Stellar Blade Un'esclusiva PS5 che sta facendo discutere per l'eccessiva bellezza della protagonista. Vieni a parlarne su Award & Oscar!
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Luce e ombra (per chi vuole perderci un po' di tempo)

Ultimo Aggiornamento: 24/11/2004 21:22
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24/11/2004 21:21
 
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I
L’alba annunciava il risveglio e la fertile terra di Ankalima obbediva al richiamo schiudendo i suoi fiori. Ankalima governava il regno della luce; donna bellissima dalla fronte raggiante dello splendore che emana uno spirito luminoso. Il suo sorriso sottometteva popoli; la sua voce calma ammaliava gli uomini e sedava le bestie feroci. Viveva in un grande palazzo attorniato dai boschi. Tesori di splendide gemme si perdevano in un dedalo di corridoi rivestiti di morbidi tappeti. Nessuno era riuscito a stimare il valore complessivo di tutti i tesori o a valutare l’effettiva grandezza dell’edificio: chiunque avesse tentato una simile impresa aveva smarrito la strada ed errava ancora per i meandri angusti del palazzo alla ricerca di un’uscita o aveva esaurito il fuoco della sua esistenza a contarne le ricchezze. Il palazzo, infatti, traboccava di dovizie e come un Creso obeso barcollante, rischiava di collassare sotto la propria ingordigia. Sotto la protezione di Ankalima brulicavano tribù di stirpe diversa che, gremendo la reggia in tutta la sua ampiezza comunicavano tra loro per mezzo dei venti e avevano il compito di custodire una parte dell’abbondanza in essa contenuta. Soffiavano venti di terre lontane portando i profumi e le voci delle loro genti, suonavano melodie esoteriche che sovrapponendosi inebriavano l’aria di un sensuale accordo. La terra di Ankalima era abitata da creature fantastiche: pegasi di bronzo dalle criniere di fuoco danzavano nei cieli, testuggini giganti dalle corna d’oro e dai carapaci d’avorio si pascevano accidiose dell’erba fresca e fragrante, pesci piumati dalle lunghe code smeraldine dominavano le acque. Fiumi di latte solcavano la terra tenera e rigogliosa e da vacche rubiconde si mungeva un vino afrodisiaco. Accarezzando i tronchi di altissimi alberi se ne stillava un dolce miele aromatico. Tre piccoli soli galleggiavano in cielo e irradiavano luci cangianti e intermittenti sul prosperoso regno di Ankalima e la luce penetrava la terra che germogliava piante dallo stelo elegante e rigonfio di linfa. Talvolta le fanciulle, per gioco, dopo aver ammansito grifoni selvatici si libravano in volo e andavano a toccare la loro calda superficie palpitante. Gli uomini venivano nutriti per il loro seme; le donne se ne servivano per la procreazione della specie, una volta fecondate li divoravano ancora vivi. Gli uomini vivevano per la forza del loro fisico: i più vigorosi diventavano guardie della regina e si contendevano l’amore delle donne più belle in duelli all’ultimo sangue, sapendo di andare comunque incontro ad una morte certa. I più deboli venivano abbandonati a loro stessi; venivano dimenticati e con il ricordo della loro immagine si dissipava anche la loro anima. Le donne facevano dell’Amore un’arte; per questo non amavano e non soffrivano la perdita dei figli o dei concubini. Tessevano il loro estro sviluppando l’interiorità attraverso l’arte; un’interiorità che per una commistione di umori si manifestava all’esterno in una bellezza trasparente e allo stesso tempo tangibile nell’anatomia delle forme. Passavano i giorni ad ascoltare il canto dei ruscelli; assorbivano per ore e ore i colori del cielo attraverso lo sguardo, cullate dalla voce del vento. Nessun dio era venerato e non si professava alcuna dottrina: ciascuno seguiva il proprio percorso di perfezionamento cercando. Solo nella ricerca assidua e indefessa di ogni perché si giungeva a una profonda conoscenza dell’io e poi all’abiurazione dello stesso, la cui definitiva estinzione avrebbe elevato lo spirito, che si sarebbe così dissolto nel flusso originario, il flusso di tutte le cose.
La vanità dell’uomo si è sempre servita dell’arte come strumento per tradurre in forme concrete la matassa indistinta delle pulsioni interiori, che altrimenti non sarebbero riuscite ad esternarsi in un sentimento tangibile. Ma l’arte, come la natura, non è stata creata per l’uomo: l’uomo è un animale e come tale è uno dei tanti fili che Natura tesse, come un grosso ragno invincibile, padrona di spezzarlo in qualsiasi momento.
L’arte è madre generatrice di cose belle, ma queste, in quanto forme sono soggette alla transitorietà del tempo, che avido divora tutto ciò che gli si para davanti, come una famelica bestia di ferro inarrestabile e cieca. L’inettitudine dell’uomo a comunicare sentimenti lo ha spinto a inventare la materialità dell’arte, entità eterea preesistente in natura.
Così le donne dipingevano, suonavano, cantavano, amavano, odiavano, desideravano, gioivano, soffrivano. Captavano qualcosa vorticare e agitarsi nei loro ventri, il formicolio incessante delle emozioni; volevano trasmettere ciò che sentivano, condividere con le altre l’estasi che stavano provando. Ma per far ciò dovevano usare le flessibili corde vocali, la cassa acustica di uno strumento, le braccia e le gambe sottili; insomma avevano bisogno di un veicolo, qualcosa che incanalasse le pulsioni all’esterno rendendole umanamente comprensibili.
