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LA DOTTRINA DI LUCEBIO E IL SUO METODO D'INSEGNAMENTO

Ultimo Aggiornamento: 20/02/2006 21:50
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LA DOTTRINA DI LUCEBIO E IL SUO METODO D'INSEGNAMENTO


Lucebio, dotato di una intelligenza geniale e di una saggezza non comune, era risultato un eccellente maestro nell'arte del vivere. Dopo averle sommamente elogiate, egli aveva predicato ai suoi quindici discepoli, tutte quelle virtù, che sapevano rendere un uomo spiritualmente ricco. Nello stesso tempo, egli si era anche soffermato sulla critica di quei difetti, che, al contrario, rendevano l'uomo intrinsecamente povero, manifestando per essi la sua disapprovazione.

L'altruismo, secondo quanto insegnava il saggio Lucebio, è una virtù nobile e rara. Esso rende l'uomo interiormente valido e lo aiuta a combattere i numerosi tumulti, che spesso vengono ad agitarsi nella sua anima. Inoltre, lo infervora e lo spinge ad amare di più la vita, poiché gli fa avvertire beneficamente, in ogni parte della sua persona, l'appagante consenso della coscienza.

Sarebbe un guaio serio per l'uomo, se egli egoisticamente badasse solo a sé stesso. Se tutti agissero in questo modo e si consegnassero totalmente nelle mani dell'egoismo o, peggio ancora, dell'egotismo, vedremmo l'umanità languire in un inaridimento di tutti i suoi valori di carattere etico-sociale. Così pure, se ogni persona cercasse di sottrarsi agli obblighi che lo legano agli altri della sua stessa specie, vedremmo l'umanità rovinare, con schianto e senza speranza, nella propria autodistruzione.

Concludendo la sua lezione sull'altruismo, egli affermava che, se proprio un uomo non vuole essere un altruista, almeno tenga in mente due cose: 1) egli deve astenersi dall'arrecare al suo prossimo quei danni materiali o morali, che egli stesso tende a fuggire; 2) nella cooperazione fra i singoli individui, è assicurato non solo il benessere della collettività, bensì pure quello di ciascuno di loro.

Parlando poi della giustizia, Lucebio era di convinzione che il bene deve essere ricompensato con il bene; mentre bisogna reagire in giusta misura a chi ci fa del male.

Chi tollera un'offesa senza reagire è ingiusto sia con sé stesso che con il suo offensore. Infatti, colui che offende, ricevendo dalla parte lesa una reazione uguale e contraria, viene a convincersi di una grande verità. Ossia, come non è piacevole venire offeso da qualcuno, così non è bello anche per gli altri ricevere delle offese. Perciò ne arguisce che non è giusto offendere il proprio prossimo.

Solo in un caso si può reagire con il bene all'offesa, cioè quando siamo sicuri che chi ci ha offesi tiene un'anima nobile e sensibile. Ricambiandogli noi l'offesa con il bene, suscitiamo in lui prima una grande mortificazione e poi un ravvedimento sincero. Le quali cose sono da ritenersi le prime espressioni del suo ritorno alla ragionevolezza.

Infine, offende la giustizia pure colui che vuole atteggiarsi a giudice degli altri, senza prima disporre dell'esatta valutazione di sé stesso. Quanto più profondamente ci dedichiamo all'indagine di noi stessi, tanto più con convinzione ci rendiamo consapevoli che il tempo a nostra disposizione non basta, per correggere tutti i nostri difetti.

Come, dunque, alcuni riescono a trovarne per elevarsi a giudici degli altri? Dobbiamo concludere che tali persone vogliono ignorare i propri difetti, unicamente per prendersi la soddisfazione di criticare quelli degli altri. Ma il loro appagamento non può essere che futile ed effimero, dal momento che, prima o poi, esso si tramuterà in dispiacere.

Chi ha dei difetti deve cercare di correggerli con ogni mezzo. In un uomo, anzi, il maggior difetto è il non adoperarsi per correggerli. Comunque, non si possono correggere i propri difetti, se prima non li si conoscono. L'unico modo di pervenire alla loro conoscenza è quello di permettere agli altri di aiutarci a scoprirli. Infatti, mentre i difetti altrui ci si palesano meglio che la luce del sole, i nostri ci si mostrano incredibilmente larvati. Per cui essi ci risultano difficili a scorgersi; si fanno ritenere da noi del tutto inesistenti.

Anche la verità, stando al pensiero di Lucebio, non è meno importante sia del bene che della giustizia. Purtroppo, essa scotta quasi come il fuoco e trafigge più della lama della spada! Per la qual cosa, moltissime persone, quando possono, preferiscono tenersi alla larga da essa.

