'apparta

Nostra mente in eterno; allo stupendo

Poter tuo primo ne sottraggon gli anni;

E il conforto perì de' nostri affanni.

Nascevi ai dolci sogni intanto, e il primo

Sole splendeati in vista,

Cantor vago dell'arme e degli amori,

Che in età della nostra assai men trista

Empièr la vita di felici errori:

Nova speme d'Italia. O torri, o celle,

O donne, o cavalieri,

O giardini, o palagi! a voi pensando,

In mille vane amenità si perde

La mente mia. Di vanità, di belle

Fole e strani pensieri

Si componea l'umana vita: in bando

Li cacciammo: or che resta? or poi che il verde

È spogliato alle cose? Il certo e solo

Veder che tutto è vano altro che il duolo.

O Torquato, o Torquato, a noi l'eccelsa

Tua mente allora, il pianto

A te, non altro, preparava il cielo.

Oh misero Torquato! il dolce canto

Non valse a consolarti o a sciorre il gelo

Onde l'alma t'avean, ch'era sì calda,

Cinta l'odio e l'immondo

Livor privato e de' tiranni. Amore,

Amor, di nostra vita ultimo inganno,

T'abbandonava. Ombra reale e salda

Ti parve il nulla, e il mondo

Inabitata piaggia. Al tardo onore

Non sorser gli occhi tuoi; mercè, non danno,

L'ora estrema ti fu. Morte domanda

Chi nostro mal conobbe, e non ghirlanda.

Torna torna fra noi, sorgi dal muto

E sconsolato avello,

Se d'angoscia sei vago, o miserando

Esemplo di sciagura. Assai da quello

Che ti parve sì mesto e sì nefando,

È peggiorato il viver nostro. O caro,

Chi ti compiangeria,

Se, fuor che di se stesso, altri non cura?

Chi stolto non direbbe il tuo mortale

Affanno anche oggidì se il grande e il raro

Ha nome di follia;

Né livor più, ma ben di lui più dura

La noncuranza avviene ai sommi? o quale,

Se più de' carmi, il computar s'ascolta,

Ti appresterebbe il lauro un'altra volta?

Da te fino a quest'ora uom non è sorto,

O sventurato ingegno,

Pari all'italo nome, altro ch'un solo,

Solo di sua codarda etate indegno

Allobrogo feroce, a cui dal polo

Maschia virtù, non già da questa mia

Stanca ed arida terra,

Venne nel petto; onde privato, inerme,

(Memorando ardimento) in su la scena

Mosse guerra a' tiranni: almen si dia

Questa misera guerra

E questo vano campo all'ire inferme

Del mondo. Ei primo e sol dentro all'arena

Scese, e nullo il seguì, che l'ozio e il brutto

Silenzio or preme ai nostri innanzi a tutto.

Disdegnando e fremendo, immacolata

Trasse la vita intera,

E morte lo scampò dal veder peggio.

Vittorio mio, questa per te non era

Età né suolo. Altri anni ed altro seggio

Conviene agli alti ingegni. Or di riposo

Paghi viviamo, e scorti

Da mediocrità: sceso il sapiente

E salita è la turba a un sol confine,

Che il mondo agguaglia. O scopritor famoso,

Segui; risveglia i morti,

Poi che dormono i vivi; arma le spente

Lingue de' prischi eroi; tanto che in fine

Questo secol di fango o vita agogni

E sorga ad atti illustri, o si vergogni.


27/07/2007 17:49
 
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IV

NELLE NOZZE DELLA SORELLA PAOLINA



Poi che del patrio nido

I silenzi lasciando, e le beate

Larve e l'antico error, celeste dono,

Ch'abbella agli occhi tuoi quest'ermo lido,

Te nella polve della vita e il suono

Tragge il destin; l'obbrobriosa etate

Che il duro cielo a noi prescrisse impara,

Sorella mia, che in gravi

E luttuosi tempi

L'infelice famiglia all'infelice

Italia accrescerai. Di forti esempi

Al tuo sangue provvedi. Aure soavi

L'empio fato interdice

All'umana virtude,

Né pura in gracil petto alma si chiude.

O miseri o codardi

Figliuoli avrai. Miseri eleggi. Immenso

Tra fortuna e valor dissidio pose

Il corrotto costume. Ahi troppo tardi,

E nella sera dell'umane cose,

Acquista oggi chi nasce il moto e il senso.

Al ciel ne caglia: a te nel petto sieda

Questa sovr'ogni cura,

Che di fortuna amici

Non crescano i tuoi figli, e non di vile

Timor gioco o di speme: onde felici

Sarete detti nell'età futura:

Poiché (nefando stile,

Di schiatta ignava e finta)

Virtù viva sprezziam, lodiamo estinta.

Donne, da voi non poco

La patria aspetta; e non in danno e scorno

Dell'umana progenie al dolce raggio

Delle pupille vostre il ferro e il foco

Domar fu dato. A senno vostro il saggio

E il forte adopra e pensa; e quanto il giorno

Col divo carro accerchia, a voi s'inchina.

Ragion di nostra etate

Io chieggo a voi. La santa

Fiamma di gioventù dunque si spegne

Per vostra mano? attenuata e franta

Da voi nostra natura? e le assonnate

Menti, e le voglie indegne,

E di nervi e di polpe

Scemo il valor natio, son vostre colpe?

Ad atti egregi è sprone

Amor, chi ben l'estima, e d'alto affetto

Maestra è la beltà. D'amor digiuna

Siede l'alma di quello a cui nel petto

Non si rallegra il cor quando a tenzone

Scendono i venti, e quando nembi aduna

L'olimpo, e fiede le montagne il rombo

Della procella. O spose,

O verginette, a voi

Chi de' perigli è schivo, e quei che indegno

È della patria e che sue brame e suoi

Volgari affetti in basso loco pose,

Odio mova e disdegno;

Se nel femmineo core

D'uomini ardea, non di fanciulle, amore.

Madri d'imbelle prole

V'incresca esser nomate. I danni e il pianto

Della virtude a tollerar s'avvezzi

La stirpe vostra, e quel che pregia e cole

La vergognosa età, condanni e sprezzi;

Cresca alla patria, e gli alti gesti, e quanto

Agli avi suoi deggia la terra impari.

Qual de' vetusti eroi

Tra le memorie e il grido

Crescean di Sparta i figli al greco nome;

Finché la sposa giovanetta il fido

Brando cingeva al caro lato, e poi

Spandea le negre chiome

Sul corpo esangue e nudo

Quando e' reddia nel conservato scudo.

Virginia, a te la molle

Gota molcea con le celesti dita

Beltade onnipossente, e degli alteri

Disdegni tuoi si sconsolava il folle

Signor di Roma. Eri pur vaga, ed eri

Nella stagion ch'ai dolci sogni invita,

Quando il rozzo paterno acciar ti ruppe

Il bianchissimo petto,

E all'Erebo scendesti

Volonterosa. A me disfiori e scioglia

Vecchiezza i membri, o padre; a me s'appresti,

Dicea, la tomba, anzi che l'empio letto

Del tiranno m'accoglia.

E se pur vita e lena

Roma avrà dal mio sangue, e tu mi svena.

O generosa, ancora

Che più bello a' tuoi dì splendesse il sole

Ch'oggi non fa, pur consolata e paga

È quella tomba cui di pianto onora

L'alma terra nativa. Ecco alla vaga

Tua spoglia intorno la romulea prole

Di nova ira sfavilla. Ecco di polve

Lorda il tiranno i crini;

E libertade avvampa

Gli obbliviosi petti; e nella doma

Terra il marte latino arduo s'accampa

Dal buio polo ai torridi confini.

Così l'eterna Roma

In duri ozi sepolta

Femmineo fato avviva un'altra volta.

V

A UN VINCITORE NEL PALLONE

Di gloria il viso e la gioconda voce,

Garzon bennato, apprendi,

E quanto al femminile ozio sovrasti

La sudata virtude. Attendi attendi,

Magnanimo campion (s'alla veloce

Piena degli anni il tuo valor contrasti

La spoglia di tuo nome), attendi e il core

Movi ad alto desio. Te l'echeggiante

Arena e il circo, e te fremendo appella

Ai fatti illustri il popolar favore;

Te rigoglioso dell'età novella

Oggi la patria cara

Gli antichi esempi a rinnovar prepara.

Del barbarico sangue in Maratona

Non colorò la destra

Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo,

Che stupido mirò l'ardua palestra,

Né la palma beata e la corona

D'emula brama il punse. E nell'Alfeo

Forse le chiome polverose e i fianchi

Delle cavalle vincitrici asterse

Tal che le greche insegne e il greco acciaro

Guidò de' Medi fuggitivi e stanchi

Nelle pallide torme; onde sonaro

Di sconsolato grido

L'alto sen dell'Eufrate e il servo lido.

Vano dirai quel che disserra e scote

Della virtù nativa

Le riposte faville? e che del fioco

Spirto vital negli egri petti avviva

Il caduco fervor? Le meste rote

Da poi che Febo instiga, altro che gioco

Son l'opre de' mortali? ed è men vano

Della menzogna il vero? A noi di lieti

Inganni e di felici ombre soccorse

Natura stessa: e là dove l'insano

Costume ai forti errori esca non porse,

Negli ozi oscuri e nudi

Mutò la gente i gloriosi studi.

Tempo forse verrà ch'alle ruine

Delle italiche moli

Insultino gli armenti, e che l'aratro

Sentano i sette colli; e pochi Soli

Forse fien volti, e le città latine

Abiterà la cauta volpe, e l'atro

Bosco mormorerà fra le alte mura;

Se la funesta delle patrie cose

Obblivion dalle perverse menti

Non isgombrano i fati, e la matura

Clade non torce dalle abbiette genti

Il ciel fatto cortese

Dal rimembrar delle passate imprese.

Alla patria infelice, o buon garzone,

Sopravviver ti doglia.

Chiaro per lei stato saresti allora

Che del serto fulgea, di ch'ella è spoglia,

Nostra colpa e fatal. Passò stagione;

Che nullo di tal madre oggi s'onora:

Ma per te stesso al polo ergi la mente.

Nostra vita a che val? solo a spregiarla:

Beata allor che ne' perigli avvolta,

Se stessa obblia, né delle putri e lente

Ore il danno misura e il flutto ascolta;

Beata allor che il piede

Spinto al varco leteo, più grata riede.


















27/07/2007 17:50
 
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V

A UN VINCITORE NEL PALLONE



Di gloria il viso e la gioconda voce,

Garzon bennato, apprendi,

E quanto al femminile ozio sovrasti

La sudata virtude. Attendi attendi,

Magnanimo campion (s'alla veloce

Piena degli anni il tuo valor contrasti

La spoglia di tuo nome), attendi e il core

Movi ad alto desio. Te l'echeggiante

Arena e il circo, e te fremendo appella

Ai fatti illustri il popolar favore;

Te rigoglioso dell'età novella

Oggi la patria cara

Gli antichi esempi a rinnovar prepara.

Del barbarico sangue in Maratona

Non colorò la destra

Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo,

Che stupido mirò l'ardua palestra,

Né la palma beata e la corona

D'emula brama il punse. E nell'Alfeo

Forse le chiome polverose e i fianchi

Delle cavalle vincitrici asterse

Tal che le greche insegne e il greco acciaro

Guidò de' Medi fuggitivi e stanchi

Nelle pallide torme; onde sonaro

Di sconsolato grido

L'alto sen dell'Eufrate e il servo lido.

Vano dirai quel che disserra e scote

Della virtù nativa

Le riposte faville? e che del fioco

Spirto vital negli egri petti avviva

Il caduco fervor? Le meste rote

Da poi che Febo instiga, altro che gioco

Son l'opre de' mortali? ed è men vano

Della menzogna il vero? A noi di lieti

Inganni e di felici ombre soccorse

Natura stessa: e là dove l'insano

Costume ai forti errori esca non porse,

Negli ozi oscuri e nudi

Mutò la gente i gloriosi studi.

Tempo forse verrà ch'alle ruine

Delle italiche moli

Insultino gli armenti, e che l'aratro

Sentano i sette colli; e pochi Soli

Forse fien volti, e le città latine

Abiterà la cauta volpe, e l'atro

Bosco mormorerà fra le alte mura;

Se la funesta delle patrie cose

Obblivion dalle perverse menti

Non isgombrano i fati, e la matura

Clade non torce dalle abbiette genti

Il ciel fatto cortese

Dal rimembrar delle passate imprese.

Alla patria infelice, o buon garzone,

Sopravviver ti doglia.

Chiaro per lei stato saresti allora

Che del serto fulgea, di ch'ella è spoglia,

Nostra colpa e fatal. Passò stagione;

Che nullo di tal madre oggi s'onora:

Ma per te stesso al polo ergi la mente.

Nostra vita a che val? solo a spregiarla:

Beata allor che ne' perigli avvolta,

Se stessa obblia, né delle putri e lente

Ore il danno misura e il flutto ascolta;

Beata allor che il piede

Spinto al varco leteo, più grata riede.