L’arte concepita dall’uomo è materia, la materia è preda del tempo; attingendola dal suo ineffabile flusso la degrada ad inutile forma. Rinuncia al potere originario dell’arte, un potere eterno e demoniaco. Temendo di rimanere accecato di fronte a una forza oscura per lui incomprensibile, la reclude nell’utilità materiale che può dare. L’uomo, materializzando l’arte, la riduce ad oggetto e un oggetto non potrà mai incarnare la sua intraducibile bellezza. Ma solo in questo modo può impossessarsi dell’assoluto; limitato nelle capacità sensoriali, l’uomo, cattura nella dimensione fisica una scintilla di divino e così comunica, se pur in forma distorta, la sua interiorità.
L’individuo esiste nel concreto: per sentirsi reale all’uomo servono certezze, basi solide su cui plasmare la quotidianità; ma solo evadendo dalla realtà si vive veramente. L’illusione apre i cancelli del flusso inviolabile che gli ha sempre scorso vicino; solo il piacere gliene fa saggiare il sapore. Solo deviando la retta via, rapito dal peccato, l’uomo nella frazione di un attimo abbandona i confini della materia e respira la vita.
Il cammino dell’eccesso conduce al palazzo della saggezza.
La cupidigia delle adepte di Ankalima era per loro fonte di vita, una vita fatta di esperienze, di tentazioni ed eccessi. Questa era però paradossalmente inscindibile dalla meditazione; una meditazione che abbracciava la fisicità della natura per ricercare il paradigma di ogni singola anima, anelante la propria dispersione nel Tutto, bruma sibillina che circondava ogni cosa.
Le donne vestivano pepli fluenti di sete preziose e intrecciavano con grazia i lunghi capelli cascanti, sui quali indugiava la fragranza delle mani nivee. I loro passi si confondevano con il sussurrare dello zefiro tra le foglie degli alberi. Le loro bocche erano come fichi appena spezzati e celavano i giardini fioriti dell’Amore, cui solo pochi eletti potevano accedere. I loro occhi rilucevano di un fascino terribile; gli uomini si nascondevano spesso tra cespugli di rose per osservarle mentre si pettinavano o semplicemente per ascoltare la loro voce uscire carezzevole dalle tumide labbra rosse. E restavano lì per ore e ore, lacerati dalle spine, incantati dalla nefanda sensualità che velava quel suono ipnotico. Le donne assistevano alle loro ferine contese: accecati dal desiderio perverso della carne, arsi da una sete che nessun nettare poteva placare, si massacravano per possedere il corpo di una donna. Si gettavano in macabre lotte, con le unghie e con i denti, graffiavano e mordevano; sangue nero bagnava le loro candide membra, sordi al ruggito della carne dilaniata, asfissiati dalla polvere bollente, infuriavano con i loro assalti plastici. Una forza oscura fermentava nei loro petti e l’effluvio caldo del sangue risvegliava lo spirito. Le donne fremevano sugli spalti dell’arena, i seni fecondi sussultanti, la pelle animata da un sottile brivido perverso dal quale traevano una voluttuosa sensazione fugace. Solo quando uno dei miserabili si accasciava al suolo in preda a convulsioni, per poi estinguersi in un ultimo turpe spasimo, il vincitore era acclamato dall’esercito di minerve in un silenzio mistico. Quindi veniva trasportato in processione al palazzo dove subiva il rito di preparazione per la notte. Un bagno di vapori caldi gli avrebbe rigenerato i tessuti e un profumo di foglie bruciate lo avrebbe avvolto nella coperta del sonno che proietta in foreste di sogni beati. Lo attendeva una notte di delirio passionale, nella quale avrebbe posseduto e sarebbe stato posseduto. Avrebbe giocato il gioco dell’amore; avrebbe finalmente divorato il frutto tanto bramato, che lo avrebbe fatto ardere e che avrebbe placato il suo ardore. La breve incantevole beatitudine dell’amore si sarebbe inarcata sopra di lui, si sarebbe accesa come una vampa d’oro, sarebbe declinata e si sarebbe spenta. La sua fame cieca si sarebbe assopita come un leone sazio; ma proprio senza di essa sarebbe precipitato nelle tenebre, nell’abisso oscuro della morte e non avrebbe più rivisto la luce. Nell’arena rimaneva solo un lago di sangue scintillante nel quale si specchiava la maschera ghignante della morte.
Gli uomini sono liberi di divincolarsi da questa schiavitù, ma una volta usciti dal regno non possono più farvi ritorno e molti preferivano spirare nell’orgasmo che affrontare gli orrori del raccapricciante mondo dell’ombra.


II

Il corpo non è solo anatomia, ma è continuamente sollecitato e modificato dalla natura e dal nostro modo di essere e di interagire con essa. Ma non solo la natura, anche la società, il vivere in comunità, imponendo le formalità di un quotidiano rapporto con gli altri, stimola la nostra fisicità, portandoci a trasfigurare nel corpo le nostre subitanee vibrazioni interiori.
Ma questo è un mondo dove contano le forme, i muscoli e l’impeto dell’istinto; non ciò che riesco a tradurre del mio essere nei movimenti del corpo.
Io non ho il corpo virile di molti miei fratelli, non ho la stessa destrezza nel portare le armi, non ho lo stesso coraggio nel fronteggiare il nemico, il mio urlo di guerra non tuonerà mai dello stesso ardore. Non seguo un ideale e non morirei per una causa giusta. Sono un ignavo e un codardo, ma a differenza degli altri so aspettare e so cercare. Le donne adescano col potere del loro sguardo, lo sguardo di volti nei quali si legge un messaggio occulto, di solchi lievi e di linee sottili, che abbaglia con la sua luce. Non ho sviluppato l’esteriorità: la mia abilità di interagire nello spazio con energia somatica è ancora in stato embrionale; le maschere che indosso per camuffare la mia atrofizzata e rattrappita fisicità, non bastano ad appagare i seni fecondi di queste semidee. Ho coltivato segretamente la mia interiorità, che vibra di potenza e arde di fiamme.