La strada che conduce alla verità, comunque, è abbastanza ampia ed agevole. Per cui chi vuole tentare di raggiungerla deve percorrere un sentiero, che non è né irto di difficoltà né minato da agguati insidiosi. Solo che negli uomini manca la ferma volontà di farla propria ed usarla come vessillo della loro condotta. Questo loro atteggiamento è dovuto al fatto che essi hanno un timore tremendo della verità, che è lo specchio fedele sia delle loro colpe che dei loro difetti.

E' risaputa prerogativa della specie umana sbagliare nel modo più inconcepibile. Essa, però, disdegna di farsi rinfacciare la loro evidente condizione di torto o di fallo. Per questo s'irrita, al solo pensiero che qualcuno possa permettersi di farlo.

Tale comportamento incomprensibile ed assurdo degli esseri umani può derivare loro da un solo fatto. Essi non sanno che l'assidua ricerca dell'assoluta verità porta direttamente ad un grande benessere interiore e alla pacata serenità della propria coscienza. Specialmente, poi, se essa viene condotta sulla propria persona!

Tutti dovrebbero essere messi al corrente che la verità è l'unica luce della mente, perché illumina e guida ogni nostro pensiero e ci rende coscienti dei nostri difetti. Anzi, essa ci aiuta a correggerli e a superare egregiamente tutti gli ostacoli. Messa in questi termini, la verità rappresenta, come per il nostro spirito così per la nostra anima, l'inestinguibile fiaccola della vera salvezza. Per cui cercare di allontanarla da noi equivale ad immergerci nel buio più fitto.

Secondo il parere di Lucebio, quanto più la verità viene difesa da parte nostra, tanto più si accresce in noi la perfezione. Per questo bisogna ricercarla con tutti i mezzi a nostra disposizione, perché essa venga fatta trionfare dentro di noi. Magari anche a costo del supremo sacrificio!

Mille altre osservazioni dell’illustre maestro avevano ancora riguardato la condotta umana, intesa come sana esplicazione della personalità dell'uomo completo. Era stata tutta una raccolta di virtù da accogliersi, da parte nostra, con molto fervore e da coltivarsi con grande cura. Nello stesso tempo, era stata una elencazione di difetti da respingersi risolutamente o da reprimersi in noi.

La modestia e l'umiltà, quando indossano l’abito della sincerità, fino a diventare parti sue intrinseche, vanno considerate delle vere e proprie ali dell'uomo. Esse gli permettono di elevarsi facilmente alle vette della gloria duratura e anche di tenersi saldo sull'onda del successo.

Nel mondo ci sono parecchie persone, il cui numero va sempre aumentando, che sono abituate a valutarsi da sé, fino a ritenersi davvero molto grandi. Sebbene esse non abbiano alcun difetto di vista, a causa di tale loro supervalutazione, tutti gli altri risultano ai loro occhi più che ridimensionati. Per questo motivo, l'orgoglio e l'alterigia finiscono per impadronirsi di loro. Anzi, le fanno accecare a tal punto, da renderle alla fine del tutto incapaci di distinguere il vero dal falso, la ragione dal torto, il bene dal male, la luce dalle tenebre.

Da tutto ciò, quindi, possiamo dedurre che ci conviene essere distanti come dall'immodestia così dalla superbia, stando attenti a non farle brillare nel nostro vanaglorioso comportamento quotidiano. Il quale deve soltanto impegnarsi a costruire un proficuo rapporto con sé e con gli altri.

Comunque, ci sono alcune eccezionali persone, che riescono ad avere l'esatta valutazione di sé. Perciò, quando esternano la loro bravura, non lo fanno mai per immodestia. Esse sono spinte a parlare delle loro doti straordinarie non per gloriarsene o per vantarsene. Ma lo fanno unicamente perché anche i loro simili ne vengano a conoscenza e ne fruiscano.

Noi le possiamo facilmente riconoscere, per il semplice fatto che esse sono dotate di una semplicità fanciullesca e di un carattere sempre gaio e sereno. Inoltre, il loro rapporto con gli altri è sempre basato sulla sincerità e sulla disponibilità totale.

Al contrario, non bisogna farsi ingannare dai falsi modesti. Essi, nonostante manifestino all'esterno una modestia incredibile, dentro di loro si credono dei veri padreterni. Per cui, nella comunità in cui operano, si ritengono superiori a tutti quanti, nonché indispensabili come nessun altro.

Per fortuna, anch'essi sono facilmente individuabili. Il loro carattere è freddo e scostante, giammai incline alla socievolezza e alla disponibilità. Inoltre, se provate a dire ad uno di loro che non sa niente di niente, subito sarete assaliti da lui con la ferocia della tigre, pur d'indurvi al silenzio!

