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Luce e ombra (per chi vuole perderci un po' di tempo)

Ultimo Aggiornamento: 24/11/2004 21:22
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24/11/2004 21:22
 
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III

Raggiunsi il confine con passo risoluto, deciso a deviare il monotono corso della mia esistenza, ad abbandonare l’ambiguità della luce, anche se fossi andato incontro a dolorose verità. Un enorme specchio trasparente si stagliava di fronte a me, percorso da una miriade di cerchi concentrici, simili a quelli che si formano nell’acqua quando la quiete viene turbata da un suono… Mi avvicinai tremebondo, perché le gambe si piegavano alle irresistibili vibrazioni di quel luogo sottile. Vidi tutta la mia vita in un istante e fui sopraffatto dall’orrore. Mi vidi vecchio, aggricciato su un marcescente bastone nodoso, umiliato dalle donne, consumato da un esistenza vissuta all’ombra di esse. Quelle floride creature le avevo desiderate per tutta la vita invano. Le guardavo da lontano simili a gemme incastonate, nella loro prigione di vetro. Il sole aveva sempre baciato le mie guance, ma il suo era un bacio di Giuda: sebbene avesse rischiarato la mia via e riscaldato le mie membra, non mi aveva mai concesso la felicità. Pur avendo sempre cercato il piacere non sono mai stato felice, schiavo come mi sono reso del desiderio per le forme e apparenze che la luce mi mostrava. Volevo sfuggire al mio atroce destino e quindi avanzavo sospinto dal terrore, sfidando la forza respingente dello specchio. Cadevo, mi rialzavo, ricadevo, strisciavo carponi aggrappandomi a ciò che trovavo, e appena mi fui avvicinato abbastanza da vedere il mio volto roso dalla paura riflettersi in quella beffarda porta acquosa, mi risucchiò una bocca invisibile.
Mi catapultò in una selva di pruni e di sterpi, talmente fitti e spinosi che, per un periodo che mi sembrò infinito, dovetti aprirmi varchi con la scure, che a stento riusciva a spezzare quei rami contorti. Sembravano animarsi, bisbigliavano tra loro parole incomprensibili, offesi nella loro vanità da un piccolo fastidioso intruso. I pruni mi aggiravano come titani e io, in preda al panico, falciavo rabbioso tutto ciò mi capitava davanti. Il cielo fosco, impenetrabile, era attraversato da una scarica di fulmini continua e, nonostante la terra tremasse ai tuoni terribili che seguivano i lampi, quest’orchestra infernale costituiva la mia unica fonte di luce. Un temporale riversava sulla terra un fiume gocce grandi come perle e dure come proiettili d’acciaio. Ero stordito, prostrato, perduto. Ma proprio quando stavo per consegnarmi alla mercé di quei giganti scheletrici, scorsi una luce che sembrava provenire dalla finestra di una locanda. Raccolsi le mie ultime forze e barcollai febbricitante in quella direzione.
Entrai per sfuggire alla tempesta e mi ritrovai in un pertugio oscuro. L’aria greve e stantia, l’aspetto degli avventori e le loro rimbombanti risate animalesche, esalavano caos. Mi abbandonai stravolto su una sedia di foglie di giunco e, anchilosato da un torpore plumbeo, osservai l’impudico danzare del fumo che lievitava dalle grandi bocche dei convitati. Un lucore giallastro filtrava attraverso la coltre che andava formandosi, trasudando un vapore amaro che toglieva il respiro. Le bocche lorde di sangue seguitavano a fagocitare le portate e ad aspirare voracemente il tabacco da pipe di alabastro. Queste creature immonde non avevano occhi: un corpo tozzo e flaccido terminava in una grande cavità coronata da una criniera ispida, dalla quale un alito umido e nauseabondo fuoriusciva continuamente. Annaspavano, si contorcevano rabbiose, esibendo le loro perfide lingue. Le labbra carnose secernevano una viscosa bava bluastra che gocciava a terra orribilmente. Fasci di serpi grigiastre proliferavano i loro dorsi, dimenandosi e morsicandosi tra loro. Un prosperoso seno di donna nasceva dai loro ventri. Lunghi tentacoli roteanti si avvolgevano viscidi sui colli della selvaggina data loro in pasto, che si agitava convulsamente. Strida raccapriccianti si levavano dalle cavità di quelle bestie immonde, all’ondeggiare ipnotico delle loro code.