Il mondo è come una grande mela: una volta tolta la buccia non puoi gustarla ad occhi chiusi; brami le parti più fragranti e succose, ma spesso gli avidi denti affondano nella putrefazione. È così necessario indossare maschere per non correre il rischio di rimanere pugnalati alle spalle da una mano traditrice. Il mondo pulsa di vita, ma la vita nella sua poliedricità assume forme diverse, che possono ingannare e ferire. È difficile trovare la purezza nelle persone, ma se si riesce solo a sfiorarla bisogna aggrapparsi ad essa, come il naufrago a un ramo solitario nella tempesta. Ciascun uomo cova malvagità dentro di sé e, appena ne ha la possibilità, la scarica sui più deboli, o su esseri in condizione di inferiorità. Ma il Tutto è ogni cosa e ogni cosa ha una sua totalità data dalla diversità, dalla mistione tra bene e male, enti indivisibili di un organismo senziente. Perciò nell’uomo giace una purezza sopita, soppressa dalla necessità di sopravvivere o di prevalere sugli altri nelle scissioni in branchi della società. Dobbiamo riesumare la purezza, senza tuttavia rinnegare del tutto la corruzione, che ci permette di cedere ai nostri istinti primordiali, brutali, ferini, istinti che ci caratterizzano in quanto uomini, in quanto animali. Istinto e ragione coagulandosi generano il piacere, infatti solo pensando riusciamo a realizzare le nostre emozioni e ad organizzarle in sentimento. È vero anche che pensando materializziamo il piacere e quindi non ci immergiamo completamente nella sua divinità, ma ne intrappoliamo solo un barbaglio in qualcosa di concreto della nostra dimensione. Questo d'altronde è l’unico modo in cui l’uomo può illudersi di godere delle proprie sensazioni. Si, si illude, ma nell’illusione raggiunge l’estasi che non riuscirebbe ad abbracciare con il solo istinto. L’uomo vive nelle sue illusioni e così può essere felice o perlomeno illudersi di esserlo. La felicità non esiste se non nell’illusione: solo il sogno può donarla.
L’obiettivo primario dell’uomo è essere felice. La felicità è un’illusione: del piacere se ne fruisce solo durante l’attesa. Quando esso si rivela e da immagine onirica che era diventa tangibile, si dissolve in un amplesso, si dissipa in un fumo impalpabile. Il desiderio è fonte di piacere, la realizzazione di esso delude le aspettative e annulla l’istinto. La felicità è un’illusione proprio perché illudendosi l’uomo pregusta un appagamento che non si concretizzerà mai e si abbandona felice nei cullanti meandri delle sue visioni. Beati dunque i poveri di spirito che, non rendendosi conto della propria ignoranza, ristagnano inconsapevolmente nell’acquitrino della mediocrità, felici di essere mediocri. La felicità una volta che la si stringe nelle mani, sfugge tra le dita, lasciando precipitare nel vuoto, nello smarrimento dei sensi. Io non credo di essere mai stato felice, o se lo sono stato non sono riuscito a invasarmi fino in fondo della frenesia che mi squassava il petto; tremavo, sentivo scorrere il suo magico flusso, ma non potevo toccarlo: un muro cristallino mi sbarrava la strada. Un sorriso riaffiora sulle labbra ogni tanto, spinto da un calore interno, da un dolce remoto richiamo. Se ho sfiorato il flusso non ne posso avere un ricordo e se anche avessi osato avvicinargli le labbra per assaporarne il vellutato profumo una forza magnetica mi avrebbe respinto e accecato come un abbaglio. Silente parassita la felicità. Si annida nelle fibre del nostro cervello e si nutre di speranze. Viviamo schiavi della felicità, ci tormenta con i suoi aculei, ci sprona a dipingere desideri per poi pascersene avidamente, ghermendoci nelle sue grinfie viscose. Un’esistenza priva di ambizioni non sarebbe vita, ma le ambizioni sono preda della felicità, quindi l’uomo è destinato a una vita da vegetale o da asservito, in entrambi i casi dovrà piegarsi ad una volontà suprema. Comunque questo perpetuo rincorrere la luce è vita e l’uomo vive proprio perché sottomesso alle sue emozioni. Per questo non potrà mai dominarle, ma sarà sempre soggetto ad esse, furie indomabili sospinte da una forza arcana. Colui che sarà riuscito a carpirne una non ne avrà il ricordo, ma solo un risuonare di echi lontane.
Forse il segreto della felicità eterna si cela nell’ombra.
Non sono un impavido guerriero né un rapace seduttore di donne. Inseguo una beffarda insegna vagante senza mai riuscire ad afferrarla. Non ho ancora capito se sono io che la inseguo o è lei che mi perseguita: come uno spauracchio s’impone alla mia volontà, io che non riesco a decifrarla. Graffia, ringhia, ulula; vuole qualcosa da me, ma il suo linguaggio è incomprensibile e la sua influenza maligna mi sugge la vita giorno dopo giorno. Oh se solo comprendessi il significato dei suoi fetidi gemiti! Allora saprei come combatterla. Perché mi percuote? Perché fa di me un martire, io che non sono mai stato fedele a nessun sovrano, io che non mi sono mai sacrificato per un intento nobile o meschino che fosse? Ogni giorno mi schiaccia col suo peso tombale; vivo nel silenzio di un sepolcro e soffoco la disperazione in un’implosione di lacrime. Mi sono chiesto più volte perché gli alberi, con la gravità di eterni guerrieri addormentati, mi guardano con tanta indifferenza; perché le edere odorose si ritraggono ostili al mio passaggio. L’incubo della solitudine mi affligge impietoso. Solo! Si, sono solo e nella solitudine ricerco invano il sentimento che mi deprime, ma esso non ha colore, non ha odore e non produce alcun suono; come uno spettro mi aggiro per i meandri del mio oblio, abitato da ombre indistinte e da tremule fiamme, in cerca di una spiegazione plausibile. Ma i pensieri sono sassi lanciati dal nulla: i più lenti sono prede facili e dicono poco, i più veloci passano come lame sottili, sfuggono, rilasciando una fallace scia luminosa. Provo a berne il riverbero, ma essa si disperde nel buio con la stessa rapidità con cui era apparsa. Ne rimane un tepore diffuso, ma tanto cerco di condensarlo in una sensazione corporea più un vortice interno cresce irrefrenabile e spinge! Spinge! Vuole uscire; e batte, batte come un cavallo scalpita furente all’incessante ritmo di un tamburo di guerra. Ma non esce! Soffro sotto la tremenda, veemente pressione degli zoccoli chiodati sul costato; cedo, mi deconcentro e naufrago in quel tepore dolciastro che nella sua indolenza mi aggredisce con un assalto costante. E io piango nel silenzio, piango me stesso e la mia impotenza di fronte a qualcosa che temo e che non conosco.