Anche la sincerità è una gran bella dote, che dovrebbe corredare l'esistenza umana. Essa rappresenta per la nostra anima ciò che l'ossigeno si dimostra per i nostri polmoni. Tale essenza spirituale respira meglio, se la nutriamo con atti di sincerità sentita. La qual cosa dovrebbe spingerci di continuo ad essere schietti non solo con gli altri, ma in particolar modo nei nostri confronti.

Spesso il nostro egoismo tende a trascinarci in un baratro tenebroso privo di ogni verità. Allora la sincerità con noi stessi diventa, più di qualunque altra cosa, un efficace antidoto contro l'egoismo e il narcisismo. Perciò asteniamoci dall'ingannarci nel nostro intimo, mostrandoci soprattutto leali con la nostra persona. Soltanto in questo modo eviteremo di compromettere in noi il trionfo della verità.

Lucebio non aveva omesso di parlare neanche dell’ignoranza. Secondo lui, possiamo facilmente superarla, solo se non si pecca di un orgoglio esagerato. Sull’argomento, egli faceva le osservazioni che si riportano di seguito.

Capita molto spesso che colui che non sa si rifiuta di ammetterlo con pacata umiltà. Egli è ignaro che, in tale suo atteggiamento, si cela l'ignoranza peggiore che ci possa essere al mondo. Non è affatto immaginabile che una certa persona, che tende a nascondere l'ignoranza che è in sé, possa facilmente guarirne e pervenire alla saggezza. Come si sa, se prima non si giunge alla chiara consapevolezza di una propria lacuna, giammai ci si può adoperare per colmarla. Brancolando tastoni nel buio più cieco, mai nessuna persona viene a capo di niente, tanto meno s'impossessa della preziosa verità.

Quando invece in noi preesiste la consapevolezza della nostra ignoranza, accanto ad essa, scorgiamo pure lo stimolo, che ci sprona a tentare di superarla con ogni mezzo e a qualsiasi costo. Sapere di non sapere, a detta di qualche filosofo, costituisce per ognuno di noi il preambolo per giungere alla vera conoscenza. La quale, senza dubbio, è da giudicarsi l'unica capace di guidarci nella nostra grande lotta contro l'abietta ignoranza.

Comunque, concludeva Lucebio, ogni persona deve ritenersi ignorante. Per il semplice fatto che lo scibile umano è troppo vasto, perché qualcuno possa dominarlo nella sua interezza. Perciò non offendiamoci, quando altri ci danno dell'ignorante.

Anche l'invidia si presenta un difetto da non sottovalutare, perciò bisogna evitare di considerarla con molta superficialità. Proprio quando meno ce l'aspettiamo, essa può far scatenare nel nostro io una voglia silente ed incontrollabile di commettere i reati più feroci e tremendi.

Se ne veniamo colpiti in modo blando, possiamo ritenere un sentimento del genere un fatto naturale. Unicamente in questo caso, noi possiamo anche non dargli un peso eccessivo. Esso fa solo nascere nel nostro intimo l'innocuo desiderio di avere anche noi quanto è in possesso degli altri.

Ma a volte l'invidia diventa in tutti noi una disposizione d'animo terribilmente odiosa, oltre che malevola. Allora è davvero il caso di preoccuparcene abbastanza seriamente. In questo caso, l'invidia può suscitare nel nostro fragile intimo l'irrefrenabile impulso ad ideare e perpetrare i peggiori delitti, senza escludere neppure l'orrendo omicidio.

Perciò, quando vediamo che qualcuno ha dei pregi o dei beni materiali, di cui risultiamo assolutamente privi, non facciamoci affatto prendere dall'invidia, pur essendoci in noi il desiderio di possederli. Anzi, sarà meglio convincerci che possono bastarci tutte quante le cose, che sono già in nostro possesso. Così sopprimiamo in noi qualunque nuova brama, che possa spingerci a volere per forza quanto ormai risulta di proprietà altrui.

Tale saggia convinzione, a pensarci bene, ci permetterà di condurre un'esistenza serena, senza farci trascorrere giornate intossicate e altrettante notti maledettamente insonni!

Ogni volta che abbiamo la possibilità di farlo, non esitiamo a sostituire l'invidia con l'emulazione, che può di sicuro tornarci molto utile. Difatti essa riesce sempre a dare alla nostra vita un senso ed un valore meritevoli di lode.

Un conto è restarcene ad invidiare gli altri, solo perché hanno fortune e tanti pregi, nutrendo magari nei loro confronti sia astio profondo che intenzioni malvagie. Un altro conto, invece, è avvertire dentro di noi il desiderio di superare oppure uguagliare quanto di positivo hanno i nostri avversari. Magari ci adoperiamo, instancabilmente e con tutte le forze, per riuscire alla meglio nella nostra ambizione.