Il canto giocoso di un elfo saltimbanco attirò la mia attenzione. Notavo in lui qualcosa di sinistro: del malvagio si celava sotto un sorriso all’apparenza benevolo e civettuolo. Gli occhi scintillavano di luci diverse. Uno rifulgeva di fiamme scarlatte, velato di sangue, assetato. L’altro, opaco, racchiudeva una purezza corrotta, cristallizzata in una stasi temporale circonfusa da un’aura azzurrina. Un naso crudele e adunco tagliava come una scimitarra il viso affilato, che sembrava così fluttuare in due dimensioni distinte. Mi si avvicinò e mi porse un fiore dai lunghi petali blu e dal gambo setoso e fragrante. Leggevo nel suo mento dei tratti femminei e le movenze ricordavano quelle di un felino: mentre mi guardava la sua testa dondolava impercettibilmente, a rapidi scatti. Le mani nodose terminavano in uncini d’argento ricurvi. Un cappello rosso con pendenti d’oro spuntava tra orecchie oblunghe ornate di catene di rame e di orecchini d’ebano. Ballava inebriato dal fumo, cantava con l’impeto di una gioia energica, di un’euforia quasi inquietante. Il suo essere trasmetteva esuberanza, un impulso goliardico che tradiva il suo aspetto maligno. Le labbra disegnavano una bocca sottile e allungata dalla sensualità macabra. Una musica strisciante si insinuava tra il fogliame del soffitto e ricadeva come una rarefatta pioggia sulfurea. Fanciulle danzavano frenetiche a piedi nudi sugli appiccicosi tavoli di legno, ostentando curve procaci malcelate da stracci purpurei strappati. I loro occhi bianchi bruciavano di un fuoco blasfemo inestinguibile; i lunghi capelli neri scarmigliati, emanavano una seducente lascivia; i candidi denti aguzzi, dietro le labbra piene della loro bocca stillante sangue cozzavano gli uni contro gli altri come quelli di un animale feroce. Gli altri avventori erano per lo più orchi guerrieri che, dopo aver assaporato il sangue del nemico sul campo di battaglia, venivano a celebrarne la sconfitta. Sotto un carapace più duro della roccia, sgorgava sangue fresco e pulsante, che fluiva ritmato dal fragore delle armi. Poggiavano le schiene nervose al muro di pietra, gli occhi chiusi, quasi per assorbirne la forza. Le grosse vertebre, distendendosi, si rigeneravano a quel contatto. I volti gravi e mostruosi potevano uccidere un uomo con il solo sguardo. Le zanne bianche e lucenti scintillavano minacciose al lucore pallido diffuso nel locale. Le loro armature di denti di lupo e di orso erano state accuratamente riposte in un angolo e un servo le nettava dai brandelli di carne con devozione. I corpi verdastri, animati da un vigore belluino, conferivano la stabilità di tronchi secolari. Le braccia esili di donne elfiche dagli occhi liquidi detergevano timorose i possenti toraci degli orchi, scossi ogni tanto da un battito interno.
E mentre studiavo inebetito queste forme grottesche, uno gnomo dallo sguardo torvo mi venne vicino. Gli occhi ridotti a fessure, le labbra serrate e arcigne nascoste da una folta barba fulva, mi sconvolsero i sensi. Non aveva ancora parlato, ma quel viso cupo minava le forze, mi schiacciava sotto un peso invisibile. Le parole non uscirono dalla bocca, ma dal naso! Un grosso naso bitorzoluto che sembrava volesse saltarmi addosso e mordermi, da come si dimenava furiosamente. Non sapevo esattamente cosa volesse da me, ma ogni movimento della sua singolare proboscide mi faceva sobbalzare, come fossi percorso da una scossa elettrica. Le membra si contorcevano involontariamente. Non potevo reagire: gli arti si ribellavano al mio volere e rallentavano, legati ai fili di un beffardo burattinaio inesistente, e la vista si appannava. Non riuscivo a sopportare questa umiliazione. Provavo ad alzarmi, ma le mie braccia, inserendosi nello spazio, trovavano una nebbia fibrosa che le intrappolava come una ragnatela; le gambe, pesanti come blocchi di granito, mi attiravano in basso. Caddi a terra impotente; le figure volteggiavano, non ne distinguevo più i contorni e su di me gravava un vorticante cielo di spettri policromi… Finché non mi rapì un sonno confuso.