Ho imparato a meditare; la meditazione mi ha insegnato a pensare; il pensare mi ha portato alla fame. Ho fame. Ho fame di morbidi seni e di labbra vibranti in cerca d’amore. Il desiderio fermenta lacerante, diffondendo un sentore agrodolce impercettibile. E così divampa la vita e io rincorro quel barlume inafferrabile, pervaso da una forza prodigiosa, assetato di piacere. Ma la fretta, la fretta di stringere tra le mani quel lucore latteo così libidinoso mi opprime inesorabile costringendomi a proiettare su una donna qualsiasi l’immagine sublime che covo avidamente. Quando la fame si placa, il fuoco divampato si estingue, la passione si dilegua nei venti. La proiezione muta in un riflesso indistinto per poi dissolversi in un caldo vapore pungente. E poi il vuoto. Un velo d’ombra offusca la vista, una sibilante foschia violacea toglie il respiro. Soffoco. I sensi mi abbandonano; non provo più niente. Solo le tenebre mi circondano e il mio bacio non trova altro che la fredda superficie di uno specchio. Si, sto baciando me stesso; con gli occhi sgranati dall’orrore leggo i miei occhi in quelli della mia amante. Pietrificato dalla tragica scoperta, un cupo silenzio mi avvinghia la gola e lei fugge come un animale spaventato.
Il vuoto. Erro nel vuoto. Penetra nell’anima come un presagio di morte echeggiante. Il corpo si smonta, si sgretolano le ossa, un fuoco spontaneo irrompe e corrode i tessuti; una morsa gelida confonde i sensi, un tremito oscuro percorre le membra. Annichilito da un richiamo lontano: un urlo affilato, perforante, che sembra vicino, lacera le corde dell’anima, trapassa il cranio come un artiglio rapace. Vacillo nel buio oppresso da un abominevole mantello nero, che obera le mie spalle come una schiavitù flagellante. Gli occhi non brillano più della stessa luce, non trasmettono più l’amore di un tempo: un bacio diabolico ne ha rapito la vita. Il vuoto, cupido suggitore di vita, vita di anime lacerate dal dolore, anime la cui superbia ha costretto alla dannazione eterna. La materia si dissipa, i legami si spezzano, lo spirito si eleva e brancola nel terrore; nel terrore di non sapere a cosa sta andando incontro. Percepisce il flusso divino e ne ha paura; avverte la propria impotenza, non può domarlo, rimarrebbe schiacciato, perciò fugge senza direzione. Inseguito da un vento mefitico, invisibile, ma che si avverte come una scossa centrifuga che, con il fremito di una spontanea proliferazione di spine, annienta le forze e obnubila la mente.
È giunta l’ora di trovare rifugio nell’ombra.
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III

Raggiunsi il confine con passo risoluto, deciso a deviare il monotono corso della mia esistenza, ad abbandonare l’ambiguità della luce, anche se fossi andato incontro a dolorose verità. Un enorme specchio trasparente si stagliava di fronte a me, percorso da una miriade di cerchi concentrici, simili a quelli che si formano nell’acqua quando la quiete viene turbata da un suono… Mi avvicinai tremebondo, perché le gambe si piegavano alle irresistibili vibrazioni di quel luogo sottile. Vidi tutta la mia vita in un istante e fui sopraffatto dall’orrore. Mi vidi vecchio, aggricciato su un marcescente bastone nodoso, umiliato dalle donne, consumato da un esistenza vissuta all’ombra di esse. Quelle floride creature le avevo desiderate per tutta la vita invano. Le guardavo da lontano simili a gemme incastonate, nella loro prigione di vetro. Il sole aveva sempre baciato le mie guance, ma il suo era un bacio di Giuda: sebbene avesse rischiarato la mia via e riscaldato le mie membra, non mi aveva mai concesso la felicità. Pur avendo sempre cercato il piacere non sono mai stato felice, schiavo come mi sono reso del desiderio per le forme e apparenze che la luce mi mostrava. Volevo sfuggire al mio atroce destino e quindi avanzavo sospinto dal terrore, sfidando la forza respingente dello specchio. Cadevo, mi rialzavo, ricadevo, strisciavo carponi aggrappandomi a ciò che trovavo, e appena mi fui avvicinato abbastanza da vedere il mio volto roso dalla paura riflettersi in quella beffarda porta acquosa, mi risucchiò una bocca invisibile.
Mi catapultò in una selva di pruni e di sterpi, talmente fitti e spinosi che, per un periodo che mi sembrò infinito, dovetti aprirmi varchi con la scure, che a stento riusciva a spezzare quei rami contorti. Sembravano animarsi, bisbigliavano tra loro parole incomprensibili, offesi nella loro vanità da un piccolo fastidioso intruso. I pruni mi aggiravano come titani e io, in preda al panico, falciavo rabbioso tutto ciò mi capitava davanti. Il cielo fosco, impenetrabile, era attraversato da una scarica di fulmini continua e, nonostante la terra tremasse ai tuoni terribili che seguivano i lampi, quest’orchestra infernale costituiva la mia unica fonte di luce. Un temporale riversava sulla terra un fiume gocce grandi come perle e dure come proiettili d’acciaio. Ero stordito, prostrato, perduto. Ma proprio quando stavo per consegnarmi alla mercé di quei giganti scheletrici, scorsi una luce che sembrava provenire dalla finestra di una locanda. Raccolsi le mie ultime forze e barcollai febbricitante in quella direzione.