Nel primo caso, noi ci mostriamo senz'altro delle persone inattive e capaci solamente di pensare in che modo procurare loro del male. Nel secondo caso, invece, com'è da tutti intuibile, diventiamo dei soggetti attivi ed operosi. In più, nobilitiamo la nostra condotta e ci assicuriamo nella nostra società un posto da ritenersi di tutto rispetto.

Ma perché tutto questo si avveri in pieno, la nostra concorrenza ed anche il nostro impegno devono sempre risultare leali e totali. Inoltre, giammai un eventuale insuccesso deve trascinarci nel baratro della definitiva rinuncia oppure della depressione, meno ancora nell'immotivato disprezzo di noi stessi.

Quindi, in ogni circostanza, rendendolo sempre possibile, noi dobbiamo affrontare qualunque nostra lotta, oltre che qualsiasi nostra gara, con spirito agonistico e con l'animo dello sportivo. Né bisogna dimenticare che la bravura e l'impegno zelante dei nostri avversari vanno sempre rispettati.

Ci capita a volte di venire assaliti da quel comune difetto abbastanza insidioso, che tutti conoscono con il nome di accidia. La quale quasi sempre s'instaura in noi dopo una sconfitta o una disavventura, oppure dopo un torto ingiustamente subito.

Allora diventiamo parecchio indolenti, poiché una grande noia viene a sorprenderci verso quanto è in noi o ci circonda. Spesso poi ci mostriamo depressi e malinconici, ci ribelliamo perfino alla nostra esistenza, in cui oramai abbiamo smesso di avere fiducia. Infatti, non la reputiamo più il campo d'azione dei nostri progetti e delle nostre speranze.

Alla fine l'abulia e l'apatia riescono a far facile breccia nel nostro spirito. Così cominciano a fiaccarlo a tal punto, da fargli venire a mancare la forza di reagire e quella di reinserirsi in modo costruttivo nella propria realtà.

Non dobbiamo mai cedere all'ignavia; è meglio reagire ad essa con quell'energia, che può provenirci solo dall'attività e dall'operosità. L'azione, infatti, è la medicina adatta a guarire ogni forma di grave pessimismo, qualunque sia la causa che l'ha determinato.

L'attività ci fa pure superare ogni ostacolo, sia esso di natura psichica o spirituale. Essa, dopo averceli fatti prima ignorare del tutto, in seguito ci permette di affrontare risoluti una grande quantità d'impatti psicologici. I quali riescono spesso ad influire negativamente sugli organi della nostra persona.

Ecco perché Lucebio raccomandava che, quando veniamo bombardati da momenti difficili, bisogna evitare di arrenderci alle prime avversità. Anzi, reagendo ad esse con tutte le forze, dobbiamo cercare di dimostrarci quanto più possibile dinamici e dediti ad ogni intraprendenza. Soltanto combattendo la nostra battaglia con esuberante volitività e senza mai rinunciare ad essa, possiamo essere certi che non affonderemo nell'umiliante disistima di noi medesimi. Né correremo il pericolo di trovarci a mortificare ancor più gravemente la fine sensibilità del nostro nobile spirito.

Accennando alla forma e alla sostanza, Lucebio affermava che quasi la maggioranza degli esseri umani, quando si dedicano ad una loro attività, si soffermano più sull'atto formale, anziché sulla reale essenza delle cose. Ossia, s'interessano più all'etichetta, che non al loro comportamento in sé.

Essi per principio, non dando alcun peso alla sostanza delle cose, si mostrano schiavi di un vuoto formalismo, che egli osava definire quasi maniacale. Per questo, per loro, l'aspetto esteriore, come pure le forme dette convenzionali, finiscono per divenire i presupposti essenziali della loro condotta. Ma soprattutto diventano problemi d'importanza capitale della loro esistenza misera e travagliata.

Gli amanti della forma fanno basare tutta la loro vita sull'inviolabile motto "Cercare di apparire, prima che essere!". Per questo motivo, essi non rinuncerebbero mai al loro modo di vivere. Nemmeno in cambio di tutto l'oro del mondo!

Sebbene i formalisti siano a conoscenza che è solo l'essenza di un atto o di una cosa quella che principalmente ha valore e non il loro modo di presentarsi agli altri, lo stesso preferiscono non tenerne conto. In questo modo, a loro parere, diventa più facile mascherare la futilità del loro operato. Inoltre, si evita che la pura inconsistenza dei loro prodotti venga notata ed acremente criticata dagli altri.

Invece quegli uomini, che dimostrano di avere il vero senso pratico in ogni cosa che fanno, giammai li vediamo darsi ad un vacuo formalismo. Per cui riescono sempre a perseguire agevolmente fini ben più consistenti ed altamente nobili.