27/07/2007 17:52
 
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VI

BRUTO MINORE



Poi che divelta, nella tracia polve

Giacque ruina immensa

L'italica virtute, onde alle valli

D'Esperia verde, e al tiberino lido,

Il calpestio de' barbari cavalli

Prepara il fato, e dalle selve ignude

Cui l'Orsa algida preme,

A spezzar le romane inclite mura

Chiama i gotici brandi;

Sudato, e molle di fraterno sangue,

Bruto per l'atra notte in erma sede,

Fermo già di morir, gl'inesorandi

Numi e l'averno accusa,

E di feroci note

Invan la sonnolenta aura percote.

Stolta virtù, le cave nebbie, i campi

Dell'inquiete larve

Son le tue scole, e ti si volge a tergo

Il pentimento. A voi, marmorei numi,

(Se numi avete in Flegetonte albergo

O su le nubi) a voi ludibrio e scherno

È la prole infelice

A cui templi chiedeste, e frodolenta

Legge al mortale insulta.

Dunque tanto i celesti odii commove

La terrena pietà? dunque degli empi

Siedi, Giove, a tutela? e quando esulta

Per l'aere il nembo, e quando

Il tuon rapido spingi,

Ne' giusti e pii la sacra fiamma stringi?

Preme il destino invitto e la ferrata

Necessità gl'infermi

Schiavi di morte: e se a cessar non vale

Gli oltraggi lor, de' necessarii danni

Si consola il plebeo. Men duro è il male

Che riparo non ha? dolor non sente

Chi di speranza è nudo?

Guerra mortale, eterna, o fato indegno,

Teco il prode guerreggia,

Di cedere inesperto; e la tiranna

Tua destra, allor che vincitrice il grava,

Indomito scrollando si pompeggia,

Quando nell'alto lato

L'amaro ferro intride,

E maligno alle nere ombre sorride.

Spiace agli Dei chi violento irrompe

Nel Tartaro. Non fora

Tanto valor ne' molli eterni petti.

Forse i travagli nostri, e forse il cielo

I casi acerbi e gl'infelici affetti

Giocondo agli ozi suoi spettacol pose?

Non fra sciagure e colpe,

Ma libera ne' boschi e pura etade

Natura a noi prescrisse,

Reina un tempo e Diva. Or poi ch'a terra

Sparse i regni beati empio costume,

E il viver macro ad altre leggi addisse;

Quando gl'infausti giorni

Virile alma ricusa,

Riede natura, e il non suo dardo accusa?

Di colpa ignare e de' lor proprii danni

Le fortunate belve

Serena adduce al non previsto passo

La tarda età. Ma se spezzar la fronte

Ne' rudi tronchi, o da montano sasso

Dare al vento precipiti le membra,

Lor suadesse affanno

Al misero desio nulla contesa

Legge arcana farebbe

O tenebroso ingegno. A voi, fra quante

Stirpi il cielo avvivò, soli fra tutte,

Figli di Prometeo, la vita increbbe;

A voi le morte ripe,

Se il fato ignavo pende,

Soli, o miseri, a voi Giove contende.

E tu dal mar cui nostro sangue irriga,

Candida luna, sorgi,

E l'inquieta notte e la funesta

All'ausonio valor campagna esplori.

Cognati petti il vincitor calpesta,

Fremono i poggi, dalle somme vette

Roma antica ruina;

Tu sì placida sei? Tu la nascente

Lavinia prole, e gli anni

Lieti vedesti, e i memorandi allori;

E tu su l'alpe l'immutato raggio

Tacita verserai quando ne' danni

Del servo italo nome,

Sotto barbaro piede

Rintronerà quella solinga sede.

Ecco tra nudi sassi o in verde ramo

E la fera e l'augello,

Del consueto obblio gravido il petto,

L'alta ruina ignora e le mutate

Sorti del mondo: e come prima il tetto

Rosseggerà del villanello industre,

Al mattutino canto

Quel desterà le valli, e per le balze

Quella l'inferma plebe

Agiterà delle minori belve.

Oh casi! oh gener vano! abbietta parte

Siam delle cose; e non le tinte glebe,

Non gli ululati spechi

Turbò nostra sciagura,

Né scolorò le stelle umana cura.

Non io d'Olimpo o di Cocito i sordi

Regi, o la terra indegna,

E non la notte moribondo appello;

Non te, dell'atra morte ultimo raggio,

Conscia futura età. Sdegnoso avello

Placàr singulti, ornàr parole e doni

Di vil caterva? In peggio

Precipitano i tempi; e mal s'affida

A putridi nepoti

L'onor d'egregie menti e la suprema

De' miseri vendetta. A me dintorno

Le penne il bruno augello avido roti;

Prema la fera, e il nembo

Tratti l'ignota spoglia;

E l'aura il nome e la memoria accoglia.

Ne' penetrati boschi e fra le sciolte

Pruine induca alle commosse belve;

Forse alle stanche e nel dolor sepolte

Umane menti riede

La bella età, cui la sciagura e l'atra

Face del ver consunse

Innanzi tempo? Ottenebrati e spenti

Di febo i raggi al misero non sono

In sempiterno? ed anco,

Primavera odorata, inspiri e tenti

Questo gelido cor, questo ch'amara

Nel fior degli anni suoi vecchiezza


27/07/2007 17:54
 
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VII

ALLA PRIMAVERA

O DELLE FAVOLE ANTICHE




Perché i celesti danni

Ristori il sole, e perché l'aure inferme

Zefiro avvivi, onde fugata e sparta

Delle nubi la grave ombra s'avvalla;

Credano il petto inerme

Gli augelli al vento, e la diurna luce

Novo d'amor desio, nova speranza

Ne' penetrati boschi e fra le sciolte

Pruine induca alle commosse belve;

Forse alle stanche e nel dolor sepolte

Umane menti riede

La bella età, cui la sciagura e l'atra

Face del ver consunse

Innanzi tempo? Ottenebrati e spenti

Di febo i raggi al misero non sono

In sempiterno? ed anco,

Primavera odorata, inspiri e tenti

Questo gelido cor, questo ch'amara

Nel fior degli anni suoi vecchiezza impara?

Vivi tu, vivi, o santa

Natura? vivi e il dissueto orecchio

Della materna voce il suono accoglie?

Già di candide ninfe i rivi albergo,

Placido albergo e specchio

Furo i liquidi fonti. Arcane danze

D'immortal piede i ruinosi gioghi

Scossero e l'ardue selve (oggi romito

Nido de' venti): e il pastorel ch'all'ombre

Meridiane incerte ed al fiorito

Margo adducea de' fiumi

Le sitibonde agnelle, arguto carme

Sonar d'agresti Pani

Udì lungo le ripe; e tremar l'onda

Vide, e stupì, che non palese al guardo

La faretrata Diva

Scendea ne' caldi flutti, e dall'immonda

Polve tergea della sanguigna caccia

Il niveo lato e le verginee braccia.

Vissero i fiori e l'erbe,

Vissero i boschi un dì. Conscie le molli

Aure, le nubi e la titania lampa

Fur dell'umana gente, allor che ignuda

Te per le piagge e i colli,

Ciprigna luce, alla deserta notte

Con gli occhi intenti il viator seguendo,

Te compagna alla via, te de' mortali

Pensosa immaginò. Che se gl'impuri

Cittadini consorzi e le fatali

Ire fuggendo e l'onte,

Gl'ispidi tronchi al petto altri nell'ime

Selve remoto accolse,

Viva fiamma agitar l'esangui vene,

Spirar le foglie, e palpitar segreta

Nel doloroso amplesso

Dafne o la mesta Filli, o di Climene

Pianger credè la sconsolata prole

Quel che sommerse in Eridano il sole.

Né dell'umano affanno,

Rigide balze, i luttuosi accenti

Voi negletti ferìr mentre le vostre

Paurose latebre Eco solinga,

Non vano error de' venti,

Ma di ninfa abitò misero spirto,

Cui grave amor, cui duro fato escluse

Delle tenere membra. Ella per grotte,

Per nudi scogli e desolati alberghi,

Le non ignote ambasce e l'alte e rotte

Nostre querele al curvo

Etra insegnava. E te d'umani eventi

Disse la fama esperto,

Musico augel che tra chiomato bosco

Or vieni il rinascente anno cantando,

E lamentar nell'alto

Ozio de' campi, all'aer muto e fosco,

Antichi danni e scellerato scorno,

E d'ira e di pietà pallido il giorno.

Ma non cognato al nostro

Il gener tuo; quelle tue varie note

Dolor non forma, e te di colpa ignudo,

Men caro assai la bruna valle asconde.

Ahi ahi, poscia che vote

Son le stanze d'Olimpo, e cieco il tuono

Per l'atre nubi e le montagne errando,

Gl'iniqui petti e gl'innocenti a paro

In freddo orror dissolve; e poi ch'estrano

Il suol nativo, e di sua prole ignaro

Le meste anime educa;

Tu le cure infelici e i fati indegni

Tu de' mortali ascolta,

Vaga natura, e la favilla antica

Rendi allo spirto mio; se tu pur vivi,

E se de' nostri affanni

Cosa veruna in ciel, se nell'aprica

Terra s'alberga o nell'equoreo seno,

Pietosa no, ma spettatrice almeno.

VIII


27/07/2007 17:56
 
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VIII

INNO AI PATRIARCHI

O DE' PRINCIPII DEL GENERE UMANO




E voi de' figli dolorosi il canto,

Voi dell'umana prole incliti padri,

Lodando ridirà; molto all'eterno

Degli astri agitator più cari, e molto

Di noi men lacrimabili nell'alma

Luce prodotti. Immedicati affanni

Al misero mortal, nascere al pianto,

E dell'etereo lume assai più dolci

Sortir l'opaca tomba e il fato estremo,

Non la pietà, non la diritta impose

Legge del cielo. E se di vostro antico

Error che l'uman seme alla tiranna

Possa de' morbi e di sciagura offerse,

Grido antico ragiona, altre più dire

Colpe de' figli, e irrequieto ingegno,

E demenza maggior l'offeso Olimpo

N'armaro incontra, e la negletta mano

Dell'altrice natura; onde la viva

Fiamma n'increbbe, e detestato il parto

Fu del grembo materno, e violento

Emerse il disperato Erebo in terra.

Tu primo il giorno, e le purpuree faci

Delle rotanti sfere, e la novella

Prole de' campi, o duce antico e padre

Dell'umana famiglia, e tu l'errante

Per li giovani prati aura contempli:

Quando le rupi e le deserte valli

Precipite l'alpina onda feria

D'inudito fragor; quando gli ameni

Futuri seggi di lodate genti

E di cittadi romorose, ignota

Pace regnava; e gl'inarati colli

Solo e muto ascendea l'aprico raggio

Di febo e l'aurea luna. Oh fortunata,

Di colpe ignara e di lugubri eventi,

Erma terrena sede! Oh quanto affanno

Al gener tuo, padre infelice, e quale

D'amarissimi casi ordine immenso

Preparano i destini! Ecco di sangue

Gli avari colti e di fraterno scempio

Furor novello incesta, e le nefande

Ali di morte il divo etere impara.

Trepido, errante il fratricida, e l'ombre

Solitarie fuggendo e la secreta

Nelle profonde selve ira de' venti,

Primo i civili tetti, albergo e regno

Alle macere cure, innalza; e primo

Il disperato pentimento i ciechi

Mortali egro, anelante, aduna e stringe

Ne' consorti ricetti: onde negata

L'improba mano al curvo aratro, e vili

Fur gli agresti sudori; ozio le soglie

Scellerate occupò; ne' corpi inerti

Domo il vigor natio, languide, ignave

Giacquer le menti; e servitù le imbelli

Umane vite, ultimo danno, accolse.

E tu dall'etra infesto e dal mugghiante

Su i nubiferi gioghi equoreo flutto

Scampi l'iniquo germe, o tu cui prima

Dall'aer cieco e da' natanti poggi

Segno arrecò d'instaurata spene

La candida colomba, e delle antiche

Nubi l'occiduo Sol naufrago uscendo,

L'atro polo di vaga iri dipinse.

Riede alla terra, e il crudo affetto e gli empi

Studi rinnova e le seguaci ambasce

La riparata gente. Agl'inaccessi

Regni del mar vendicatore illude

Profana destra, e la sciagura e il pianto

A novi liti e nove stelle insegna.

Or te, padre de' pii, te giusto e forte,

E di tuo seme i generosi alunni

Medita il petto mio. Dirò siccome

Sedente, oscuro, in sul meriggio all'ombre

Del riposato albergo, appo le molli

Rive del gregge tuo nutrici e sedi,

Te de' celesti peregrini occulte

Beàr l'eteree menti; e quale, o figlio

Della saggia Rebecca, in su la sera,

Presso al rustico pozzo e nella dolce

Di pastori e di lieti ozi frequente

Aranitica valle, amor ti punse

Della vezzosa Labanide: invitto

Amor, ch'a lunghi esigli e lunghi affanni

E di servaggio all'odiata soma

Volenteroso il prode animo addisse.

Fu certo, fu (né d'error vano e d'ombra

L'aonio canto e della fama il grido

Pasce l'avida plebe) amica un tempo

Al sangue nostro e dilettosa e cara

Questa misera piaggia, ed aurea corse

Nostra caduca età. Non che di latte

Onda rigasse intemerata il fianco

Delle balze materne, o con le greggi

Mista la tigre ai consueti ovili

Né guidasse per gioco i lupi al fonte

Il pastorel; ma di suo fato ignara

E degli affanni suoi, vota d'affanno

Visse l'umana stirpe; alle secrete

Leggi del cielo e di natura indutto

Valse l'ameno error, le fraudi, il molle

Pristino velo; e di sperar contenta

Nostra placida nave in porto ascese.