Entrai per sfuggire alla tempesta e mi ritrovai in un pertugio oscuro. L’aria greve e stantia, l’aspetto degli avventori e le loro rimbombanti risate animalesche, esalavano caos. Mi abbandonai stravolto su una sedia di foglie di giunco e, anchilosato da un torpore plumbeo, osservai l’impudico danzare del fumo che lievitava dalle grandi bocche dei convitati. Un lucore giallastro filtrava attraverso la coltre che andava formandosi, trasudando un vapore amaro che toglieva il respiro. Le bocche lorde di sangue seguitavano a fagocitare le portate e ad aspirare voracemente il tabacco da pipe di alabastro. Queste creature immonde non avevano occhi: un corpo tozzo e flaccido terminava in una grande cavità coronata da una criniera ispida, dalla quale un alito umido e nauseabondo fuoriusciva continuamente. Annaspavano, si contorcevano rabbiose, esibendo le loro perfide lingue. Le labbra carnose secernevano una viscosa bava bluastra che gocciava a terra orribilmente. Fasci di serpi grigiastre proliferavano i loro dorsi, dimenandosi e morsicandosi tra loro. Un prosperoso seno di donna nasceva dai loro ventri. Lunghi tentacoli roteanti si avvolgevano viscidi sui colli della selvaggina data loro in pasto, che si agitava convulsamente. Strida raccapriccianti si levavano dalle cavità di quelle bestie immonde, all’ondeggiare ipnotico delle loro code.
Il canto giocoso di un elfo saltimbanco attirò la mia attenzione. Notavo in lui qualcosa di sinistro: del malvagio si celava sotto un sorriso all’apparenza benevolo e civettuolo. Gli occhi scintillavano di luci diverse. Uno rifulgeva di fiamme scarlatte, velato di sangue, assetato. L’altro, opaco, racchiudeva una purezza corrotta, cristallizzata in una stasi temporale circonfusa da un’aura azzurrina. Un naso crudele e adunco tagliava come una scimitarra il viso affilato, che sembrava così fluttuare in due dimensioni distinte. Mi si avvicinò e mi porse un fiore dai lunghi petali blu e dal gambo setoso e fragrante. Leggevo nel suo mento dei tratti femminei e le movenze ricordavano quelle di un felino: mentre mi guardava la sua testa dondolava impercettibilmente, a rapidi scatti. Le mani nodose terminavano in uncini d’argento ricurvi. Un cappello rosso con pendenti d’oro spuntava tra orecchie oblunghe ornate di catene di rame e di orecchini d’ebano. Ballava inebriato dal fumo, cantava con l’impeto di una gioia energica, di un’euforia quasi inquietante. Il suo essere trasmetteva esuberanza, un impulso goliardico che tradiva il suo aspetto maligno. Le labbra disegnavano una bocca sottile e allungata dalla sensualità macabra. Una musica strisciante si insinuava tra il fogliame del soffitto e ricadeva come una rarefatta pioggia sulfurea. Fanciulle danzavano frenetiche a piedi nudi sugli appiccicosi tavoli di legno, ostentando curve procaci malcelate da stracci purpurei strappati. I loro occhi bianchi bruciavano di un fuoco blasfemo inestinguibile; i lunghi capelli neri scarmigliati, emanavano una seducente lascivia; i candidi denti aguzzi, dietro le labbra piene della loro bocca stillante sangue cozzavano gli uni contro gli altri come quelli di un animale feroce. Gli altri avventori erano per lo più orchi guerrieri che, dopo aver assaporato il sangue del nemico sul campo di battaglia, venivano a celebrarne la sconfitta. Sotto un carapace più duro della roccia, sgorgava sangue fresco e pulsante, che fluiva ritmato dal fragore delle armi. Poggiavano le schiene nervose al muro di pietra, gli occhi chiusi, quasi per assorbirne la forza. Le grosse vertebre, distendendosi, si rigeneravano a quel contatto. I volti gravi e mostruosi potevano uccidere un uomo con il solo sguardo. Le zanne bianche e lucenti scintillavano minacciose al lucore pallido diffuso nel locale. Le loro armature di denti di lupo e di orso erano state accuratamente riposte in un angolo e un servo le nettava dai brandelli di carne con devozione. I corpi verdastri, animati da un vigore belluino, conferivano la stabilità di tronchi secolari. Le braccia esili di donne elfiche dagli occhi liquidi detergevano timorose i possenti toraci degli orchi, scossi ogni tanto da un battito interno.
E mentre studiavo inebetito queste forme grottesche, uno gnomo dallo sguardo torvo mi venne vicino. Gli occhi ridotti a fessure, le labbra serrate e arcigne nascoste da una folta barba fulva, mi sconvolsero i sensi. Non aveva ancora parlato, ma quel viso cupo minava le forze, mi schiacciava sotto un peso invisibile. Le parole non uscirono dalla bocca, ma dal naso! Un grosso naso bitorzoluto che sembrava volesse saltarmi addosso e mordermi, da come si dimenava furiosamente. Non sapevo esattamente cosa volesse da me, ma ogni movimento della sua singolare proboscide mi faceva sobbalzare, come fossi percorso da una scossa elettrica. Le membra si contorcevano involontariamente. Non potevo reagire: gli arti si ribellavano al mio volere e rallentavano, legati ai fili di un beffardo burattinaio inesistente, e la vista si appannava. Non riuscivo a sopportare questa umiliazione. Provavo ad alzarmi, ma le mie braccia, inserendosi nello spazio, trovavano una nebbia fibrosa che le intrappolava come una ragnatela; le gambe, pesanti come blocchi di granito, mi attiravano in basso. Caddi a terra impotente; le figure volteggiavano, non ne distinguevo più i contorni e su di me gravava un vorticante cielo di spettri policromi… Finché non mi rapì un sonno confuso.