Ecco perché essi mirano di continuo alla concretezza, badando essenzialmente al realismo dei fatti. Anzi, sono convinti che, agendo in tal modo, un giorno la loro scelta concreta e realistica in alcun caso li smentirà su nessunissima cosa; invece procurerà loro soltanto la massima soddisfazione.

Restando in un tema del tutto analogo al precedente, Lucebio faceva presente che, in tutto ciò che facciamo, non bisogna dimenticare che la pratica è sempre da preferirsi alla teoria. Anche se la parte teorica ha la sua importanza, per cui non è mai da rigettare in toto, nella realizzazione delle cose che facciamo, noi dobbiamo affidarci in primo luogo all'atto pratico.

Nell’attuare un progetto o nel portare a termine un elaborato processo di qualsiasi natura, il nostro atteggiamento deve dunque cercare di ancorarsi alla pratica, privilegiandola al massimo sempre e in ogni senso. Ciò vuol dire unicamente che, nella messa in opera di una qualunque attività da noi programmata, non bisogna assegnare l’esclusiva preminenza a nessuna forma di arido schematismo. Il quale può soltanto risultare sterile ed astratto.

A questo riguardo, va ancora ricordato che essere prammatici assoluti e rigorosi può farci solamente evitare di riscuotere insuccessi e delusioni sia dal nostro impegno che dal nostro lavoro.

Neanche la trattazione del problema religioso e del suo rapporto con l’atto educativo era stata trascurata nell'insegnamento di Lucebio. Anche perché egli era stato sollecitato dai suoi allievi ad esprimere il suo parere in merito.

Secondo il saggio maestro, qualunque educazione, se vuole essere valida, deve contemplare anche il problema religioso. Comunque, ogni educatore deve potere esprimere, in un simile argomento di per sé assai delicato, il proprio libero parere. Il quale, però, non dovrà mai essere imposto ai propri teneri allievi come sacrosanta verità.

Perciò un problema del genere non può che partire dall'importante premessa che l'imponente universo, perfetto come si presenta, mai e in nessun caso deve essere immaginato come un mero qualcosa che si è creato da solo.

Allora ne consegue per logica la chiara constatazione che soltanto un'essenza superiore ha potuto crearlo. Essa, in pari tempo, si è presa la briga di creare pure le piante, gli animali e l'uomo. Però solo all'essere umano, che risulta l'entità più importante esistente nell'universo, ha voluto conferire sia l'intelligenza che la ragione.

Per questo unicamente dall'uomo la medesima divinità pretende con rigore l'assoluto assolvimento di tutti i suoi doveri. Ma prima essa si è incaricata di proporgli alla nascita l'inevitabile alternativa del bene e del male. Scegliendo egli il bene, gli viene assicurato, nella vita ultraterrena, un premio adeguato; altrimenti, vi viene punito con severità.

Le varie religioni, inoltre, devono essere considerate sostanzialmente uguali, siccome ognuna finalizza la sua encomiabile opera al Supremo Creatore. Infatti, se ci si mette ad approfondirle tutte, ci si rende subito conto che sono solo le loro manifestazioni esteriori a farle apparire molto diverse tra di loro. Ciò è motivato dal fatto che esse sono venute a svilupparsi in culture del tutto differenti. Quindi, è assai importante che ci sia in ogni uomo il senso religioso, che rifugga al massimo il fanatismo. Esso riesce perfettamente a guidarlo anche nella moralizzazione dell'intera sua vita pubblica e privata.

Senza dubbio, i due piatti forti della dottrina di Lucebio erano stati il discorso sulla libertà e quello, ad esso collegato, sulla schiavitù. Egli predicava che la libertà, oltre ad essere un bene prezioso per l'uomo, è anche un suo diritto sacrosanto, inalienabile ed irrinunciabile.

Gli dèi hanno creato l’uomo completamente libero, appunto per farlo esprimere con piena autonomia in tutto ciò che fa, persino nel male. Anche se poi egli è tenuto a rendere conto del proprio operato ai suoi simili, in questo mondo, e all'Ente Supremo, che lo ha reso esistente, nell'altra vita.

L'uomo è un animale preminentemente libero, prima di essere considerato socievole e ragionevole; né lo si può concepire in un modo diverso. Tale essere straordinario trae dalla libertà la sua forza primaria, che è la creatività. Della quale egli si serve di continuo per valicare i confini del tempo e dello spazio. L'atto creativo, dunque, gli occorre precipuamente per potersi proiettare nel remoto futuro, come originale autore di progresso e di civiltà, e per nobilitare al massimo l'essenza del suo spirito.