Tal fra le vaste californie selve

Nasce beata prole, a cui non sugge

Pallida cura il petto, a cui le membra

Fera tabe non doma; e vitto il bosco,

Nidi l'intima rupe, onde ministra

L'irrigua valle, inopinato il giorno

Dell'atra morte incombe. Oh contra il nostro

Scellerato ardimento inermi regni

Della saggia natura! I lidi e gli antri

E le quiete selve apre l'invitto

Nostro furor; le violate genti

Al peregrino affanno, agl'ignorati

Desiri educa; e la fugace, ignuda

Felicità per l'imo sole incalza.


27/07/2007 17:59
 
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IX

ULTIMO CANTO DI SAFFO




Placida notte, e verecondo raggio

Della cadente luna; e tu che spunti

Fra la tacita selva in su la rupe,

Nunzio del giorno; oh dilettose e care

Mentre ignote mi fur l'erinni e il fato,

Sembianze agli occhi miei; già non arride

Spettacol molle ai disperati affetti.

Noi l'insueto allor gaudio ravviva

Quando per l'etra liquido si volve

E per li campi trepidanti il flutto

Polveroso de' Noti, e quando il carro,

Grave carro di Giove a noi sul capo,

Tonando, il tenebroso aere divide.

Noi per le balze e le profonde valli

Natar giova tra' nembi, e noi la vasta

Fuga de' greggi sbigottiti, o d'alto

Fiume alla dubbia sponda

Il suono e la vittrice ira dell'onda.

Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella

Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta

Infinita beltà parte nessuna

Alla misera Saffo i numi e l'empia

Sorte non fenno. A' tuoi superbi regni

Vile, o natura, e grave ospite addetta,

E dispregiata amante, alle vezzose

Tue forme il core e le pupille invano

Supplichevole intendo. A me non ride

L'aprico margo, e dall'eterea porta

Il mattutino albor; me non il canto

De' colorati augelli, e non de' faggi

Il murmure saluta: e dove all'ombra

Degl'inchinati salici dispiega

Candido rivo il puro seno, al mio

Lubrico piè le flessuose linfe

Disdegnando sottragge,

E preme in fuga l'odorate spiagge.

Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso

Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo

Il ciel mi fosse e di fortuna il volto?

In che peccai bambina, allor che ignara

Di misfatto è la vita, onde poi scemo

Di giovanezza, e disfiorato, al fuso

Dell'indomita Parca si volvesse

Il ferrigno mio stame? Incaute voci

Spande il tuo labbro: i destinati eventi

Move arcano consiglio. Arcano è tutto,

Fuor che il nostro dolor. Negletta prole

Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo

De' celesti si posa. Oh cure, oh speme

De' più verd'anni! Alle sembianze il Padre,

Alle amene sembianze eterno regno

Diè nelle genti; e per virili imprese,

Per dotta lira o canto,

Virtù non luce in disadorno ammanto.

Morremo. Il velo indegno a terra sparto

Rifuggirà l'ignudo animo a Dite,

E il crudo fallo emenderà del cieco

Dispensator de' casi. E tu cui lungo

Amore indarno, e lunga fede, e vano

D'implacato desio furor mi strinse,

Vivi felice, se felice in terra

Visse nato mortal. Me non asperse

Del soave licor del doglio avaro

Giove, poi che perir gl'inganni e il sogno

Della mia fanciullezza. Ogni più lieto

Giorno di nostra età primo s'invola.

Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l'ombra

Della gelida morte. Ecco di tante

Sperate palme e dilettosi errori,

Il Tartaro m'avanza; e il prode ingegno

Han la tenaria Diva,

E l'atra notte, e la silente riva.

Battean la zampa sotto al patrio ostello.

Ed io timido e cheto ed inesperto,

Ver lo balcone al buio protendea

L'orecchio avido e l'occhio indarno aperto,

La voce ad ascoltar, se ne dovea

Di quelle labbra uscir, ch'ultima fosse;

La voce, ch'altro il cielo, ahi, mi togliea.

Quante volte plebea voce percosse

Il dubitoso orecchio, e un gel mi prese,

E il core in forse a palpitar si mosse!

E poi che finalmente mi discese

La cara voce al core, e de' cavai

E delle rote il romorio s'intese;

Orbo rimaso allor, mi rannicchiai

Palpitando nel letto e, chiusi gli occhi,

Strinsi il cor con la mano, e sospirai.

Poscia traendo i tremuli ginocchi

Stupidamente per la muta stanza,

Ch'altro sarà, dicea, che il cor mi tocchi?

Amarissima allor la ricordanza

Locommisi nel petto, e mi serrava

Ad ogni voce il core, a ogni sembianza.

E lunga doglia il sen mi ricercava,

Com'è quando a distesa Olimpo piove

Malinconicamente e i campi lava.

Ned io ti conoscea, garzon di nove

E nove Soli, in questo a pianger nato

Quando facevi, amor, le prime prove.

Quando in ispregio ogni piacer, né grato

M'era degli astri il riso, o dell'aurora

Queta il silenzio, o il verdeggiar del prato.

Anche di gloria amor taceami allora

Nel petto, cui scaldar tanto solea,

Che di beltade amor vi fea dimora.

Né gli occhi ai noti studi io rivolgea,

E quelli m'apparian vani per cui

Vano ogni altro desir creduto avea.

Deh come mai da me sì vario fui,

E tanto amor mi tolse un altro amore?

Deh quanto, in verità, vani siam nui!

Solo il mio cor piaceami, e col mio core

In un perenne ragionar sepolto,

Alla guardia seder del mio dolore.

E l'occhio a terra chino o in sé raccolto,

Di riscontrarsi fuggitivo e vago

Né in leggiadro soffria né in turpe volto:

Che la illibata, la candida imago

Turbare egli temea pinta nel seno,

Come all'aure si turba onda di lago.

E quel di non aver goduto appieno

Pentimento, che l'anima ci grava,

E il piacer che passò cangia in veleno,

Per li fuggiti dì mi stimolava

Tuttora il sen: che la vergogna il duro

Suo morso in questo cor già non oprava.

Al cielo, a voi, gentili anime, io giuro

Che voglia non m'entrò bassa nel petto,

Ch'arsi di foco intaminato e puro.

Vive quel foco ancor, vive l'affetto,

Spira nel pensier mio la bella imago,

Da cui, se non celeste, altro diletto

Giammai non ebbi, e sol di lei m'appago.


27/07/2007 18:04
 
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X

IL PRIMO AMORE




Tornami a mente il dì che la battaglia

D'amor sentii la prima volta, e dissi:

Oimè, se quest'è amor, com'ei travaglia!

Che gli occhi al suol tuttora intenti e fissi,

Io mirava colei ch'a questo core

Primiera il varco ed innocente aprissi.

Ahi come mal mi governasti, amore!

Perché seco dovea sì dolce affetto

Recar tanto desio, tanto dolore?

E non sereno, e non intero e schietto,

Anzi pien di travaglio e di lamento

Al cor mi discendea tanto diletto?

Dimmi, tenero core, or che spavento,

Che angoscia era la tua fra quel pensiero

Presso al qual t'era noia ogni contento?

Quel pensier che nel dì, che lusinghiero

Ti si offeriva nella notte, quando

Tutto queto parea nell'emisfero:

Tu inquieto, e felice e miserando,

M'affaticavi in su le piume il fianco,

Ad ogni or fortemente palpitando.

E dove io tristo ed affannato e stanco

Gli occhi al sonno chiudea, come per febre

Rotto e deliro il sonno venia manco.

Oh come viva in mezzo alle tenebre

Sorgea la dolce imago, e gli occhi chiusi

La contemplavan sotto alle palpebre!

Oh come soavissimi diffusi

Moti per l'ossa mi serpeano, oh come

Mille nell'alma instabili, confusi

Pensieri si volgean! qual tra le chiome

D'antica selva zefiro scorrendo,

Un lungo, incerto mormorar ne prome.

E mentre io taccio, e mentre io non contendo,

Che dicevi, o mio cor, che si partia

Quella per che penando ivi e battendo?

Il cuocer non più tosto io mi sentia

Della vampa d'amor, che il venticello

Che l'aleggiava, volossene via.

Senza sonno io giacea sul dì novello,

E i destrier che dovean farmi deserto,

Battean la zampa sotto al patrio ostello.

Ed io timido e cheto ed inesperto,

Ver lo balcone al buio protendea

L'orecchio avido e l'occhio indarno aperto,

La voce ad ascoltar, se ne dovea

Di quelle labbra uscir, ch'ultima fosse;

La voce, ch'altro il cielo, ahi, mi togliea.

Quante volte plebea voce percosse

Il dubitoso orecchio, e un gel mi prese,

E il core in forse a palpitar si mosse!

E poi che finalmente mi discese

La cara voce al core, e de' cavai

E delle rote il romorio s'intese;

Orbo rimaso allor, mi rannicchiai

Palpitando nel letto e, chiusi gli occhi,

Strinsi il cor con la mano, e sospirai.

Poscia traendo i tremuli ginocchi

Stupidamente per la muta stanza,

Ch'altro sarà, dicea, che il cor mi tocchi?

Amarissima allor la ricordanza

Locommisi nel petto, e mi serrava

Ad ogni voce il core, a ogni sembianza.

E lunga doglia il sen mi ricercava,

Com'è quando a distesa Olimpo piove

Malinconicamente e i campi lava.

Ned io ti conoscea, garzon di nove

E nove Soli, in questo a pianger nato

Quando facevi, amor, le prime prove.

Quando in ispregio ogni piacer, né grato

M'era degli astri il riso, o dell'aurora

Queta il silenzio, o il verdeggiar del prato.

Anche di gloria amor taceami allora

Nel petto, cui scaldar tanto solea,

Che di beltade amor vi fea dimora.

Né gli occhi ai noti studi io rivolgea,

E quelli m'apparian vani per cui

Vano ogni altro desir creduto avea.

Deh come mai da me sì vario fui,

E tanto amor mi tolse un altro amore?

Deh quanto, in verità, vani siam nui!

Solo il mio cor piaceami, e col mio core

In un perenne ragionar sepolto,

Alla guardia seder del mio dolore.

E l'occhio a terra chino o in sé raccolto,

Di riscontrarsi fuggitivo e vago

Né in leggiadro soffria né in turpe volto:

Che la illibata, la candida imago

Turbare egli temea pinta nel seno,

Come all'aure si turba onda di lago.

E quel di non aver goduto appieno

Pentimento, che l'anima ci grava,

E il piacer che passò cangia in veleno,

Per li fuggiti dì mi stimolava

Tuttora il sen: che la vergogna il duro

Suo morso in questo cor già non oprava.

Al cielo, a voi, gentili anime, io giuro

Che voglia non m'entrò bassa nel petto,

Ch'arsi di foco intaminato e puro.

Vive quel foco ancor, vive l'affetto,

Spira nel pensier mio la bella imago,

Da cui, se non celeste, altro diletto

Giammai non ebbi, e sol di lei m'appago.


27/07/2007 23:03
 
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XI

IL PASSERO SOLITARIO


D'in su la vetta della torre antica,

Passero solitario, alla campagna

Cantando vai finché non more il giorno;

Ed erra l'armonia per questa valle.

Primavera dintorno

Brilla nell'aria, e per li campi esulta,

Sì ch'a mirarla intenerisce il core.

Odi greggi belar, muggire armenti;

Gli altri augelli contenti, a gara insieme

Per lo libero ciel fan mille giri,

Pur festeggiando il lor tempo migliore:

Tu pensoso in disparte il tutto miri;

Non compagni, non voli,

Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi;

Canti, e così trapassi

Dell'anno e di tua vita il più bel fiore.

Oimè, quanto somiglia

Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,

Della novella età dolce famiglia,

E te german di giovinezza, amore,

Sospiro acerbo de' provetti giorni,

Non curo, io non so come; anzi da loro

Quasi fuggo lontano;

Quasi romito, e strano

Al mio loco natio,

Passo del viver mio la primavera.

Questo giorno ch'omai cede alla sera,

Festeggiar si costuma al nostro borgo.

Odi per lo sereno un suon di squilla,

Odi spesso un tonar di ferree canne,

Che rimbomba lontan di villa in villa.

Tutta vestita a festa

La gioventù del loco

Lascia le case, e per le vie si spande;

E mira ed è mirata, e in cor s'allegra.

Io solitario in questa

Rimota parte alla campagna uscendo,

Ogni diletto e gioco

Indugio in altro tempo: e intanto il guardo

Steso nell'aria aprica

Mi fere il Sol che tra lontani monti,

Dopo il giorno sereno,

Cadendo si dilegua, e par che dica

Che la beata gioventù vien meno.

Tu, solingo augellin, venuto a sera

Del viver che daranno a te le stelle,

Certo del tuo costume

Non ti dorrai; che di natura è frutto

Ogni vostra vaghezza.

A me, se di vecchiezza

La detestata soglia

Evitar non impetro,

Quando muti questi occhi all'altrui core,

E lor fia vòto il mondo, e il dì futuro

Del dì presente più noioso e tetro,

Che parrà di tal voglia?

Che di quest'anni miei? che di me stesso?