Un letto bianco, una stanza quadrata dalle pareti rosse. Odorose lenzuola di lino scivolavano sul mio corpo nudo, che fremeva al loro serico contatto. Una donna. Nuda. Di una nudità adamantina che brillava di un’atavica luce dorata dalla purezza serafica, che si inseriva nello spazio come un raggio di sole. Irradiava la sua luce come un fiore distende i suoi petali all’alba di ogni giorno. Ma da questa purezza così luminosa, emergeva la maschera di una peccatrice. Rosa dall’erotica essenza, predatrice di uomini, ghermiti tra le sue spine. La donna! Si, la donna: nei suoi occhi si legge qualcosa di divino, sulle sue impudiche labbra qualcosa di diabolico. Dai suoi occhi neri profondi come un abisso traspariva un dolore radicato, inestirpabile. Leggevo il suo passato, tremavo, e lacrime spontanee mi rigavano il volto. Un legame empatico si era stabilito e io soffrivo per le cose che lei aveva sofferto. Era stata regina, moglie devota di un nobile re, che, per difendere il Cristo, aveva combattuto una lunga guerra contro barbari vagabondi, innocui, ma pagani. Quel popolo, logorato da anni di cruente battaglie, riuscì finalmente a catturare il nemico. La gente gioiva, banchetti, orge, tutto era concesso adesso: erano liberi. Per esorcizzare l’infausto periodo che aveva bagnato di sangue la terra e strappato i figli dai petti straziati delle madri, il re fu umiliato pubblicamente, torturato, impalato, decapitato e arso. La testa, alla quale erano stati mozzati naso e orecchie, fu consegnata al castello della regina, trapassata dalla spada mietitrice, che tante vite innocenti aveva reciso per la redenzione dei peccati al cospetto del Signore. La donna osservò per qualche minuto l’abominevole feticcio, singhiozzando disperatamente, pervasa da brividi percuotenti, come colpi di frusta. Lei aveva riversato tutto il suo amore nella bocca di Dio. Amava suo marito, lo amava focosamente, avrebbe dato tutto per lui, perfino la vita… Era già morta, il volto cadaverico pietrificato in uno spasimo raccapricciante: il dolore aveva divorato la carne, ogni energia l’aveva abbandonata. Agì meccanicamente, per istinto primitivo. Sfilò il ferro dalla testa di colui che aveva adorato, che aveva baciato, accarezzato, che aveva aspettato per sette lunghi anni nella speranza che l’araldo un giorno l’annunciasse col suo corno. Non percepiva più niente, sentiva sfasciarsi le vene, sentiva che non avrebbe mai potuto sorridere un’altra volta. Vedeva tutto attraverso un vetro frantumato. La bellezza del sole e della luna, il corso delle stagioni, la musica dell’alba o il silenzio delle notti perdevano tutto il loro significato e la capacità di comunicare gioia. Senza di lui, il mondo, era una landa desolata, un deserto dimenticato. Guardò la spada, portatrice di discordia, la sua fredda lama aveva ucciso figli di Dio, la morbosa predica di un ciarlatano non aveva donato agli uomini amore e pace, ma guerra e distruzione. Si sentì sommergere da un orrore putrescente, vide i cadaveri ammassati, uomini, donne, bambini, giovani e vecchi, mangiavano la terra dalla quale erano nati, una terra intrisa di sangue, una terra infettata, teatro della furia congenita, animale dell’uomo. Questa immagine le svelò l’ombra eclissata dalla luce, la verità nascosta dalla fede, una fede che non brillava più della stessa luce illusoria, una luce più buia delle tenebre. Appoggiò la spada alla finestra, si strappò la sontuosa veste, scoprendo il bianco seno vergineo e si gettò in preda al delirio sulla lama, nella quale vide il fugace riflesso di suo marito, che piangeva. Precipitò così trafitta, dissipandosi nella nebbia che precedeva il fossato. Alcuni boscaioli che assistettero all’atroce spettacolo, giurarono di aver visto un’arpia dalle ali di ferro, che versando lacrime nere si mordeva il candido seno, dissolversi nella foschia. La sua anima suicida, macchiatasi le mani del suo stesso sangue, non venne accolta dai cieli e cadde negli inferi, condannata all’eterno castigo. Ed era qui, in questa stanza che mi trovavo di fronte ad un angelo caduto, ardente di vendetta, assetato di sangue. Il suo corpo flessuoso sembrava tagliato morbidamente nel marmo, ma la schiena, che una volta recava le sacre ali dei cherubini, era ora percorsa da una cicatrice cremisi, il seno serbava ancora l’impronta dei denti.