Quando l'uomo conduce una vita da schiavo, essa finisce sempre per ottundergli l'ingegno; mentre le altre sue facoltà mentali vanno incontro ad un inaridimento totale. Alla fine, costretto all'impotenza espressiva, egli strapiomba nel baratro della barbarie. Nella quale, la sua esistenza non può che risolversi in un turpe abbrutimento della sua personalità.

Dalla libertà e la schiavitù del singolo individuo a quelle di un intero popolo, il passo era risultato breve, oltre che obbligatorio.

Secondo il punto di vista di Lucebio in proposito, in nessun caso un popolo deve essere privato della libertà di gestire la propria tradizione linguistica, culturale e religiosa. Perciò non ci deve essere alcuna indebita ingerenza da parte di un altro stato, al fine di limitarne la sovranità da esercitare sul proprio territorio. Né deve soffocare la libera espressione di qualche aspetto legato alle sue usanze.

Allo stesso popolo, insieme alla libertà, deve essere garantita da tutti gli stati esistenti pure l'autodeterminazione. La quale, invece, gli verrebbe a mancare, se altri popoli invasori iniquamente lo conquistassero e gli imponessero ignominiosamente il loro schiavizzante predominio.

Perciò, in quel luogo dove i sacri diritti di un popolo vengono gravemente lesi e calpestati con la prepotenza, è dovere imprescindibile dell'intera sua collettività armarsi fino ai denti. Dovrà così opporsi compatta e decisa all'abominevole sopraffazione straniera ed impegnarsi contro di essa in una lotta senza quartiere.

Anzi, diventa un vero obbligo morale, per ciascuno degli individui di un popolo oppresso, rivoltarsi e prendere parte all'insurrezione armata. Sì, è suo dovere abbattere il suo dispotico oppressore e riconquistare con onore la perduta libertà. Magari anche votandosi, nel caso che occorra, al supremo sacrificio!

In mancanza di una sollevazione, l'insostenibile schiavitù di sicuro viene a privarlo della preziosa facoltà tanto di autodeterminarsi quanto di autogovernarsi. Anzi, finisce per annientare nel cittadino sia la libera iniziativa che la libertà di espressione. E per lui, come si sa, entrambe le cose rappresentano la pregiata linfa vitale, poiché in tutti i tempi lo preservano da ogni forma d'inciviltà e di abbrutimento. Ma, sopra ogni cosa, ne salvaguardano con cura meticolosa l'integrità e l'identità.

Ad ogni modo, un popolo deve responsabilmente assumere l'identico atteggiamento, anche quando la sopraffazione e il conseguente sopruso, anziché da uno stato straniero, gli provengono dal proprio sovrano, dopo essere divenuto un dittatore.

Quanto alla politica, Lucebio era poco interessato ad essa. Comunque, propendeva per un governo ispirato ad una democrazia piena, che riscattasse il cittadino da ogni forma di dispotismo.

Il suo spirito democratico lo si poteva riassumere nel seguente aforisma, che egli era solito ripetere ai suoi discepoli:

"La democrazia è bella perché rende ciascuno di noi libero di manifestare le proprie idee. Ma là dove ci arroghiamo il diritto d'imporle agli altri, senza che siano loro stessi ad accettarle spontaneamente, essa smette di esistere. Allora la nostra libertà diventa sopraffazione per gli altri."

Nelle varie discettazioni di Lucebio, anche la professione dello scrittore era venuta ad assumere un ruolo primario. Spettava a lui, infatti, erudire un popolo e trasmettergli il proprio pensiero morale, politico, religioso o di altra natura. Perciò aveva indicato anche le caratteristiche che egli doveva avere, perché la sua opera risultasse davvero degna di essere seguita ed assimilata dalla gente.

A suo parere, l’arte dello scrivere non era alla portata di tutti. Un vero scrittore, per considerarsi tale, doveva possedere i seguenti tre requisiti: chiarezza, immediatezza e saggezza. Con il primo, egli si sarebbe fatto capire dal lettore; con il secondo, lo avrebbe avvinto e conquistato; con il terzo, lo avrebbe arricchito con il proprio messaggio etico o ideologico.

Non poteva ritenersi un vero scrittore, quindi, colui che, nello scrivere, non tendeva a perseguire tutti e tre i citati obiettivi, che qui ancora si rammentano: 1) farsi comprendere senza difficoltà dal lettore; 2) suscitare in lui l’interesse per la lettura; 3) potenziarne le facoltà dello spirito. Perciò, quando ciò non si verificava, i suoi scritti, anche se graditi da una parte dei lettori, dovevano ritenersi solo parole gettate al vento.

Nel campo della conoscenza, Lucebio si riteneva un empirista; però aveva elaborato tutta una sua teoria, che attribuiva alla psiche umana un valore inestimabile. Perciò il suo pensiero al riguardo si adeguava ad essa, come constateremo tra poco, quando passeremo ad esplicitarlo in sintesi.