Un letto bianco, una stanza quadrata dalle pareti rosse. Odorose lenzuola di lino scivolavano sul mio corpo nudo, che fremeva al loro serico contatto. Una donna. Nuda. Di una nudità adamantina che brillava di un’atavica luce dorata dalla purezza serafica, che si inseriva nello spazio come un raggio di sole. Irradiava la sua luce come un fiore distende i suoi petali all’alba di ogni giorno. Ma da questa purezza così luminosa, emergeva la maschera di una peccatrice. Rosa dall’erotica essenza, predatrice di uomini, ghermiti tra le sue spine. La donna! Si, la donna: nei suoi occhi si legge qualcosa di divino, sulle sue impudiche labbra qualcosa di diabolico. Dai suoi occhi neri profondi come un abisso traspariva un dolore radicato, inestirpabile. Leggevo il suo passato, tremavo, e lacrime spontanee mi rigavano il volto. Un legame empatico si era stabilito e io soffrivo per le cose che lei aveva sofferto. Era stata regina, moglie devota di un nobile re, che, per difendere il Cristo, aveva combattuto una lunga guerra contro barbari vagabondi, innocui, ma pagani. Quel popolo, logorato da anni di cruente battaglie, riuscì finalmente a catturare il nemico. La gente gioiva, banchetti, orge, tutto era concesso adesso: erano liberi. Per esorcizzare l’infausto periodo che aveva bagnato di sangue la terra e strappato i figli dai petti straziati delle madri, il re fu umiliato pubblicamente, torturato, impalato, decapitato e arso. La testa, alla quale erano stati mozzati naso e orecchie, fu consegnata al castello della regina, trapassata dalla spada mietitrice, che tante vite innocenti aveva reciso per la redenzione dei peccati al cospetto del Signore. La donna osservò per qualche minuto l’abominevole feticcio, singhiozzando disperatamente, pervasa da brividi percuotenti, come colpi di frusta. Lei aveva riversato tutto il suo amore nella bocca di Dio. Amava suo marito, lo amava focosamente, avrebbe dato tutto per lui, perfino la vita… Era già morta, il volto cadaverico pietrificato in uno spasimo raccapricciante: il dolore aveva divorato la carne, ogni energia l’aveva abbandonata. Agì meccanicamente, per istinto primitivo. Sfilò il ferro dalla testa di colui che aveva adorato, che aveva baciato, accarezzato, che aveva aspettato per sette lunghi anni nella speranza che l’araldo un giorno l’annunciasse col suo corno. Non percepiva più niente, sentiva sfasciarsi le vene, sentiva che non avrebbe mai potuto sorridere un’altra volta. Vedeva tutto attraverso un vetro frantumato. La bellezza del sole e della luna, il corso delle stagioni, la musica dell’alba o il silenzio delle notti perdevano tutto il loro significato e la capacità di comunicare gioia. Senza di lui, il mondo, era una landa desolata, un deserto dimenticato. Guardò la spada, portatrice di discordia, la sua fredda lama aveva ucciso figli di Dio, la morbosa predica di un ciarlatano non aveva donato agli uomini amore e pace, ma guerra e distruzione. Si sentì sommergere da un orrore putrescente, vide i cadaveri ammassati, uomini, donne, bambini, giovani e vecchi, mangiavano la terra dalla quale erano nati, una terra intrisa di sangue, una terra infettata, teatro della furia congenita, animale dell’uomo. Questa immagine le svelò l’ombra eclissata dalla luce, la verità nascosta dalla fede, una fede che non brillava più della stessa luce illusoria, una luce più buia delle tenebre. Appoggiò la spada alla finestra, si strappò la sontuosa veste, scoprendo il bianco seno vergineo e si gettò in preda al delirio sulla lama, nella quale vide il fugace riflesso di suo marito, che piangeva. Precipitò così trafitta, dissipandosi nella nebbia che precedeva il fossato. Alcuni boscaioli che assistettero all’atroce spettacolo, giurarono di aver visto un’arpia dalle ali di ferro, che versando lacrime nere si mordeva il candido seno, dissolversi nella foschia. La sua anima suicida, macchiatasi le mani del suo stesso sangue, non venne accolta dai cieli e cadde negli inferi, condannata all’eterno castigo. Ed era qui, in questa stanza che mi trovavo di fronte ad un angelo caduto, ardente di vendetta, assetato di sangue. Il suo corpo flessuoso sembrava tagliato morbidamente nel marmo, ma la schiena, che una volta recava le sacre ali dei cherubini, era ora percorsa da una cicatrice cremisi, il seno serbava ancora l’impronta dei denti.