Ahi pentirommi, e spesso,

Ma sconsolato, volgerommi indietro.


27/07/2007 23:04
 
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XII

L'INFINITO




Sempre caro mi fu quest'ermo colle,

E questa siepe, che da tanta parte

Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interminati

Spazi di là da quella, e sovrumani

Silenzi, e profondissima quiete

Io nel pensier mi fingo; ove per poco

Il cor non si spaura. E come il vento

Odo stormir tra queste piante, io quello

Infinito silenzio a questa voce

Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,

E le morte stagioni, e la presente

E viva, e il suon di lei. Così tra questa

Immensità s'annega il pensier mio:

E il naufragar m'è dolce in questo mare.


27/07/2007 23:07
 
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XIII

LA SERA DEL DÌ DI FESTA




Dolce e chiara è la notte e senza vento,

E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti

Posa la luna, e di lontan rivela

Serena ogni montagna. O donna mia,

Già tace ogni sentiero, e pei balconi

Rara traluce la notturna lampa:

Tu dormi, che t'accolse agevol sonno

Nelle tue chete stanze; e non ti morde

Cura nessuna; e già non sai né pensi

Quanta piaga m'apristi in mezzo al petto.

Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno

Appare in vista, a salutar m'affaccio,

E l'antica natura onnipossente,

Che mi fece all'affanno. A te la speme

Nego, mi disse, anche la speme; e d'altro

Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.

Questo dì fu solenne: or da' trastulli

Prendi riposo; e forse ti rimembra

In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti

Piacquero a te: non io, non già ch'io speri,

Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo

Quanto a viver mi resti, e qui per terra

Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi

In così verde etate! Ahi, per la via

Odo non lunge il solitario canto

Dell'artigian, che riede a tarda notte,

Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;

E fieramente mi si stringe il core,

A pensar come tutto al mondo passa,

E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito

Il dì festivo, ed al festivo il giorno

Volgar succede, e se ne porta il tempo

Ogni umano accidente. Or dov'è il suono

Di que' popoli antichi? or dov'è il grido

De' nostri avi famosi, e il grande impero

Di quella Roma, e l'armi, e il fragorio

Che n'andò per la terra e l'oceano?

Tutto è pace e silenzio, e tutto posa

Il mondo, e più di lor non si ragiona.

Nella mia prima età, quando s'aspetta

Bramosamente il dì festivo, or poscia

Ch'egli era spento, io doloroso, in veglia,

Premea le piume; ed alla tarda notte

Un canto che s'udia per li sentieri

Lontanando morire a poco a poco,

Già similmente mi stringeva il core.






27/07/2007 23:11
 
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XIV
ALLA LUNA



O graziosa luna, io mi rammento

Che, or volge l'anno, sovra questo colle

Io venia pien d'angoscia a rimirarti:

E tu pendevi allor su quella selva

Siccome or fai, che tutta la rischiari.

Ma nebuloso e tremulo dal pianto

Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci

Il tuo volto apparia, che travagliosa

Era mia vita: ed è, né cangia stile,

O mia diletta luna. E pur mi giova

La ricordanza, e il noverar l'etate

Del mio dolore. Oh come grato occorre

Nel tempo giovanil, quando ancor lungo

La speme e breve ha la memoria il corso,

Il rimembrar delle passate cose,

Ancor che triste, e che l'affanno duri!


27/07/2007 23:13
 
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XV

IL SOGNO




Era il mattino, e tra le chiuse imposte

Per lo balcone insinuava il sole

Nella mia cieca stanza il primo albore;

Quando in sul tempo che più leve il sonno

E più soave le pupille adombra,

Stettemi allato e riguardommi in viso

Il simulacro di colei che amore

Prima insegnommi, e poi lasciommi in pianto.

Morta non mi parea, ma trista, e quale

Degl'infelici è la sembianza. Al capo

Appressommi la destra, e sospirando,

Vivi, mi disse, e ricordanza alcuna

Serbi di noi? Donde, risposi, e come

Vieni, o cara beltà? Quanto, deh quanto

Di te mi dolse e duol: né mi credea

Che risaper tu lo dovessi; e questo

Facea più sconsolato il dolor mio.

Ma sei tu per lasciarmi un'altra volta?

Io n'ho gran tema. Or dimmi, e che t'avvenne?

Sei tu quella di prima? E che ti strugge

Internamente? Obblivione ingombra

I tuoi pensieri, e gli avviluppa il sonno,

Disse colei. Son morta, e mi vedesti

L'ultima volta, or son più lune. Immensa

Doglia m'oppresse a queste voci il petto.

Ella seguì: nel fior degli anni estinta,

Quand'è il viver più dolce, e pria che il core

Certo si renda com'è tutta indarno

L'umana speme. A desiar colei

Che d'ogni affanno il tragge, ha poco andare

L'egro mortal; ma sconsolata arriva

La morte ai giovanetti, e duro è il fato

Di quella speme che sotterra è spenta.

Vano è saper quel che natura asconde

Agl'inesperti della vita, e molto

All'immatura sapienza il cieco

Dolor prevale. Oh sfortunata, oh cara,

Taci, taci, diss'io, che tu mi schianti

Con questi detti il cor. Dunque sei morta,

O mia diletta, ed io son vivo, ed era

Pur fisso in ciel che quei sudori estremi

Cotesta cara e tenerella salma

Provar dovesse, a me restasse intera

Questa misera spoglia? Oh quante volte

In ripensar che più non vivi, e mai

Non avverrà ch'io ti ritrovi al mondo,

Creder nol posso. Ahi ahi, che cosa è questa

Che morte s'addimanda? Oggi per prova

Intenderlo potessi, e il capo inerme

Agli atroci del fato odii sottrarre.

Giovane son, ma si consuma e perde

La giovanezza mia come vecchiezza;

La qual pavento, e pur m'è lunge assai.

Ma poco da vecchiezza si discorda

Il fior dell'età mia. Nascemmo al pianto,

Disse, ambedue; felicità non rise

Al viver nostro; e dilettossi il cielo

De' nostri affanni. Or se di pianto il ciglio,

Soggiunsi, e di pallor velato il viso

Per la tua dipartita, e se d'angoscia

Porto gravido il cor; dimmi: d'amore

Favilla alcuna, o di pietà, giammai

Verso il misero amante il cor t'assalse

Mentre vivesti? Io disperando allora

E sperando traea le notti e i giorni;

Oggi nel vano dubitar si stanca

La mente mia. Che se una volta sola

Dolor ti strinse di mia negra vita,

Non mel celar, ti prego, e mi soccorra

La rimembranza or che il futuro è tolto

Ai nostri giorni. E quella: ti conforta,

O sventurato. Io di pietade avara

Non ti fui mentre vissi, ed or non sono,

Che fui misera anch'io. Non far querela

Di questa infelicissima fanciulla.

Per le sventure nostre, e per l'amore

Che mi strugge, esclamai; per lo diletto

Nome di giovanezza e la perduta

Speme dei nostri dì, concedi, o cara,

Che la tua destra io tocchi. Ed ella, in atto

Soave e tristo, la porgeva. Or mentre

Di baci la ricopro, e d'affannosa

Dolcezza palpitando all'anelante

Seno la stringo, di sudore il volto

Ferveva e il petto, nelle fauci stava

La voce, al guardo traballava il giorno.

Quando colei teneramente affissi

Gli occhi negli occhi miei, già scordi, o caro,

Disse, che di beltà son fatta ignuda?

E tu d'amore, o sfortunato, indarno

Ti scaldi e fremi. Or finalmente addio.

Nostre misere menti e nostre salme

Son disgiunte in eterno. A me non vivi

E mai più non vivrai: già ruppe il fato

La fe che mi giurasti. Allor d'angoscia

Gridar volendo, e spasimando, e pregne

Di sconsolato pianto le pupille,

Dal sonno mi disciolsi. Ella negli occhi

Pur mi restava, e nell'incerto raggio

Del Sol vederla io mi credeva ancora.


27/07/2007 23:17
 
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XVI

LA VITA SOLITARIA




La mattutina pioggia, allor che l'ale

Battendo esulta nella chiusa stanza

La gallinella, ed al balcon s'affaccia

L'abitator de' campi, e il Sol che nasce

I suoi tremuli rai fra le cadenti

Stille saetta, alla capanna mia

Dolcemente picchiando, mi risveglia;

E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo

Degli augelli susurro, e l'aura fresca,

E le ridenti piagge benedico:

Poiché voi, cittadine infauste mura,

Vidi e conobbi assai, là dove segue

Odio al dolor compagno; e doloroso

Io vivo, e tal morrò, deh tosto! Alcuna

Benché scarsa pietà pur mi dimostra

Natura in questi lochi, un giorno oh quanto

Verso me più cortese! E tu pur volgi

Dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando

Le sciagure e gli affanni, alla reina

Felicità servi, o natura. In cielo,

In terra amico agl'infelici alcuno

E rifugio non resta altro che il ferro.

Talor m'assido in solitaria parte,

Sovra un rialto, al margine d'un lago

Di taciturne piante incoronato.

Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,

La sua tranquilla imago il Sol dipinge,

Ed erba o foglia non si crolla al vento,

E non onda incresparsi, e non cicala

Strider, né batter penna augello in ramo,

Né farfalla ronzar, né voce o moto

Da presso né da lunge odi né vedi.

Tien quelle rive altissima quiete;

Ond'io quasi me stesso e il mondo obblio

Sedendo immoto; e già mi par che sciolte

Giaccian le membra mie, né spirto o senso

Più le commova, e lor quiete antica

Co' silenzi del loco si confonda.

Amore, amore, assai lungi volasti

Dal petto mio, che fu sì caldo un giorno,

Anzi rovente. Con sua fredda mano

Lo strinse la sciaura, e in ghiaccio è volto

Nel fior degli anni. Mi sovvien del tempo

Che mi scendesti in seno. Era quel dolce

E irrevocabil tempo, allor che s'apre

Al guardo giovanil questa infelice

Scena del mondo, e gli sorride in vista

Di paradiso. Al garzoncello il core

Di vergine speranza e di desio

Balza nel petto; e già s'accinge all'opra

Di questa vita come a danza o gioco

Il misero mortal. Ma non sì tosto,

Amor, di te m'accorsi, e il viver mio

Fortuna avea già rotto, ed a questi occhi

Non altro convenia che il pianger sempre.

Pur se talvolta per le piagge apriche,

Su la tacita aurora o quando al sole

Brillano i tetti e i poggi e le campagne,

Scontro di vaga donzelletta il viso;

O qualor nella placida quiete

D'estiva notte, il vagabondo passo

Di rincontro alle ville soffermando,

L'erma terra contemplo, e di fanciulla

Che all'opre di sua man la notte aggiunge

Odo sonar nelle romite stanze

L'arguto canto; a palpitar si move

Questo mio cor di sasso: ahi, ma ritorna

Tosto al ferreo sopor; ch'è fatto estrano

Ogni moto soave al petto mio.

O cara luna, al cui tranquillo raggio

Danzan le lepri nelle selve; e duolsi

Alla mattina il cacciator, che trova

L'orme intricate e false, e dai covili

Error vario lo svia; salve, o benigna

Delle notti reina. Infesto scende

Il raggio tuo fra macchie e balze o dentro

A deserti edifici, in su l'acciaro

Del pallido ladron ch'a teso orecchio

Il fragor delle rote e de' cavalli

Da lungi osserva o il calpestio de' piedi

Su la tacita via; poscia improvviso

Col suon dell'armi e con la rauca voce

E col funereo ceffo il core agghiaccia

Al passegger, cui semivivo e nudo

Lascia in breve tra' sassi. Infesto occorre

Per le contrade cittadine il bianco

Tuo lume al drudo vil, che degli alberghi

Va radendo le mura e la secreta

Ombra seguendo, e resta, e si spaura

Delle ardenti lucerne e degli aperti

Balconi. Infesto alle malvage menti,

A me sempre benigno il tuo cospetto

Sarà per queste piagge, ove non altro

Che lieti colli e spaziosi campi

M'apri alla vista. Ed ancor io soleva,

Bench'innocente io fossi, il tuo vezzoso

Raggio accusar negli abitati lochi,

Quand'ei m'offriva al guardo umano, e quando

Scopriva umani aspetti al guardo mio.

Or sempre loderollo, o ch'io ti miri

Veleggiar tra le nubi, o che serena

Dominatrice dell'etereo campo,

Questa flebil riguardi umana sede.

Me spesso rivedrai solingo e muto

Errar pe' boschi e per le verdi rive,

O seder sovra l'erbe, assai contento

Se core e lena a sospirar m'avanza.


27/07/2007 23:18
 
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XVII

CONSALVO




Presso alla fin di sua dimora in terra,

Giacea Consalvo; disdegnoso un tempo

Del suo destino; or già non più, che a mezzo

Il quinto lustro, gli pendea sul capo

Il sospirato obblio. Qual da gran tempo,

Così giacea nel funeral suo giorno

Dai più diletti amici abbandonato:

Ch'amico in terra al lungo andar nessuno

Resta a colui che della terra è schivo.