Secondo il suo pensiero, le sensazioni, che ci provengono dall'inconscio e che sono i contenuti rimossi dello stesso, non ci giungono in forma diretta e lampante; bensì vanno prima incontro ad una elaborazione intrinseca nell'ambito del subconscio. In quest'ultimo, infatti, esse vengono agganciate da cariche pulsionali, sull'onda delle quali riescono poi a farsi leggere in chiave fenomenica e a farsi captare dalla nostra attività sensoriale.

Comunque, le medesime ancora non diventano attributi sensitivi, se prima non sono stati assoggettati alla revisione della psiche, che passa in questo modo ad implementarle, supportandole di processi empirici idonei ad estrinsecarle nel modo più appropriato. Solo a questo punto i contenuti dell'inconscio, rielaborati nell'essenza psichica, diventano autentiche sensazioni, ossia atti permeati di concretezza e non più eludibili da parte della realtà.

Così, grazie ad esse, l'essere vivente diventa reale a sé stesso e al suo mondo, assapora l'evolversi effettivo della sua esistenza, esterna la sua qualità neurovegetativa in forma appercettiva, riprogramma la sua capacità di determinarsi, in base alla situazione del momento e ai tanti nuovi fenomeni che vengono ad investirlo.

Da parte sua, l'uomo, il primo nella gerarchia degli esseri viventi, vive le proprie sensazioni a vari livelli, ora gestendole in modo da appagare le proprie esigenze interiori, ora finalizzandole al conseguimento delle più alte vette della propria intelligenza e della propria spiritualità.

Anche al tempo egli attribuiva un proprio significato, molto singolare nella sua concettualità. Perciò cerchiamo di seguirne il processo, attraverso la sua esposizione sintetica.

Il tempo è l'essenza invisibile dell'universo, che vi si proietta indefinitamente nel futuro, allo scopo di dare origine all'eternità con tutta la sua valenza d'inesauribile fonte dell'essere nel suo fluire cosmico ed inattaccabile dalla materia.

Nessuno dei nostri cinque sensi è capace di captarlo, mentre esso, con la sua avanzata inarrestabile, sovrasta ogni cosa ed ogni essere; ma anche ne registra le incessanti ed inavvertibili trasformazioni.

I vari fatti e fenomeni del reale concreto, quindi, diventano fotogrammi di un'unica sequenza temporale, che li va inglobando e proiettando verso nuovi cambiamenti. Essi attestano, allo stesso tempo, il loro divenire e il loro scadimento, che si vanno sfaldando in forme sempre più deteriorate e desuete.

Poter galoppare il tempo e ripercorrerlo a ritroso sarebbe come rivivere il nostro trascorso presente e rivisitarlo nei suoi squarci esistenziali già con una loro conclusione. E ciascuno di loro ci apparirebbe intenso di episodi pullulati in seno alla psiche umana, oppure zeppo d'interventi operati dall'azione dei fenomeni naturali. Insomma, significherebbe ritornare ad essere i noi stessi di una volta, divenendo nuovamente attori del nostro passato e programmatori del nostro futuro.

Così l'uno e l'altro tempo ci riconsegnerebbero a quel nostro esistere che fu. Il quale si dimostrò straodinariamente ricco di eventi e di opere, di cui quasi sempre noi risultammo gli artefici, sia nella buona che nella cattiva sorte.

Entrando poi nell'argomento più prettamente pedagogico-didattico, la dottrina di Lucebio aveva riguardato soprattutto il rapporto docente-discente e il metodo d'insegnamento.

Secondo l’autorevole pensiero di Lucebio, l'opera educativa può ottenere dall'insegnamento i suoi frutti migliori, solo se viene a fondarsi su un rapporto affiatato e sincero tra l'abile educatore e l'allievo a lui affidato. A suo parere, esso viene ottenuto, solo quando il docente ha una conoscenza affettiva dei propri alunni. Infatti, in questo caso soltanto, egli è in grado di aiutarli nella loro crescita psichica e spirituale.

Ma perché l'insegnante consegua una tale conoscenza, ovviamente egli non deve compiere alcuno sforzo, siccome gli basta ritornare ad essere, nella sua interiorità, il bambino di un tempo. Già al primo contatto con i suoi allievi, aiutato dal ricordo della propria infanzia, egli deve innanzitutto cercare di svuotarsi di tutto quanto lo rende palesemente adulto, fino a sentirsi un vero fanciullo egli stesso.

Dopo che l’educatore si è veramente reso conto dei problemi che presenta ogni piccola individualità che deve educare, la sua opera viene a basarsi interamente sull'amore sentito, sulla mutua comprensione e sulla schietta amicizia. Ma, principalmente, essa viene a fondarsi sul rispetto della persona, ripromettendosi così di aiutarla a risolvere i suoi problemi con cura e con tatto.