La parete sulla quale poggiava le spalle sussultanti, l’avvolgeva come un sudario di sangue. Avanzò nella mia direzione lentamente; un appetito ferino le animava lo sguardo. Era un’apparizione indistinta, caliginosa, fluttuava per la stanza con movimenti sinuosi, sembrava danzasse incarnando lo spirito di un serpente; la sua immagine diveniva sempre più nitida e pareva acquistare sostanza; con un balzo improvviso s’infilò nel giaciglio. Potevo aspirare la calda sensualità della sua pelle, le labbra turgide e vogliose cercavano e trovavano; mi avvinse in un feroce bacio. Sentivo il sangue palpitarle nelle vene, il suo essere era sospinto da una voracità inumana. Io, teso come una corda d’arpa a poco a poco mi scioglievo al suo calore, abbandonavo i confini del corpo, travolto da una corrente impetuosa, una lussuria sublime, adescato dall’effluvio lascivo della sua carne. Le sue labbra assetate di desiderio si attaccavano alle mie, vi affondava i denti, accecata da una fame insanabile, ne suggeva avidamente la calda linfa. Lei si nutriva della mia vita, io mi nutrivo della sua bellezza e traevo dal dolore un sadico piacere. Le mie mani strinsero le sue, attratte da una forza magnetica irresistibile. Le nostre linee, da parallele, si intrecciavano in un nodo inestricabile, per poi ricongiungersi a formare un’unica retta. Non percepivo più la materia, ero stretto in un orgasmo che respingeva come uno scudo di specchi i miei tentativi di pensiero. La passione corrompeva l’anima, che bruciava nel suo fuoco in un urlo silente, confondendosi nell’amorfo fluire di Eros. Le nostre auree si affrontavano in un duello mistico, lanciavano fiamme iridescenti che disegnavano cerchi di ombre. Respiravo il profumo narcotico della sua pelle rovente, assorbivo la sua essenza. Ci stringevamo in un amplesso plastico, i nostri spiriti erano ora vincolati in un unico essere. La ferita sul seno pulsava e il suo pulsare suonava come un richiamo fatale. Mi afferrò la nuca, costringendomi a premere il viso contro il suo petto, il sangue aveva cominciato a sgorgare e non mi restava che bere per non soffocare. Era una morsa di ferro, nelle sue braccia vivificava una forza prodigiosa. E io bevevo, bevevo cupidamente. Tremavo di voluttuoso piacere, tremavo perché soggiogato dalla sua essenza, che io stesso bramavo.
Non una parola era stata pronunciata.
Mi aveva insegnato il significato del dolore e la sua bellezza.
Tremavo, lacrime e sangue mi bagnavano il volto, un volto che adesso avrebbe sempre ospitato una scintilla della sua luce e il germe del suo dolore.

IV

Il sogno svanì scivolando come un vento balsamico via dal mio petto nudo, che ancora palpitava. Sentivo il sapore caldo del sangue sulle labbra, sangue che mi risalì gorgogliante al collo rianimandomi. Un’energia nuova vivificava i sensi: l’apparizione onirica errava ancora nella mia anima e la sua sensualità pulsava sotto la pelle con un prurito costante. Vedevo le cose attraverso un reticolato flessibile. Ero attratto dal colore. Ero cavalcato da un appetito vampirico. Mi resi conto solo dopo un po’ che non mi trovavo più alla locanda, bensì nel cuore della foresta dalla quale ero fuggito. Il sole non rideva in cielo, ma io vedevo come fosse giorno. Le cose brillavano di una luce nuova nella quale canalizzavo il loro pigmento, una luce plasmatica e viscosa, un fuoco rosso incandescente. Mi sentivo potente; la mia mole era aumentata. Mi accorsi con stupore misto ad orrore e a compiacimento che il mio corpo era cambiato. Non era più gracile e allampanato, ma tuttavia non aveva più l’armonia di un corpo umano. Natura si era impossessata di me. Le unghie delle mani e dei piedi erano cresciute a dismisura ed erano adesso sostituite da mostruosi artigli. La mia pelle delicatamente ambrata era ora ricoperta da un folto pelame nero; ampie ali flessuose nascevano dalle mie scapole. Sentivo germogliare un nuovo potere nelle mie braccia e un furore perverso annidava la mia carne come un perpetuo terremoto di vibrazioni impercettibili. Ma subito fui dominato dalla volontà di un’entità segreta.