Pur gli era al fianco, da pietà condotta

A consolare il suo deserto stato,

Quella che sola e sempre eragli a mente,

Per divina beltà famosa Elvira;

Conscia del suo poter, conscia che un guardo

Suo lieto, un detto d'alcun dolce asperso,

Ben mille volte ripetuto e mille

Nel costante pensier, sostegno e cibo

Esser solea dell'infelice amante:

Benché nulla d'amor parola udita

Avess'ella da lui. Sempre in quell'alma

Era del gran desio stato più forte

Un sovrano timor. Così l'avea

Fatto schiavo e fanciullo il troppo amore.

Ma ruppe alfin la morte il nodo antico

Alla sua lingua. Poiché certi i segni

Sentendo di quel dì che l'uom discioglie,

Lei, già mossa a partir, presa per mano,

E quella man bianchissinia stringendo,

Disse: tu parti, e l'ora omai ti sforza:

Elvira, addio. Non ti vedrò, ch'io creda,

Un'altra volta. Or dunque addio. Ti rendo

Qual maggior grazia mai delle tue cure

Dar possa il labbro mio. Premio daratti

Chi può, se premio ai pii dal ciel si rende.

Impallidia la bella, e il petto anelo

Udendo le si fea: che sempre stringe

All'uomo il cor dogliosamente, ancora

Ch'estranio sia, chi si diparte e dice,

Addio per sempre. E contraddir voleva,

Dissimulando l'appressar del fato,

Al moribondo. Ma il suo dir prevenne

Quegli, e soggiunse: desiata, e molto,

Come sai, ripregata a me discende,

Non temuta, la morte; e lieto apparmi

Questo feral mio dì. Pesami, è vero,

Che te perdo per sempre. Oimè per sempre

Parto da te. Mi si divide il core

In questo dir. Più non vedrò quegli occhi,

Né la tua voce udrò! Dimmi: ma pria

Di lasciarmi in eterno, Elvira, un bacio

Non vorrai tu donarmi? un bacio solo

In tutto il viver mio? Grazia ch'ei chiegga

Non si nega a chi muor. Né già vantarmi

Potrò del dono, io semispento, a cui

Straniera man le labbra oggi fra poco

Eternamente chiuderà. Ciò detto

Con un sospiro, all'adorata destra

Le fredde labbra supplicando affisse.

Stette sospesa e pensierosa in atto

La bellissima donna; e fiso il guardo,

Di mille vezzi sfavillante, in quello

Tenea dell'infelice, ove l'estrema

Lacrima rilucea. Né dielle il core

Di sprezzar la dimanda, e il mesto addio

Rinacerbir col niego; anzi la vinse

Misericordia dei ben noti ardori.

E quel volto celeste, e quella bocca,

Già tanto desiata, e per molt'anni

Argomento di sogno e di sospiro,

Dolcemente appressando al volto afflitto

E scolorato dal mortale affanno,

Più baci e più, tutta benigna e in vista

D'alta pietà, su le convulse labbra

Del trepido, rapito amante impresse.

Che divenisti allor? quali appariro

Vita, morte, sventura agli occhi tuoi,

Fuggitivo Consalvo? Egli la mano,

Ch'ancor tenea, della diletta Elvira

Postasi al cor, che gli ultimi battea

Palpiti della morte e dell'amore,

Oh, disse, Elvira, Elvira mia! ben sono

In su la terra ancor; ben quelle labbra

Fur le tue labbra, e la tua mano io stringo!

Ahi vision d'estinto, o sogno, o cosa

Incredibil mi par. Deh quanto, Elvira,

Quanto debbo alla morte! Ascoso innanzi

Non ti fu l'amor mio per alcun tempo;

Non a te, non altrui; che non si cela

Vero amore alla terra. Assai palese

Agli atti, al volto sbigottito, agli occhi,

Ti fu: ma non ai detti. Ancora e sempre

Muto sarebbe l'infinito affetto

Che governa il cor mio, se non l'avesse

Fatto ardito il morir. Morrò contento

Del mio destino omai, né più mi dolgo

Ch'aprii le luci al dì. Non vissi indarno,

Poscia che quella bocca alla mia bocca

Premer fu dato. Anzi felice estimo

La sorte mia. Due cose belle ha il mondo:

Amore e morte. All'una il ciel mi guida

In sul fior dell'età; nell'altro, assai

Fortunato mi tengo. Ah, se una volta,

Solo una volta il lungo amor quieto

E pago avessi tu, fora la terra

Fatta quindi per sempre un paradiso

Ai cangiati occhi miei. Fin la vecchiezza,

L'abborrita vecchiezza, avrei sofferto

Con riposato cor: che a sostentarla

Bastato sempre il rimembrar sarebbe

d'un solo istante, e il dir: felice io fui

Sovra tutti i felici. Ahi, ma cotanto

Esser beato non consente il cielo

A natura terrena. Amar tant'oltre

Non è dato con gioia. E ben per patto

In poter del carnefice ai flagelli,

Alle ruote, alle faci ito volando

Sarei dalle tue braccia; e ben disceso

Nel paventato sempiterno scempio.

O Elvira, Elvira, oh lui felice, oh sovra

Gl'immortali beato, a cui tu schiuda

Il sorriso d'amor! felice appresso

Chi per te sparga con la vita il sangue!

Lice, lice al mortal, non è già sogno

Come stimai gran tempo, ahi lice in terra

Provar felicità. Ciò seppi il giorno

Che fiso io ti mirai. Ben per mia morte

Questo m'accadde. E non però quel giorno

Con certo cor giammai, fra tante ambasce,

Quel fiero giorno biasimar sostenni.

Or tu vivi beata, e il mondo abbella,

Elvira mia, col tuo sembiante. Alcuno

Non l'amerà quant'io l'amai. Non nasce

Un altrettale amor. Quanto, deh quanto

Dal misero Consalvo in sì gran tempo

Chiamata fosti, e lamentata, e pianta!

Come al nome d'Elvira, in cor gelando,

Impallidir; come tremar son uso

All'amaro calcar della tua soglia,

A quella voce angelica, all'aspetto

Di quella fronte, io ch'al morir non tremo!

Ma la lena e la vita or vengon meno

Agli accenti d'amor. Passato è il tempo,

Né questo di rimemorar m'è dato.

Elvira, addio. Con la vital favilla

La tua diletta immagine si parte

Dal mio cor finalmente. Addio. Se grave

Non ti fu quest'affetto, al mio feretro

Dimani all'annottar manda un sospiro.

Tacque: né molto andò, che a lui col suono

Mancò lo spirto; e innanzi sera il primo

Suo dì felice gli fuggia dal guardo.



27/07/2007 23:19
 
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XVIII

ALLA SUA DONNA



Cara beltà che amore

Lunge m'inspiri o nascondendo il viso,

Fuor se nel sonno il core

Ombra diva mi scuoti,

O ne' campi ove splenda

Più vago il giorno e di natura il riso;

Forse tu l'innocente

Secol beasti che dall'oro ha nome,

Or leve intra la gente

Anima voli? o te la sorte avara

Ch'a noi t'asconde, agli avvenir prepara?

Viva mirarti omai

Nulla spene m'avanza;

S'allor non fosse, allor che ignudo e solo

Per novo calle a peregrina stanza

Verrà lo spirto mio. Già sul novello

Aprir di mia giornata incerta e bruna,

Te viatrice in questo arido suolo

Io mi pensai. Ma non è cosa in terra

Che ti somigli; e s'anco pari alcuna

Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,

Saria, così conforme, assai men bella.

Fra cotanto dolore

Quanto all'umana età propose il fato,

Se vera e quale il mio pensier ti pinge,

Alcun t'amasse in terra, a lui pur fora

Questo viver beato:

E ben chiaro vegg'io siccome ancora

Seguir loda e virtù qual ne' prim'anni

L'amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse

Il ciel nullo conforto ai nostri affanni;

E teco la mortal vita saria

Simile a quella che nel cielo india.

Per le valli, ove suona

Del faticoso agricoltore il canto,

Ed io seggo e mi lagno

Del giovanile error che m'abbandona;

E per li poggi, ov'io rimembro e piagno

I perduti desiri, e la perduta

Speme de' giorni miei; di te pensando,

A palpitar mi sveglio. E potess'io,

Nel secol tetro e in questo aer nefando,

L'alta specie serbar; che dell'imago,

Poi che del ver m'è tolto, assai m'appago.

Se dell'eterne idee

L'una sei tu, cui di sensibil forma

Sdegni l'eterno senno esser vestita,

E fra caduche spoglie

Provar gli affanni di funerea vita;

O s'altra terra ne' supremi giri

Fra' mondi innumerabili t'accoglie,

E più vaga del Sol prossima stella

T'irraggia, e più benigno etere spiri;

Di qua dove son gli anni infausti e brevi,

Questo d'ignoto amante inno ricevi.


27/07/2007 23:22
 
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XIX

AL CONTE CARLO PEPOLI



Questo affannoso e travagliato sonno

Che noi vita nomiam, come sopporti,

Pepoli mio? di che speranze il core

Vai sostentando? in che pensieri, in quanto

O gioconde o moleste opre dispensi

L'ozio che ti lasciàr gli avi remoti,

Grave retaggio e faticoso? È tutta,

In ogni umano stato, ozio la vita,

Se quell'oprar, quel procurar che a degno

Obbietto non intende, o che all'intento

Giunger mai non potria, ben si conviene

Ozioso nomar. La schiera industre

Cui franger glebe o curar piante e greggi

Vede l'alba tranquilla e vede il vespro,

Se oziosa dirai, da che sua vita

È per campar la vita, e per sé sola

La vita all'uom non ha pregio nessuno,

Dritto e vero dirai. Le notti e i giorni

Tragge in ozio il nocchiero; ozio il perenne

Sudar nelle officine, ozio le vegghie

Son de' guerrieri e il perigliar nell'armi;

E il mercatante avaro in ozio vive:

Che non a sé, non ad altrui, la bella

Felicità, cui solo agogna e cerca

La natura mortal, veruno acquista

Per cura o per sudor, vegghia o periglio.

Pure all'aspro desire onde i mortali

Già sempre infin dal dì che il mondo nacque

D'esser beati sospiraro indarno,

Di medicina in loco apparecchiate

Nella vita infelice avea natura

Necessità diverse, a cui non senza

Opra e pensier si provvedesse, e pieno,

Poi che lieto non può, corresse il giorno

All'umana famiglia; onde agitato

E confuso il desio, men loco avesse

Al travagliarne il cor. Così de' bruti

La progenie infinita, a cui pur solo,

Né men vano che a noi, vive nel petto

Desio d'esser beati; a quello intenta

Che a lor vita è mestier, di noi men tristo

Condur si scopre e men gravoso il tempo,

Né la lentezza accagionar dell'ore.

Ma noi, che il viver nostro all'altrui mano

Provveder commettiamo, una più grave

Necessità, cui provveder non puote

Altri che noi, già senza tedio e pena

Non adempiam: necessitate, io dico,

Di consumar la vita: improba, invitta

Necessità, cui non tesoro accolto,

Non di greggi dovizia, o pingui campi,

Non aula puote e non purpureo manto

Sottrar l'umana prole. Or s'altri, a sdegno

I vòti anni prendendo, e la superna

Luce odiando, l'omicida mano,

I tardi fati a prevenir condotto,

In se stesso non torce; al duro morso

Della brama insanabile che invano

Felicità richiede, esso da tutti

Lati cercando, mille inefficaci

Medicine procaccia, onde quell'una

Cui natura apprestò, mal si compensa.

Lui delle vesti e delle chiome il culto

E degli atti e dei passi, e i vani studi

Di cocchi e di cavalli, e le frequenti

Sale, e le piazze romorose, e gli orti,

Lui giochi e cene e invidiate danze

Tengon la notte e il giorno; a lui dal labbro

Mai non si parte il riso; ahi, ma nel petto,

Nell'imo petto, grave, salda, immota

Come colonna adamantina, siede

Noia immortale, incontro a cui non puote

Vigor di giovanezza, e non la crolla

Dolce parola di rosato labbro,

E non lo sguardo tenero, tremante,

Di due nere pupille, il caro sguardo,

La più degna del ciel cosa mortale.

Altri, quasi a fuggir volto la trista

Umana sorte, in cangiar terre e climi

L'età spendendo, e mari e poggi errando

Tutto l'orbe trascorre, ogni confine

Degli spazi che all'uom negl'infiniti

Campi del tutto la natura aperse,

Peregrinando aggiunge. Ahi ahi, s'asside

Su l'alte prue la negra cura, e sotto

Ogni clima, ogni ciel, si chiama indarno

Felicità, vive tristezza e regna.

Havvi chi le crudeli opre di marte

Si elegge a passar l'ore, e nel fraterno

Sangue la man tinge per ozio; ed havvi

Chi d'altrui danni si conforta, e pensa

Con far misero altrui far sé men tristo,

Sì che nocendo usar procaccia il tempo.

E chi virtute o sapienza ed arti

Perseguitando; e chi la propria gente

Conculcando e l'estrane, o di remoti

Lidi turbando la quiete antica

Col mercatar, con l'armi, e con le frodi,

La destinata sua vita consuma.