Solo a queste condizioni, l'alunno viene a ravvisare nell’amato docente la persona che più di altri è degna della propria fiducia e della propria stima. Allora egli accetterà ciecamente qualunque sua parola come sacrosanto vangelo e considererà qualsiasi sua richiesta come legge necessaria e utile per il suo benessere.

Giunto a questo punto, l'educatore non ha più alcuna sorta di difficoltà a condurre i suoi alunni verso ogni traguardo. Egli riuscirà a guidarli molto egregiamente verso una saggia conoscenza ed una sana formazione.

Il docente, ad ogni modo, riguardo alle varie discipline, non deve badare a dotare ciascuno di loro di un bagaglio di nozioni aride ed astratte. Il quale può essere conseguito solo attraverso uno studio completamente privo di sistematica organicità. In tal caso, l’apprendimento di ciascuno risulterebbe quanto mai improduttivo, oltre che vuoto di premesse per ulteriori approfondimenti.

Al nozionismo così inteso, l'educatore dove preferire la formazione integrale di ogni suo alunno, tenendo presente ogni volta che lo scopo principale della sua missione educativa è quello di ricavare da lui il futuro cittadino. Per cui la sua opera educativa deve tendere a formarne una coscienza libera ed autonoma. Però un simile miracolo può essere conseguito, a patto che si badi, essenzialmente e in ogni caso, alla sua crescita spirituale, tenendo acceso nel discente il desiderio di apprendere in modo sistematico ed organico.

Anche se il metodo d’insegnamento di Lucebio si fondava sul realismo, egli però ci teneva a precisare che esso, per essere ritenuto valido, non deve mai risultare rigorosamente sperimentale, ossia basato in modo esclusivo sulla pura esperienza. La mente umana, infatti, si ravviva e diviene flessibile, come pure si approfondisce, solo se vive intimamente il proprio apprendimento.

Ciò vuol dire, per intenderci meglio, che è necessario stare a diretto contatto di tutte quelle cose che sono da apprendersi. Ma soprattutto bisogna venire a conoscenza tanto di quelle leggi, da cui esse sono regolate, quanto di quei principi, su cui le stesse si basano. In definitiva, significa che occorre prima tuffarsi nella loro essenza con tutte le proprie facoltà mentali, per riemergerne in seguito, dopo che le medesime sono andate incontro ad un bagno di feconda esperienza.

La lezione, ad ogni modo, in nessun caso va fatta inaridire nel dogma, ma deve in ogni momento poggiare attivamente sulla constatazione dei fatti e sull'esame dei fenomeni, per trarre agevolmente dagli uni e dagli altri vitalità e profitto. Allo stesso modo, il giudizio ogni volta deve rigidamente seguire l'esperimento concreto; mentre la cognizione deve nascere di continuo dal realismo di fatti e di cose.

Infine, l'esimio maestro faceva presente che l'educatore, per insegnare, non ha bisogno della conoscenza scientifica del delicato suo allievo. Invece la sua opera educativa deve procedere, badando sempre ad attingere dalla sua debole psiche. Il fanciullo non è una fredda macchina che esige di essere guidato con rigore scientifico. All'opposto, bisogna sapere che egli è una tiepida anima, che tende con il tempo a diventare un fuoco ardente.

Per questo motivo, se si tenta di manipolarlo con la pura scientificità, che non può che presentarsi gelida ed assurda, si finisce per privarlo totalmente di comunicativa e fantasia, d’ingenuità e semplicità. Alla fine lo si farà sembrare uno spento fantoccio, giammai capace di dare dei frutti preziosi. I quali possono solo derivargli dalle sue due doti migliori, che hanno per nome originalità e spontaneità.

Questi, in sintesi, erano l'insegnamento e il rispettivo metodo del saggio Lucebio, dei quali i suoi allievi avrebbero fatto gran tesoro. Essi, accogliendoli con sommo rispetto e con devota venerazione, li avrebbero diffusi in tutte le città dell'Edelcadia, dopo avervi aperto scuole di grande rinomanza. Per tal motivo, Lucebio, con i suoi savi insegnamenti, in seguito avrebbe formato la mente e il costume di tutto il popolo edelcadico.
(Da Iveonte)

poetasenzanome
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Lunga ma molto interessante stampo e leggo con calma

Andrea
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Letta... direi che è interessante e che ripropone moltissimi dei valori che tutti dovrebbero veramente seguire e mettere in pratica... [SM=g27811]

Grazie per la dritta

Gae
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Grazie lucebio,farò tesoro di quel che dici,sempre nel rispetto
del mio quasi assoluto bisogno del superfluo...
[SM=x142882]
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