La parete sulla quale poggiava le spalle sussultanti, l’avvolgeva come un sudario di sangue. Avanzò nella mia direzione lentamente; un appetito ferino le animava lo sguardo. Era un’apparizione indistinta, caliginosa, fluttuava per la stanza con movimenti sinuosi, sembrava danzasse incarnando lo spirito di un serpente; la sua immagine diveniva sempre più nitida e pareva acquistare sostanza; con un balzo improvviso s’infilò nel giaciglio. Potevo aspirare la calda sensualità della sua pelle, le labbra turgide e vogliose cercavano e trovavano; mi avvinse in un feroce bacio. Sentivo il sangue palpitarle nelle vene, il suo essere era sospinto da una voracità inumana. Io, teso come una corda d’arpa a poco a poco mi scioglievo al suo calore, abbandonavo i confini del corpo, travolto da una corrente impetuosa, una lussuria sublime, adescato dall’effluvio lascivo della sua carne. Le sue labbra assetate di desiderio si attaccavano alle mie, vi affondava i denti, accecata da una fame insanabile, ne suggeva avidamente la calda linfa. Lei si nutriva della mia vita, io mi nutrivo della sua bellezza e traevo dal dolore un sadico piacere. Le mie mani strinsero le sue, attratte da una forza magnetica irresistibile. Le nostre linee, da parallele, si intrecciavano in un nodo inestricabile, per poi ricongiungersi a formare un’unica retta. Non percepivo più la materia, ero stretto in un orgasmo che respingeva come uno scudo di specchi i miei tentativi di pensiero. La passione corrompeva l’anima, che bruciava nel suo fuoco in un urlo silente, confondendosi nell’amorfo fluire di Eros. Le nostre auree si affrontavano in un duello mistico, lanciavano fiamme iridescenti che disegnavano cerchi di ombre. Respiravo il profumo narcotico della sua pelle rovente, assorbivo la sua essenza. Ci stringevamo in un amplesso plastico, i nostri spiriti erano ora vincolati in un unico essere. La ferita sul seno pulsava e il suo pulsare suonava come un richiamo fatale. Mi afferrò la nuca, costringendomi a premere il viso contro il suo petto, il sangue aveva cominciato a sgorgare e non mi restava che bere per non soffocare. Era una morsa di ferro, nelle sue braccia vivificava una forza prodigiosa. E io bevevo, bevevo cupidamente. Tremavo di voluttuoso piacere, tremavo perché soggiogato dalla sua essenza, che io stesso bramavo.
Non una parola era stata pronunciata.
Mi aveva insegnato il significato del dolore e la sua bellezza.
Tremavo, lacrime e sangue mi bagnavano il volto, un volto che adesso avrebbe sempre ospitato una scintilla della sua luce e il germe del suo dolore.

IV

Il sogno svanì scivolando come un vento balsamico via dal mio petto nudo, che ancora palpitava. Sentivo il sapore caldo del sangue sulle labbra, sangue che mi risalì gorgogliante al collo rianimandomi. Un’energia nuova vivificava i sensi: l’apparizione onirica errava ancora nella mia anima e la sua sensualità pulsava sotto la pelle con un prurito costante. Vedevo le cose attraverso un reticolato flessibile. Ero attratto dal colore. Ero cavalcato da un appetito vampirico. Mi resi conto solo dopo un po’ che non mi trovavo più alla locanda, bensì nel cuore della foresta dalla quale ero fuggito. Il sole non rideva in cielo, ma io vedevo come fosse giorno. Le cose brillavano di una luce nuova nella quale canalizzavo il loro pigmento, una luce plasmatica e viscosa, un fuoco rosso incandescente. Mi sentivo potente; la mia mole era aumentata. Mi accorsi con stupore misto ad orrore e a compiacimento che il mio corpo era cambiato. Non era più gracile e allampanato, ma tuttavia non aveva più l’armonia di un corpo umano. Natura si era impossessata di me. Le unghie delle mani e dei piedi erano cresciute a dismisura ed erano adesso sostituite da mostruosi artigli. La mia pelle delicatamente ambrata era ora ricoperta da un folto pelame nero; ampie ali flessuose nascevano dalle mie scapole. Sentivo germogliare un nuovo potere nelle mie braccia e un furore perverso annidava la mia carne come un perpetuo terremoto di vibrazioni impercettibili. Ma subito fui dominato dalla volontà di un’entità segreta.
Avevo fame e sapevo già dove dovevo andare.
La vasta prateria era circondata da colline arse dal sole e un fiume l’attraversava col suo placido fluire, increspato appena dai riflessi dorati del tramonto. Una mandria di arieti brucava l’erba tenera, che ondeggiava lievemente al vento come accarezzata da una mano di fanciulla. Il cielo si velava di nubi rosate, spirali violacee, glauche e paglierine. Una volta precipitato lì, la mia essenza si diffuse come un morbo, un fumo nero avvinse i colori e una cappa di tenebre gravitò asfissiante sui velli tremanti delle bestie. Avevo perso il controllo delle mie azioni; non pensavo, agivo d’istinto, sottomesso alla sete di sangue insaziabile del fantasma della donna che avevo sognato. Il desiderio mi aveva sopraffatto e ora vedevo solo un grande braciere tumultuoso nella prateria, che ardeva di un fascino carnale. Il terrore serpeggiava fra gli arieti che, dopo aver riconosciuto nella mia improvvisa apparizione la maschera della morte, si lanciavano in una fuga disperata e selvaggia, ferendosi l’un l’altro con le lunghe corna.
Le tempie mi pulsavano, scoppiavano. In un delirio di immagini confuse vedevo solo il fuoco sprigionato dal calore della carne e percepivo il suo colore. Gli artigli fremevano, e fendevano l’aria come per ghermire una preda. La fisicità esplose con un rigurgito viscerale. Vomitai fiumi di veleno giallastro che, inondando la valle, paralizzava le bestie. Seguì un urlo disgustoso che sembrava non avere fine. Un orecchio umano non sarebbe stato in grado di udirlo.
Tutto ciò non era soltanto la trasfigurazione della lotta interna tra la mia parte umana, che ancora abitava il profondo, e quella demoniaca che stava avendo il sopravvento. Tutto ciò significava la mia definitiva, totale liberazione del male: proprio perché, essendomi totalmente abbandonato ad esso, al suo potere, adesso avrei potuto misurarlo e manipolarlo ad ogni mio capriccio. La luce non aveva mai illuminato le cose che ora eruttavano dalla mia bocca, che solo nell’ombra si manifestavano, così mi aveva impedito di liberarmene, o quantomeno di conoscerle pienamente. Il vizio supremo è la superficialità, tutto ciò che è compreso fino in fondo è giusto. Adesso non avrei più avuto paura, avrei riso in faccia a Dio. Nessuno si sarebbe potuto opporre alla mia volontà. Io avevo abbracciato l’infinito come tutti gli altri, ma non per un istante… Ero riuscito ad eternare il momento ed ero affogato nell’eterno; così l’avevo assorbito, ormai era parte di me. Ma d’ora in poi non sarei stato più il dominato, bensì il dominatore.