Te più mite desio, cura più dolce

Regge nel fior di gioventù, nel bello

April degli anni, altrui giocondo e primo

Dono del ciel, ma grave, amaro, infesto

A chi patria non ha. Te punge e move

Studio de' carmi e di ritrar parlando

Il bel che raro e scarso e fuggitivo

Appar nel mondo, e quel che più benigna

Di natura e del ciel, fecondamente

A noi la vaga fantasia produce

E il nostro proprio error. Ben mille volte

Fortunato colui che la caduca

Virtù del caro immaginar non perde

Per volger d'anni; a cui serbare eterna

La gioventù del cor diedero i fati;

Che nella ferma e nella stanca etade,

Così come solea nell'età verde,

In suo chiuso pensier natura abbella,

Morte, deserto avviva. A te conceda

Tanta ventura il ciel; ti faccia un tempo

La favilla che il petto oggi ti scalda,

Di poesia canuto amante. Io tutti

Della prima stagione i dolci inganni

Mancar già sento, e dileguar dagli occhi

Le dilettose immagini, che tanto

Amai, che sempre infino all'ora estrema

Mi fieno, a ricordar, bramate e piante.

Or quando al tutto irrigidito e freddo

Questo petto sarà, né degli aprichi

Campi il sereno e solitario riso,

Né degli augelli mattutini il canto

Di primavera, né per colli e piagge

Sotto limpido ciel tacita luna

Commoverammi il cor; quando mi fia

Ogni beltate o di natura o d'arte,

Fatta inanime e muta; ogni alto senso,

Ogni tenero affetto, ignoto e strano;

Del mio solo conforto allor mendico,

Altri studi men dolci, in ch'io riponga

L'ingrato avanzo della ferrea vita,

Eleggerò. L'acerbo vero, i ciechi

Destini investigar delle mortali

E dell'eterne cose; a che prodotta,

A che d'affanni e di miserie carca

L'umana stirpe; a quale ultimo intento

Lei spinga il fato e la natura; a cui

Tanto nostro dolor diletti o giovi:

Con quali ordini e leggi a che si volva

Questo arcano universo; il qual di lode

Colmano i saggi, io d'ammirar son pago.

In questo specolar gli ozi traendo

Verrò: che conosciuto, ancor che tristo,

Ha suoi diletti il vero. E se del vero

Ragionando talor, fieno alle genti

O mal grati i miei detti o non intesi,

Non mi dorrò, che già del tutto il vago

Desio di gloria antico in me fia spento:

Vana Diva non pur, ma di fortuna

E del fato e d'amor, Diva più cieca.

XX

IL RISORGIMENTO

Credei ch'al tutto fossero

In me, sul fior degli anni,

Mancati i dolci affanni

Della mia prima età:

I dolci affanni, i teneri

Moti del cor profondo,

Qualunque cosa al mondo

Grato il sentir ci fa.

Quante querele e lacrime

Sparsi nel novo stato,

Quando al mio cor gelato

Prima il dolor mancò!

Mancàr gli usati palpiti,

L'amor mi venne meno,

E irrigidito il seno

Di sospirar cessò!

Piansi spogliata, esanime

Fatta per me la vita

La terra inaridita,


Chiusa in eterno gel;

Deserto il dì; la tacita

Notte più sola e bruna;

Spenta per me la luna,

Spente le stelle in ciel.

Pur di quel pianto origine

Era l'antico affetto:

Nell'intimo del petto

Ancor viveva il cor.

Chiedea l'usate immagini

La stanca fantasia;

E la tristezza mia

Era dolore ancor.

Fra poco in me quell'ultimo

Dolore anco fu spento,

E di più far lamento

Valor non mi restò.

Giacqui: insensato, attonito,

Non dimandai conforto:

Quasi perduto e morto,

Il cor s'abbandonò.

Qual fui! quanto dissimile

Da quel che tanto ardore,

Che sì beato errore

Nutrii nell'alma un dì!

La rondinella vigile,

Alle finestre intorno

Cantando al novo giorno,

Il cor non mi ferì:

Non all'autunno pallido

In solitaria villa,

La vespertina squilla,

Il fuggitivo Sol.

Invan brillare il vespero

Vidi per muto calle,

Invan sonò la valle

Del flebile usignol.

E voi, pupille tenere,

Sguardi furtivi, erranti,

Voi de' gentili amanti

Primo, immortale amor,

Ed alla mano offertami

Candida ignuda mano,

Foste voi pure invano

Al duro mio sopor.

D'ogni dolcezza vedovo,

Tristo; ma non turbato,

Ma placido il mio stato,

Il volto era seren.

Desiderato il termine

Avrei del viver mio;

Ma spento era il desio

Nello spossato sen.

Qual dell'età decrepita

L'avanzo ignudo e vile,

Io conducea l'aprile

Degli anni miei così:

Così quegl'ineffabili

Giorni, o mio cor, traevi,

Che sì fugaci e brevi

Il cielo a noi sortì.

Chi dalla grave, immemore

Quiete or mi ridesta?

Che virtù nova è questa,

Questa che sento in me?

Moti soavi, immagini,

Palpiti, error beato,

Per sempre a voi negato

Questo mio cor non è?

Siete pur voi quell'unica

Luce de' giorni miei?

Gli affetti ch'io perdei

Nella novella età?

Se al ciel, s'ai verdi margini,

Ovunque il guardo mira,

Tutto un dolor mi spira,

Tutto un piacer mi dà.

Meco ritorna a vivere

La piaggia, il bosco, il monte;

Parla al mio core il fonte,

Meco favella il mar.

Chi mi ridona il piangere

Dopo cotanto obblio?

E come al guardo mio

Cangiato il mondo appar?

Forse la speme, o povero

Mio cor, ti volse un riso?

Ahi della speme il viso

Io non vedrò mai più.

Proprii mi diede i palpiti,

Natura, e i dolci inganni.

Sopiro in me gli affanni

L'ingenita virtù;

Non l'annullàr: non vinsela

Il fato e la sventura;

Non con la vista impura

L'infausta verità.

Dalle mie vaghe immagini

So ben ch'ella discorda:

So che natura è sorda,

Che miserar non sa.

Che non del ben sollecita

Fu, ma dell'esser solo:

Purché ci serbi al duolo,

Or d'altro a lei non cal.

So che pietà fra gli uomini

Il misero non trova;

Che lui, fuggendo, a prova

Schernisce ogni mortal.

Che ignora il tristo secolo

Gl'ingegni e le virtudi;

Che manca ai degni studi

L'ignuda gloria ancor.

E voi, pupille tremule,

Voi, raggio sovrumano,

So che splendete invano,

Che in voi non brilla amor.

Nessuno ignoto ed intimo

Affetto in voi non brilla:

Non chiude una favilla

Quel bianco petto in sé.

Anzi d'altrui le tenere

Cure suol porre in gioco;

E d'un celeste foco

Disprezzo è la mercè.

Pur sento in me rivivere

Gl'inganni aperti e noti;

E, de' suoi proprii moti

Si maraviglia il sen.

Da te, mio cor, quest'ultimo

Spirto, e l'ardor natio,

Ogni conforto mio

Solo da te mi vien.

Mancano, il sento, all'anima

Alta, gentile e pura,

La sorte, la natura,

Il mondo e la beltà.

Ma se tu vivi, o misero,

Se non concedi al fato,

Non chiamerò spietato

Chi lo spirar mi dà.














27/07/2007 23:24
 
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XXI
A SILVIA




Silvia, rimembri ancora

Quel tempo della tua vita mortale,

Quando beltà splendea

Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,

E tu, lieta e pensosa, il limitare

Di gioventù salivi?

Sonavan le quiete

Stanze, e le vie dintorno,

Al tuo perpetuo canto,

Allor che all'opre femminili intenta

Sedevi, assai contenta

Di quel vago avvenir che in mente avevi.

Era il maggio odoroso: e tu solevi

Così menare il giorno.

Io gli studi leggiadri

Talor lasciando e le sudate carte,

Ove il tempo mio primo

E di me si spendea la miglior parte,

D'in su i veroni del paterno ostello

Porgea gli orecchi al suon della tua voce,

Ed alla man veloce

Che percorrea la faticosa tela.

Mirava il ciel sereno,

Le vie dorate e gli orti,

E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.

Lingua mortal non dice

Quel ch'io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,

Che speranze, che cori, o Silvia mia!

Quale allor ci apparia

La vita umana e il fato!

Quando sovviemmi di cotanta speme,

Un affetto mi preme

Acerbo e sconsolato,

E tornami a doler di mia sventura.

O natura, o natura,

Perché non rendi poi

Quel che prometti allor? perché di tanto

Inganni i figli tuoi?

Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,

Da chiuso morbo combattuta e vinta,

Perivi, o tenerella. E non vedevi

Il fior degli anni tuoi;

Non ti molceva il core

La dolce lode or delle negre chiome,

Or degli sguardi innamorati e schivi;

Né teco le compagne ai dì festivi

Ragionavan d'amore.

Anche peria fra poco

La speranza mia dolce: agli anni miei

Anche negaro i fati

La giovanezza. Ahi come,

Come passata sei,

Cara compagna dell'età mia nova,

Mia lacrimata speme!

Questo è quel mondo? questi

I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi

Onde cotanto ragionammo insieme?

Questa la sorte dell'umane genti?

All'apparir del vero

Tu, misera, cadesti: e con la mano

La fredda morte ed una tomba ignuda

Mostravi di lontano.


27/07/2007 23:26
 
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XXIII

CANTO NOTTURNO

DI UN PASTORE ERRANTE DELL'ASIA




Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,

Silenziosa luna?

Sorgi la sera, e vai,

Contemplando i deserti; indi ti posi.

Ancor non sei tu paga

Di riandare i sempiterni calli?

Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga

Di mirar queste valli?

Somiglia alla tua vita

La vita del pastore.

Sorge in sul primo albore;

Move la greggia oltre pel campo, e vede

Greggi, fontane ed erbe;

Poi stanco si riposa in su la sera:

Altro mai non ispera.

Dimmi, o luna: a che vale

Al pastor la sua vita,

La vostra vita a voi? dimmi: ove tende

Questo vagar mio breve,

Il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,

Mezzo vestito e scalzo,

Con gravissimo fascio in su le spalle,

Per montagna e per valle,

Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,

Al vento, alla tempesta, e quando avvampa

L'ora, e quando poi gela,

Corre via, corre, anela,

Varca torrenti e stagni,

Cade, risorge, e più e più s'affretta,

Senza posa o ristoro,

Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva

Colà dove la via

E dove il tanto affaticar fu volto:

Abisso orrido, immenso,

Ov'ei precipitando, il tutto obblia.

Vergine luna, tale

È la vita mortale.

Nasce l'uomo a fatica,

Ed è rischio di morte il nascimento.

Prova pena e tormento

Per prima cosa; e in sul principio stesso

La madre e il genitore

Il prende a consolar dell'esser nato.

Poi che crescendo viene,

L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre

Con atti e con parole

Studiasi fargli core,

E consolarlo dell'umano stato:

Altro ufficio più grato

Non si fa da parenti alla lor prole.

Ma perché dare al sole,

Perché reggere in vita

Chi poi di quella consolar convenga?

Se la vita è sventura

Perché da noi si dura?

Intatta luna, tale

E' lo stato mortale.

Ma tu mortal non sei,

E forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,

Che sì pensosa sei, tu forse intendi,

Questo viver terreno,

Il patir nostro, il sospirar, che sia;

Che sia questo morir, questo supremo

Scolorar del sembiante,

E perir dalla terra, e venir meno

Ad ogni usata, amante compagnia.

E tu certo comprendi

Il perché delle cose, e vedi il frutto

Del mattin, della sera,

Del tacito, infinito andar del tempo.

Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore

Rida la primavera,

A chi giovi l'ardore, e che procacci

Il verno co' suoi ghiacci.

Mille cose sai tu, mille discopri,

Che son celate al semplice pastore.

Spesso quand'io ti miro

Star così muta in sul deserto piano,

Che, in suo giro lontano, al ciel confina;

Ovver con la mia greggia

Seguirmi viaggiando a mano a mano;

E quando miro in cielo arder le stelle;

Dico fra me pensando:

A che tante facelle?

Che fa l'aria infinita, e quel profondo

Infinito seren? che vuol dir questa

Solitudine immensa? ed io che sono?

Così meco ragiono: e della stanza

Smisurata e superba,

E dell'innumerabile famiglia;

Poi di tanto adoprar, di tanti moti

D'ogni celeste, ogni terrena cosa,

Girando senza posa,

Per tornar sempre là donde son mosse;

Uso alcuno, alcun frutto

Indovinar non so. Ma tu per certo,

Giovinetta immortal, conosci il tutto.

Questo io conosco e sento,

Che degli eterni giri,

Che dell'esser mio frale,

Qualche bene o contento

Avrà fors'altri; a me la vita è male.

O greggia mia che posi, oh te beata,

Che la miseria tua, credo, non sai!

Quanta invidia ti porto!

Non sol perché d'affanno

Quasi libera vai;

Ch'ogni stento, ogni danno,

Ogni estremo timor subito scordi;

Ma più perché giammai tedio non provi.

Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,

Tu se' queta e contenta;

E gran parte dell'anno

Senza noia consumi in quello stato.

Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,

E un fastidio m'ingombra

La mente, ed uno spron quasi mi punge

Sì che, sedendo, più che mai son lunge

Da trovar pace o loco.

E pur nulla non bramo,

E non ho fino a qui cagion di pianto.

Quel che tu goda o quanto,

Non so già dir; ma fortunata sei.

Ed io godo ancor poco,

O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.