Avevo fame e sapevo già dove dovevo andare.
La vasta prateria era circondata da colline arse dal sole e un fiume l’attraversava col suo placido fluire, increspato appena dai riflessi dorati del tramonto. Una mandria di arieti brucava l’erba tenera, che ondeggiava lievemente al vento come accarezzata da una mano di fanciulla. Il cielo si velava di nubi rosate, spirali violacee, glauche e paglierine. Una volta precipitato lì, la mia essenza si diffuse come un morbo, un fumo nero avvinse i colori e una cappa di tenebre gravitò asfissiante sui velli tremanti delle bestie. Avevo perso il controllo delle mie azioni; non pensavo, agivo d’istinto, sottomesso alla sete di sangue insaziabile del fantasma della donna che avevo sognato. Il desiderio mi aveva sopraffatto e ora vedevo solo un grande braciere tumultuoso nella prateria, che ardeva di un fascino carnale. Il terrore serpeggiava fra gli arieti che, dopo aver riconosciuto nella mia improvvisa apparizione la maschera della morte, si lanciavano in una fuga disperata e selvaggia, ferendosi l’un l’altro con le lunghe corna.
Le tempie mi pulsavano, scoppiavano. In un delirio di immagini confuse vedevo solo il fuoco sprigionato dal calore della carne e percepivo il suo colore. Gli artigli fremevano, e fendevano l’aria come per ghermire una preda. La fisicità esplose con un rigurgito viscerale. Vomitai fiumi di veleno giallastro che, inondando la valle, paralizzava le bestie. Seguì un urlo disgustoso che sembrava non avere fine. Un orecchio umano non sarebbe stato in grado di udirlo.
Tutto ciò non era soltanto la trasfigurazione della lotta interna tra la mia parte umana, che ancora abitava il profondo, e quella demoniaca che stava avendo il sopravvento. Tutto ciò significava la mia definitiva, totale liberazione del male: proprio perché, essendomi totalmente abbandonato ad esso, al suo potere, adesso avrei potuto misurarlo e manipolarlo ad ogni mio capriccio. La luce non aveva mai illuminato le cose che ora eruttavano dalla mia bocca, che solo nell’ombra si manifestavano, così mi aveva impedito di liberarmene, o quantomeno di conoscerle pienamente. Il vizio supremo è la superficialità, tutto ciò che è compreso fino in fondo è giusto. Adesso non avrei più avuto paura, avrei riso in faccia a Dio. Nessuno si sarebbe potuto opporre alla mia volontà. Io avevo abbracciato l’infinito come tutti gli altri, ma non per un istante… Ero riuscito ad eternare il momento ed ero affogato nell’eterno; così l’avevo assorbito, ormai era parte di me. Ma d’ora in poi non sarei stato più il dominato, bensì il dominatore.
Mi dimenavo spasmodicamente cercando invano di divincolarmi dalla tentazione animale che mi opprimeva. Cedetti. Mi avventai su quei prelibati ventri dai morbidi velli, e solo dopo averli smembrati tutti e averne divorato le interiora grondanti sangue caldo la mia furia omicida si placò. Solo attraverso il peccato si raggiunge la purezza.
Ed io ero finalmente puro
Volteggiavo nella notte eccitato da una febbre oscura, ombra ballerina rischiarata da una grande luna bianca, occhio spettatore della mia onnipotenza. Danzavo con la notte, padrone del cielo e degli esseri viventi. Ridevo fino a spaccarmi i polmoni; era un riso diabolico e divino; le risate erano così violente che echeggiavano simili a tuoni. Terminato il rito planai nella tetra pianura dove avevo disseminato i cadaveri della mia ecatombe e mi accasciai assopito, aspirando voluttuosamente la putrefazione che penetrava nei corpi, com’era dolce e innocuo il suo sapore!