Mi dimenavo spasmodicamente cercando invano di divincolarmi dalla tentazione animale che mi opprimeva. Cedetti. Mi avventai su quei prelibati ventri dai morbidi velli, e solo dopo averli smembrati tutti e averne divorato le interiora grondanti sangue caldo la mia furia omicida si placò. Solo attraverso il peccato si raggiunge la purezza.
Ed io ero finalmente puro
Volteggiavo nella notte eccitato da una febbre oscura, ombra ballerina rischiarata da una grande luna bianca, occhio spettatore della mia onnipotenza. Danzavo con la notte, padrone del cielo e degli esseri viventi. Ridevo fino a spaccarmi i polmoni; era un riso diabolico e divino; le risate erano così violente che echeggiavano simili a tuoni. Terminato il rito planai nella tetra pianura dove avevo disseminato i cadaveri della mia ecatombe e mi accasciai assopito, aspirando voluttuosamente la putrefazione che penetrava nei corpi, com’era dolce e innocuo il suo sapore!
E così mi addormentai, sfiorato dalle foglie che cadevano come pianto dagli alberi, cullato dalla morte.

Epilogo

Un ghigno malefico si allargava sul mio volto al risveglio. Mai un sonno era stato più rigenerante. Le visioni di un tempo non mi avevano visitato; nessun insegna balbettante mi aveva schiacciato col suo peso; non avanzavo carponi nel vuoto; non dovevo inseguire più nessun barlume nelle tenebre; io stesso sprigionavo luce; io stesso inglobavo il piacere e non c’era motivo per rincorrerlo. Gli alberi e i fiori mi si aprivano in tutta la loro bellezza.
Traboccavo infinito: gli animali, le piante, le cose e chiunque mi vedesse mi riconosceva come suo sovrano assoluto. Si prostravano ai miei piedi, mi baciavano con gli occhi, mi amavano con tutto il loro spirito, la gioia si dipingeva nei loro sguardi. Non si avvicinavano troppo, consci che sarebbero rimasti folgorati, ma respiravano, si nutrivano della mia luce e per questo mi adoravano. Erano come caduti sotto un incantesimo: non potevano smettere di guardarmi. La mia luce era mistica, antichissima e verginale, per cui li assaliva un dolce brivido, come sempre accade quando ci si scopre in prossimità di elementi eterni.
Il mio corpo era mutato ulteriormente. Della forma precedente conservava gli occhi di fuoco carminio e una lunga coda che terminava simile alla punta di una freccia. Per il resto aveva la forma umana di prima. Le forme sono caduche, il tempo le condiziona, le consuma, le polverizza. Io, essendo eterno potevo controllare il tempo e quindi alterare le forme a mio piacimento. Potevo crescere fino a toccare i tre piccoli soli. Potevo diventare una nebbia sottile e infilarmi tra le vesti delle fanciulle, che si gettavano a terra in preda a un solletico folle. Potevo proiettarmi sul cielo come un dipinto su tela e osservare il frenetico danzare degli uomini sotto di me.
Ero tornato nel luogo dal quale mi avevano scacciato. Ma non volevo vendetta: erano uomini e la perfezione degli uomini è data proprio dalle loro differenze e imperfezioni. Per questo li perdonavo e nel mio perdono gustavo un appagamento, una sensazione di calma e di armonia che non avrei mai provato sterminandoli. Sarei stato capace di farlo, s’intende, alzando semplicemente un dito: al mio più piccolo comando essi si sarebbero trucidati a vicenda.
Ero il padrone, governavo la cosa più importante che si possa governare: il cuore degli uomini.
Quando giunsi al palazzo di Ankalima, le donne si abbandonavano ad orge, ridevano, piangevano, urlavano: era la prima volta che toccavano veramente il divino e non riuscivano a porre un freno razionale al godimento che io effondevo.
Ankalima sapeva già cosa doveva fare; il suo spirito era elevato a tal punto da comprendere le mie intenzioni, anche se non avevo pronunciato parola. Scese le scale imperturbabile, orgogliosa, consapevole della propria sconfitta. Era bellissima. I suoi passi erano talmente leggeri che sembrava fluttuare come un angelo. Mi sorrise. Com’era puro il suo sorriso! Piangeva, perché in fondo era umana, ma con una dignità, con una gravità materna primordiale. Io l’aspettavo. Studiavo ogni sua mossa, affascinato dalla sua persona, dalla sua purezza, dalla sua trasparenza sconfinata. Quando fu abbastanza vicina la cinsi piano tra le mie braccia e la baciai dolcemente. A poco a poco essa scompariva e sentivo il suo nobile spirito penetrare nel mio cuore e le nostre anime confluire in un tenero legame. Finché essa non sparì del tutto la folla ci osservò pietrificata, come davanti a un prodigio che avrebbe deciso la loro esistenza. Ankalima adesso non apparteneva più al mondo delle forme, era parte di me, sarebbe stata per sempre mia. La folla non pensava e quindi non fu sconvolta da un simile evento; si limitò a guardami con più intensità, dato che il mio essere, ora, era ancora più luminoso.
Ero il nuovo re del regno della luce, i miei sudditi non mi temevano, se pur coscienti della mia potenza, perché trasmettevo loro amore e loro impararono a cercare l’amore in tutte le cose e non la perfezione.
Estate '04
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