Se tu parlar sapessi, io chiederei:

Dimmi: perché giacendo

A bell'agio, ozioso,

S'appaga ogni animale;

Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?

Forse s'avess'io l'ale

Da volar su le nubi,

E noverar le stelle ad una ad una,

O come il tuono errar di giogo in giogo,

Più felice sarei, dolce mia greggia,

Più felice sarei, candida luna.

O forse erra dal vero,

Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:

Forse in qual forma, in quale

Stato che sia, dentro covile o cuna,

È funesto a chi nasce il dì natale.



27/07/2007 23:27
 
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XXIV

LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA





Passata è la tempesta:

Odo augelli far festa, e la gallina,

Tornata in su la via,

Che ripete il suo verso. Ecco il sereno

Rompe là da ponente, alla montagna;

Sgombrasi la campagna,

E chiaro nella valle il fiume appare.

Ogni cor si rallegra, in ogni lato

Risorge il romorio

Torna il lavoro usato.

L'artigiano a mirar l'umido cielo,

Con l'opra in man, cantando,

Fassi in su l'uscio; a prova

Vien fuor la femminetta a còr dell'acqua

Della novella piova;

E l'erbaiuol rinnova

Di sentiero in sentiero

Il grido giornaliero.

Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride

Per li poggi e le ville. Apre i balconi,

Apre terrazzi e logge la famiglia:

E, dalla via corrente, odi lontano

Tintinnio di sonagli; il carro stride

Del passeggier che il suo cammin ripiglia.

Si rallegra ogni core.

Sì dolce, sì gradita

Quand'è, com'or, la vita?

Quando con tanto amore

L'uomo a' suoi studi intende?

O torna all'opre? o cosa nova imprende?

Quando de' mali suoi men si ricorda?

Piacer figlio d'affanno;

Gioia vana, ch'è frutto

Del passato timore, onde si scosse

E paventò la morte

Chi la vita abborria;

Onde in lungo tormento,

Fredde, tacite, smorte,

Sudàr le genti e palpitàr, vedendo

Mossi alle nostre offese

Folgori, nembi e vento.

O natura cortese,

Son questi i doni tuoi,

Questi i diletti sono

Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena

È diletto fra noi.

Pene tu spargi a larga mano; il duolo

Spontaneo sorge e di piacer, quel tanto

Che per mostro e miracolo talvolta

Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana

Prole cara agli eterni! assai felice

Se respirar ti lice

D'alcun dolor: beata

Se te d'ogni dolor morte risana.


27/07/2007 23:31
 
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XXV

IL SABATO DEL VILLAGGIO





La donzelletta vien dalla campagna,

In sul calar del sole,

Col suo fascio dell'erba; e reca in mano

Un mazzolin di rose e di viole,

Onde, siccome suole,

Ornare ella si appresta

Dimani, al dì di festa, il petto e il crine.

Siede con le vicine

Su la scala a filar la vecchierella,

Incontro là dove si perde il giorno;

E novellando vien del suo buon tempo,

Quando ai dì della festa ella si ornava,

Ed ancor sana e snella

Solea danzar la sera intra di quei

Ch'ebbe compagni dell'età più bella.

Già tutta l'aria imbruna,

Torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre

Giù da' colli e da' tetti,

Al biancheggiar della recente luna.

Or la squilla dà segno

Della festa che viene;

Ed a quel suon diresti

Che il cor si riconforta.

I fanciulli gridando

Su la piazzuola in frotta,

E qua e là saltando,

Fanno un lieto romore:

E intanto riede alla sua parca mensa,

Fischiando, il zappatore,

E seco pensa al dì del suo riposo.

Poi quando intorno è spenta ogni altra face,

E tutto l'altro tace,

Odi il martel picchiare, odi la sega

Del legnaiuol, che veglia

Nella chiusa bottega alla lucerna,

E s'affretta, e s'adopra

Di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.

Questo di sette è il più gradito giorno,

Pien di speme e di gioia:

Diman tristezza e noia

Recheran l'ore, ed al travaglio usato

Ciascuno in suo pensier farà ritorno.

Garzoncello scherzoso,

Cotesta età fiorita

È come un giorno d'allegrezza pieno,

Giorno chiaro, sereno,

Che precorre alla festa di tua vita.

Godi, fanciullo mio; stato soave,

Stagion lieta è cotesta.

Altro dirti non vo'; ma la tua festa

Ch'anco tardi a venir non ti sia grave.


27/07/2007 23:32
 
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XXVI

IL PENSIERO DOMINANTE




Dolcissimo, possente

Dominator di mia profonda mente;

Terribile, ma caro

Dono del ciel; consorte

Ai lùgubri miei giorni,

Pensier che innanzi a me sì spesso torni.

Di tua natura arcana

Chi non favella? il suo poter fra noi

Chi non sentì? Pur sempre

Che in dir gli effetti suoi

Le umane lingue il sentir proprio sprona,

Par novo ad ascoltar ciò ch'ei ragiona.

Come solinga è fatta

La mente mia d'allora

Che tu quivi prendesti a far dimora!

Ratto d'intorno intorno al par del lampo

Gli altri pensieri miei

Tutti si dileguàr. Siccome torre

In solitario campo,

Tu stai solo, gigante, in mezzo a lei.

Che divenute son, fuor di te solo,

Tutte l'opre terrene,

Tutta intera la vita al guardo mio!

Che intollerabil noia

Gli ozi, i commerci usati,

E di vano piacer la vana spene,

Allato a quella gioia,

Gioia celeste che da te mi viene!

Come da' nudi sassi

Dello scabro Apennino

A un campo verde che lontan sorrida

Volge gli occhi bramoso il pellegrino;

Tal io dal secco ed aspro

Mondano conversar vogliosamente,

Quasi in lieto giardino, a te ritorno,

E ristora i miei sensi il tuo soggiorno.

Quasi incredibil parmi

Che la vita infelice e il mondo sciocco

Già per gran tempo assai

Senza te sopportai;

Quasi intender non posso

Come d'altri desiri,

Fuor ch'a te somiglianti, altri sospiri.

Giammai d'allor che in pria

Questa vita che sia per prova intesi,

Timor di morte non mi strinse il petto.

Oggi mi pare un gioco

Quella che il mondo inetto,

Talor lodando, ognora abborre e trema,

Necessitade estrema;

E se periglio appar, con un sorriso

Le sue minacce a contemplar m'affiso.

Sempre i codardi, e l'alme

Ingenerose, abbiette

Ebbi in dispregio. Or punge ogni atto indegno

Subito i sensi miei;

Move l'alma ogni esempio

Dell'umana viltà subito a sdegno.

Di questa età superba,

Che di vote speranze si nutrica,

Vaga di ciance, e di virtù nemica;

Stolta, che l'util chiede,

E inutile la vita

Quindi più sempre divenir non vede;

Maggior mi sento. A scherno

Ho gli umani giudizi; e il vario volgo

A' bei pensieri infesto,

E degno tuo disprezzator, calpesto.

A quello onde tu movi,

Quale affetto non cede?

Anzi qual altro affetto

Se non quell'uno intra i mortali ha sede?

Avarizia, superbia, odio, disdegno,

Studio d'onor, di regno,

Che sono altro che voglie

Al paragon di lui? Solo un affetto

Vive tra noi: quest'uno,

Prepotente signore,

Dieder l'eterne leggi all'uman core.

Pregio non ha, non ha ragion la vita

Se non per lui, per lui ch'all'uomo è tutto;

Sola discolpa al fato,

Che noi mortali in terra

Pose a tanto patir senz'altro frutto;

Solo per cui talvolta,

Non alla gente stolta, al cor non vile

La vita della morte è più gentile.

Per còr le gioie tue, dolce pensiero,

Provar gli umani affanni,

E sostener molt'anni

Questa vita mortal, fu non indegno;

Ed ancor tornerei,

Così qual son de' nostri mali esperto,

Verso un tal segno a incominciare il corso:

Che tra le sabbie e tra il vipereo morso,

Giammai finor sì stanco

Per lo mortal deserto

Non venni a te, che queste nostre pene

Vincer non mi paresse un tanto bene.

Che mondo mai, che nova

Immensità, che paradiso è quello

Là dove spesso il tuo stupendo incanto

Parmi innalzar! dov'io,

Sott'altra luce che l'usata errando,

Il mio terreno stato

E tutto quanto il ver pongo in obblio!

Tali son, credo, i sogni

Degl'immortali. Ahi finalmente un sogno

In molta parte onde s'abbella il vero

Sei tu, dolce pensiero;

Sogno e palese error. Ma di natura,

Infra i leggiadri errori,

Divina sei; perché sì viva e forte,

Che incontro al ver tenacemente dura,

E spesso al ver s'adegua,

Né si dilegua pria, che in grembo a morte.

E tu per certo, o mio pensier, tu solo

Vitale ai giorni miei,

Cagion diletta d'infiniti affanni,

Meco sarai per morte a un tempo spento:

Ch'a vivi segni dentro l'alma io sento

Che in perpetuo signor dato mi sei.

Altri gentili inganni

Soleami il vero aspetto

Più sempre infievolir. Quanto più torno

A riveder colei

Della qual teco ragionando io vivo,

Cresce quel gran diletto,

Cresce quel gran delirio, ond'io respiro.

Angelica beltade!

Parmi ogni più bel volto, ovunque io miro,

Quasi una finta imago

Il tuo volto imitar. Tu sola fonte

D'ogni altra leggiadria,

Sola vera beltà parmi che sia.

Da che ti vidi pria,

Di qual mia seria cura ultimo obbietto

Non fosti tu? quanto del giorno è scorso,

Ch'io di te non pensassi? ai sogni miei

La tua sovrana imago

Quante volte mancò? Bella qual sogno,

Angelica sembianza,

Nella terrena stanza,

Nell'alte vie dell'universo intero,

Che chiedo io mai, che spero

Altro che gli occhi tuoi veder più vago?

Altro più dolce aver che il tuo pensiero?













27/07/2007 23:36
 
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XXVII
AMORE E MORTE




Muor giovane colui ch'al cielo è caro

MENANDRO

Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte

Ingenerò la sorte.

Cose quaggiù sì belle

Altre il mondo non ha, non han le stelle.

Nasce dall'uno il bene,

Nasce il piacer maggiore

Che per lo mar dell'essere si trova;

L'altra ogni gran dolore,

Ogni gran male annulla.

Bellissima fanciulla,

Dolce a veder, non quale

La si dipinge la codarda gente,

Gode il fanciullo Amore

Accompagnar sovente;

E sorvolano insiem la via mortale,

Primi conforti d'ogni saggio core.

Né cor fu mai più saggio

Che percosso d'amor, né mai più forte

Sprezzò l'infausta vita,

Né per altro signore

Come per questo a perigliar fu pronto:

Ch'ove tu porgi aita,

Amor, nasce il coraggio,

O si ridesta; e sapiente in opre,

Non in pensiero invan, siccome suole,

Divien l'umana prole.

Quando novellamente

Nasce nel cor profondo

Un amoroso affetto,

Languido e stanco insiem con esso in petto

Un desiderio di morir si sente:

Come, non so: ma tale

D'amor vero e possente è il primo effetto.

Forse gli occhi spaura

Allor questo deserto: a sé la terra

Forse il mortale inabitabil fatta

Vede omai senza quella

Nova, sola, infinita

Felicità che il suo pensier figura:

Ma per cagion di lei grave procella

Presentendo in suo cor, brama quiete,

Brama raccorsi in porto

Dinanzi al fier disio,

Che già, rugghiando, intorno intorno oscura.

Poi, quando tutto avvolge

La formidabil possa,

E fulmina nel cor l'invitta cura,

Quante volte implorata

Con desiderio intenso,

Morte, sei tu dall'affannoso amante!

Quante la sera, e quante,

Abbandonando all'alba il corpo stanco,

Sé beato chiamò s'indi giammai

Non rilevasse il fianco,

Né tornasse a veder l'amara luce!

E spesso al suon della funebre squilla,

Al canto che conduce

La gente morta al sempiterno obblio,

Con più sospiri ardenti

Dall'imo petto invidiò colui

Che tra gli spenti ad abitar sen giva.

Fin la negletta plebe,

L'uom della villa, ignaro

D'ogni virtù che da saper deriva,

Fin la donzella timidetta e schiva,

Che già di morte al nome

Sentì rizzar le chiome,

Osa alla tomba, alle funeree bende

Fermar lo sguardo di costanza pieno,

Osa ferro e veleno

Meditar lungamente,

E nell'indotta mente

La gentilezza del morir comprende.

Tanto alla morte inclina

D'amor la disciplina. Anco sovente,

A tal venuto il gran travaglio interno

Che sostener nol può forza mortale,

O cede il corpo frale

Ai terribili moti, e in questa forma

Pel fraterno poter Morte prevale;

O così sprona Amor là nel profondo,

Che da se stessi il villanello ignaro,

La tenera donzella

Con la man violenta

Pongon le membra giovanili in terra.

Ride ai lor casi il mondo,

A cui pace e vecchiezza il ciel consenta.

Ai fervidi, ai felici,

Agli animosi ingegni

L'uno o l'altro di voi conceda il fato,

Dolci signori, amici

All'umana famiglia,

Al cui poter nessun poter somiglia

Nell'immenso universo, e non l'avanza,

Se non quella del fato, altra possanza.