E così mi addormentai, sfiorato dalle foglie che cadevano come pianto dagli alberi, cullato dalla morte.

Epilogo

Un ghigno malefico si allargava sul mio volto al risveglio. Mai un sonno era stato più rigenerante. Le visioni di un tempo non mi avevano visitato; nessun insegna balbettante mi aveva schiacciato col suo peso; non avanzavo carponi nel vuoto; non dovevo inseguire più nessun barlume nelle tenebre; io stesso sprigionavo luce; io stesso inglobavo il piacere e non c’era motivo per rincorrerlo. Gli alberi e i fiori mi si aprivano in tutta la loro bellezza.
Traboccavo infinito: gli animali, le piante, le cose e chiunque mi vedesse mi riconosceva come suo sovrano assoluto. Si prostravano ai miei piedi, mi baciavano con gli occhi, mi amavano con tutto il loro spirito, la gioia si dipingeva nei loro sguardi. Non si avvicinavano troppo, consci che sarebbero rimasti folgorati, ma respiravano, si nutrivano della mia luce e per questo mi adoravano. Erano come caduti sotto un incantesimo: non potevano smettere di guardarmi. La mia luce era mistica, antichissima e verginale, per cui li assaliva un dolce brivido, come sempre accade quando ci si scopre in prossimità di elementi eterni.
Il mio corpo era mutato ulteriormente. Della forma precedente conservava gli occhi di fuoco carminio e una lunga coda che terminava simile alla punta di una freccia. Per il resto aveva la forma umana di prima. Le forme sono caduche, il tempo le condiziona, le consuma, le polverizza. Io, essendo eterno potevo controllare il tempo e quindi alterare le forme a mio piacimento. Potevo crescere fino a toccare i tre piccoli soli. Potevo diventare una nebbia sottile e infilarmi tra le vesti delle fanciulle, che si gettavano a terra in preda a un solletico folle. Potevo proiettarmi sul cielo come un dipinto su tela e osservare il frenetico danzare degli uomini sotto di me.
Ero tornato nel luogo dal quale mi avevano scacciato. Ma non volevo vendetta: erano uomini e la perfezione degli uomini è data proprio dalle loro differenze e imperfezioni. Per questo li perdonavo e nel mio perdono gustavo un appagamento, una sensazione di calma e di armonia che non avrei mai provato sterminandoli. Sarei stato capace di farlo, s’intende, alzando semplicemente un dito: al mio più piccolo comando essi si sarebbero trucidati a vicenda.
Ero il padrone, governavo la cosa più importante che si possa governare: il cuore degli uomini.
Quando giunsi al palazzo di Ankalima, le donne si abbandonavano ad orge, ridevano, piangevano, urlavano: era la prima volta che toccavano veramente il divino e non riuscivano a porre un freno razionale al godimento che io effondevo.
Ankalima sapeva già cosa doveva fare; il suo spirito era elevato a tal punto da comprendere le mie intenzioni, anche se non avevo pronunciato parola. Scese le scale imperturbabile, orgogliosa, consapevole della propria sconfitta. Era bellissima. I suoi passi erano talmente leggeri che sembrava fluttuare come un angelo. Mi sorrise. Com’era puro il suo sorriso! Piangeva, perché in fondo era umana, ma con una dignità, con una gravità materna primordiale. Io l’aspettavo. Studiavo ogni sua mossa, affascinato dalla sua persona, dalla sua purezza, dalla sua trasparenza sconfinata. Quando fu abbastanza vicina la cinsi piano tra le mie braccia e la baciai dolcemente. A poco a poco essa scompariva e sentivo il suo nobile spirito penetrare nel mio cuore e le nostre anime confluire in un tenero legame. Finché essa non sparì del tutto la folla ci osservò pietrificata, come davanti a un prodigio che avrebbe deciso la loro esistenza. Ankalima adesso non apparteneva più al mondo delle forme, era parte di me, sarebbe stata per sempre mia. La folla non pensava e quindi non fu sconvolta da un simile evento; si limitò a guardami con più intensità, dato che il mio essere, ora, era ancora più luminoso.
Ero il nuovo re del regno della luce, i miei sudditi non mi temevano, se pur coscienti della mia potenza, perché trasmettevo loro amore e loro impararono a cercare l’amore in tutte le cose e non la perfezione.
Estate '04
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