E tu, cui già dal cominciar degli anni

Sempre onorata invoco,

Bella Morte, pietosa

Tu sola al mondo dei terreni affanni,

Se celebrata mai

Fosti da me, s'al tuo divino stato

L'onte del volgo ingrato

Ricompensar tentai,

Non tardar più, t'inchina

A disusati preghi,

Chiudi alla luce omai

Questi occhi tristi, o dell'età reina.

Me certo troverai, qual si sia l'ora

Che tu le penne al mio pregar dispieghi,

Erta la fronte, armato,

E renitente al fato,

La man che flagellando si colora

Nel mio sangue innocente

Non ricolmar di lode,

Non benedir, com'usa

Per antica viltà l'umana gente;

Ogni vana speranza onde consola

Se coi fanciulli il mondo,

Ogni conforto stolto

Gittar da me; null'altro in alcun tempo

Sperar, se non te sola;

Solo aspettar sereno

Quel dì ch'io pieghi addormentato il volto

Nel tuo virgineo seno.


27/07/2007 23:37
 
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XXVIII

A SE STESSO


Or poserai per sempre,

Stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,

Ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,

In noi di cari inganni,

Non che la speme, il desiderio è spento.

Posa per sempre. Assai

Palpitasti. Non val cosa nessuna

I moti tuoi, né di sospiri è degna

La terra. Amaro e noia

La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.

T'acqueta omai. Dispera

L'ultima volta. Al gener nostro il fato

Non donò che il morire. Omai disprezza

Te, la natura, il brutto

Poter che, ascoso, a comun danno impera,

E l'infinita vanità del tutto.


27/07/2007 23:39
 
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XXIX

ASPASIA





Torna dinanzi al mio pensier talora

Il tuo sembiante, Aspasia. O fuggitivo

Per abitati lochi a me lampeggia

In altri volti; o per deserti campi,

Al dì sereno, alle tacenti stelle,

Da soave armonia quasi ridesta,

Nell'alma a sgomentarsi ancor vicina

Quella superba vision risorge.

Quanto adorata, o numi, e quale un giorno

Mia delizia ed erinni! E mai non sento

Mover profumo di fiorita piaggia,

Né di fiori olezzar vie cittadine,

Ch'io non ti vegga ancor qual eri il giorno

Che ne' vezzosi appartamenti accolta,

Tutti odorati de' novelli fiori

Di primavera, del color vestita

Della bruna viola, a me si offerse

L'angelica tua forma, inchino il fianco

Sovra nitide pelli, e circonfusa

D'arcana voluttà; quando tu, dotta

Allettatrice, fervidi sonanti

Baci scoccavi nelle curve labbra

De' tuoi bambini, il niveo collo intanto

Porgendo, e lor di tue cagioni ignari

Con la man leggiadrissima stringevi

Al seno ascoso e disiato. Apparve

Novo ciel, nova terra, e quasi un raggio

Divino al pensier mio. Così nel fianco

Non punto inerme a viva forza impresse

Il tuo braccio lo stral, che poscia fitto

Ululando portai finch'a quel giorno

Si fu due volte ricondotto il sole.

Raggio divino al mio pensiero apparve,

Donna, la tua beltà. Simile effetto

Fan la bellezza e i musicali accordi,

Ch'alto mistero d'ignorati Elisi

Paion sovente rivelar. Vagheggia

Il piagato mortal quindi la figlia

Della sua mente, l'amorosa idea,

Che gran parte d'Olimpo in sé racchiude,

Tutta al volto ai costumi alla favella

Pari alla donna che il rapito amante

Vagheggiare ed amar confuso estima.

Or questa egli non già, ma quella, ancora

Nei corporali amplessi, inchina ed ama.

Alfin l'errore e gli scambiati oggetti

Conoscendo, s'adira; e spesso incolpa

La donna a torto. A quella eccelsa imago

Sorge di rado il femminile ingegno;

E ciò che inspira ai generosi amanti

La sua stessa beltà, donna non pensa,

Né comprender potria. Non cape in quelle

Anguste fronti ugual concetto. E male

Al vivo sfolgorar di quegli sguardi

Spera l'uomo ingannato, e mal richiede

Sensi profondi, sconosciuti, e molto

Più che virili, in chi dell'uomo al tutto

Da natura è minor. Che se più molli

E più tenui le membra, essa la mente

Men capace e men forte anco riceve.

Né tu finor giammai quel che tu stessa

Inspirasti alcun tempo al mio pensiero,

Potesti, Aspasia, immaginar. Non sai

Che smisurato amor, che affanni intensi,

Che indicibili moti e che deliri

Movesti in me; né verrà tempo alcuno

Che tu l'intenda. In simil guisa ignora

Esecutor di musici concenti

Quel ch'ei con mano o con la voce adopra

In chi l'ascolta. Or quell'Aspasia è morta

Che tanto amai. Giace per sempre, oggetto

Della mia vita un dì: se non se quanto,

Pur come cara larva, ad ora ad ora

Tornar costuma e disparir. Tu vivi,

Bella non solo ancor, ma bella tanto,

Al parer mio, che tutte l'altre avanzi.

Pur quell'ardor che da te nacque è spento:

Perch'io te non amai, ma quella Diva

Che già vita, or sepolcro, ha nel mio core.

Quella adorai gran tempo; e sì mi piacque

Sua celeste beltà, ch'io, per insino

Già dal principio conoscente e chiaro

Dell'esser tuo, dell'arti e delle frodi,

Pur ne' tuoi contemplando i suoi begli occhi,

Cupido ti seguii finch'ella visse,

Ingannato non già, ma dal piacere

Di quella dolce somiglianza un lungo

Servaggio ed aspro a tollerar condotto.

Or ti vanta, che il puoi. Narra che sola

Sei del tuo sesso a cui piegar sostenni

L'altero capo, a cui spontaneo porsi

L'indomito mio cor. Narra che prima,

E spero ultima certo, il ciglio mio

Supplichevol vedesti, a te dinanzi

Me timido, tremante (ardo in ridirlo

Di sdegno e di rossor), me di me privo,

Ogni tua voglia, ogni parola, ogni atto

Spiar sommessamente, a' tuoi superbi

Fastidi impallidir, brillare in volto

Ad un segno cortese, ad ogni sguardo

Mutar forma e color. Cadde l'incanto,

E spezzato con esso, a terra sparso

Il giogo: onde m'allegro. E sebben pieni

Di tedio, alfin dopo il servire e dopo

Un lungo vaneggiar, contento abbraccio

Senno con libertà. Che se d'affetti

Orba la vita, e di gentili errori,

È notte senza stelle a mezzo il verno,

Già del fato mortale a me bastante

E conforto e vendetta è che su l'erba

Qui neghittoso immobile giacendo,

Il mar la terra e il ciel miro e sorrido.


27/07/2007 23:42
 
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XXX

SOPRA UN BASSORILIEVO ANTICO SEPOLCRALE,

DOVE UNA GIOVANE MORTA

È RAPPRESENTATA IN ATTO DI PARTIRE,

ACCOMIATANDOSI DAI SUOI




Dove vai? chi ti chiama

Lunge dai cari tuoi,

Bellissima donzella?

Sola, peregrinando, il patrio tetto

Sì per tempo abbandoni? a queste soglie

Tornerai tu? farai tu lieti un giorno

Questi ch'oggi ti son piangendo intorno?

Asciutto il ciglio ed animosa in atto,

Ma pur mesta sei tu. Grata la via

O dispiacevol sia, tristo il ricetto

A cui movi o giocondo,

Da quel tuo grave aspetto

Mal s'indovina. Ahi ahi, né già potria

Fermare io stesso in me, né forse al mondo

S'intese ancor, se in disfavore al cielo,

Se cara esser nomata,

Se misera tu debbi o fortunata.

Morte ti chiama; al cominciar del giorno

L'ultimo istante. Al nido onde ti parti,

Non tornerai. L'aspetto

De' tuoi dolci parenti

Lasci per sempre. Il loco

A cui movi, è sotterra:

Ivi fia d'ogni tempo il tuo soggiorno.

Forse beata sei; ma pur chi mira,

Seco pensando, al tuo destin, sospira.

Mai non veder la luce

Era, credo, il miglior. Ma nata, al tempo

Che reina bellezza si dispiega

Nelle membra e nel volto,

Ed incomincia il mondo

Verso lei di lontano ad atterrarsi;

In sul fiorir d'ogni speranza, e molto

Prima che incontro alla festosa fronte

I lùgubri suoi lampi il ver baleni;

Come vapore in nuvoletta accolto

Sotto forme fugaci all'orizzonte,

Dileguarsi così quasi non sorta,

E cangiar con gli oscuri

Silenzi della tomba i dì futuri,

Questo se all'intelletto

Appar felice, invade

D'alta pietade ai più costanti il petto.

Madre temuta e pianta

Dal nascer già dell'animal famiglia,

Natura, illaudabil maraviglia,

Che per uccider partorisci e nutri,

Se danno è del mortale

Immaturo perir, come il consenti

In quei capi innocenti?

Se ben, perché funesta,

Perché sovra ogni male,

A chi si parte, a chi rimane in vita,

Inconsolabil fai tal dipartita?

Misera ovunque miri,

Misera onde si volga, ove ricorra,

Questa sensibil prole!

Piacqueti che delusa

Fosse ancor dalla vita

La speme giovanil; piena d'affanni

L'onda degli anni; ai mali unico schermo

La morte; e questa inevitabil segno,

Questa, immutata legge

Ponesti all'uman corso. Ahi perché dopo

Le travagliose strade, almen la meta

Non ci prescriver lieta? anzi colei

Che per certo futura

Portiam sempre, vivendo, innanzi all'alma,

Colei che i nostri danni

Ebber solo conforto,

Velar di neri panni,

Cinger d'ombra sì trista,

E spaventoso in vista

Più d'ogni flutto dimostrarci il porto?

Già se sventura è questo

Morir che tu destini

A tutti noi che senza colpa, ignari,

Né volontari al vivere abbandoni,

Certo ha chi more invidiabil sorte

A colui che la morte

Sente de' cari suoi. Che se nel vero,

Com'io per fermo estimo,

Il vivere è sventura,

Grazia il morir, chi però mai potrebbe,

Quel che pur si dovrebbe,

Desiar de' suoi cari il giorno estremo,

Per dover egli scemo

Rimaner di se stesso,

Veder d'in su la soglia levar via

La diletta persona

Con chi passato avrà molt'anni insieme,

E dire a quella addio senz'altra speme

Di riscontrarla ancora

Per la mondana via;

Poi solitario abbandonato in terra,

Guardando attorno, all'ore ai lochi usati

Rimemorar la scorsa compagnia?

Come, ahi, come, o natura, il cor ti soffre

Di strappar dalle braccia

All'amico l'amico,

Al fratello il fratello,

La prole al genitore,

All'amante l'amore: e l'uno estinto,

L'altro in vita serbar? Come potesti

Far necessario in noi

Tanto dolor, che sopravviva amando

Al mortale il mortal? Ma da natura

Altro negli atti suoi

Che nostro male o nostro ben si cura.



27/07/2007 23:43
 
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XXXI

SOPRA IL RITRATTO DI UNA BELLA DONNA

SCOLPITO NEL MONUMENTO SEPOLCRALE

DELLA MEDESIMA




Tal fosti: or qui sotterra

Polve e scheletro sei. Su l'ossa e il fango

Immobilmente collocato invano,

Muto, mirando dell'etadi il volo,

Sta, di memoria solo

E di dolor custode, il simulacro

Della scorsa beltà. Quel dolce sguardo,

Che tremar fe', se, come or sembra, immoto

In altrui s'affisò; quel labbro, ond'alto

Par, come d'urna piena,

Traboccare il piacer; quel collo, cinto

Già di desio; quell'amorosa mano,

Che spesso, ove fu porta,

Sentì gelida far la man che strinse;

E il seno, onde la gente

Visibilmente di pallor si tinse,

Furo alcun tempo: or fango

Ed ossa sei: la vista

Vituperosa e trista un sasso asconde.

Così riduce il fato

Qual sembianza fra noi parve più viva

Immagine del ciel. Misterio eterno

Dell'esser nostro. Oggi d'eccelsi, immensi

Pensieri e sensi inenarrabil fonte,

Beltà grandeggia, e pare,

Quale splendor vibrato

Da natura immortal su queste arene,

Di sovrumani fati,

Di fortunati regni e d'aurei mondi

Segno e sicura spene

Dare al mortale stato:

Diman, per lieve forza,

Sozzo a vedere, abominoso, abbietto

Divien quel che fu dianzi

Quasi angelico aspetto,

E dalle menti insieme

Quel che da lui moveva

Ammirabil concetto, si dilegua.

Desiderii infiniti

E visioni altere

Crea nel vago pensiere,

Per natural virtù, dotto concento;

Onde per mar delizioso, arcano

Erra lo spirto umano,

Quasi come a diporto

Ardito notator per l'Oceano:

Ma se un discorde accento

Fere l'orecchio, in nulla

Torna quel paradiso in un momento.

Natura umana, or come,

Se frale in tutto e vile,

Se polve ed ombra sei, tant'alto senti?

Se in parte anco gentile,

Come i più degni tuoi moti e pensieri

Son così di leggeri

Da sì basse cagioni e desti e spenti?


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