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Diario di un aspirante suicida (o presunzioni d'autobiografia da un manicomio)

Ultimo Aggiornamento: 29/10/2004 01:38
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28/10/2004 22:04
 
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DIARIO DI UN ASPIRANTE SUICIDA
Presunzioni d’autobiografia da un manicomio


Avvertenza: Ho trovato gli scritti di seguito riportati nella stanza di un nostro cliente, il signor Antonio Dellerose. Il mio scopo precedente era quello di scrivere un trattato, catalogando in ordine alfabetico i vari casi di malattia mentale fino ad oggi conosciuti; il ritrovamento dei suddetti scritti mi ha portato ad un brusco cambiamento di punto di vista: una nuova domanda mi tormenta, sfacciata.
Esiste la pazzia? O meglio: la pazzia può essere ricondotta a una questione oggettiva?
Non starò a discutere se sia normale alzarsi tutte le mattine per andare al lavoro e ritrovarsi tutti i sabati dalla suocera, non è questo il punto; e comunque mi si potrebbe rimproverare di filosofeggiare. Semplicemente, per la prima volta nella mia carriera di medico e di psichiatra s’è affacciata alla mia mente questa semplice domanda: esiste la pazzia? La seconda, e cioè: e se sì, sicuro che i pazzi siano quelli dentro i manicomi e non quelli fuori?, è soltanto un bisticcio filosofico preparato per coloro i quali pretendono di rispondere sicuramente e positivamente alla prima.
Per quanto riguarda il mio modesto parere, la riposta è: non lo so. Propongo ai miei illustri colleghi, e a chiunque voglia interessarsene, queste poche pagine, sperando che l’ormai defunto signor Antonio non se l’abbia a male, nel caso fosse risultata a lui sgradita la pubblicazione delle sue personalissime memorie.
I fogli sono riportati nell’ordine in cui sono stati trovati.

Prof. Dott. Anselmo Iodidei



Finalmente! Da un anno ormai aspettavo dei fogli e una penna. C’hanno dovuto pensare bene, il dottore mi ha confessato che avevano paura che usassi la penna in modo improprio. Se le penne sono fatte per scrivere, credo che possono star tranquilli.
Per ogni cosa è così; per le foto in camera, per la musica, perfino per il cibo. Ogni mia richiesta è studiata, ponderata. Se sono fortunato, alla fine arriva la benedizione dell’equipe, altrimenti arriva semplicemente il non è consigliabile. D’altra parte, che importa? Come quando ero fuori, faccio sempre le stesse cose; direi quasi che non è cambiato niente, non foss’altro che per il bianco.
Qui tutto è bianco. Avevano paura che riuscissi ad uccidermi con una penna! Non sentono che la vita è colore? E che mi stanno uccidendo loro con tutto questo bianco? Gliel’ho detto; ma dicono che il colore adatto a questi casi è il bianco, è per il mio bene. Pareti spugnose bianche, letto bianco, camici bianchi, tavolo bianco, tutto bianco. Userei questa penna per disegnare dappertutto se non sapessi che ciò causerebbe l’immediata confisca dell’unico bene di cui abbia veramente bisogno adesso: questa penna. Mi limiterò a scrivere su questi fogli.
Naturalmente per questi fogli e questa penna hanno voluto una ricompensa; volevano che parlassi di mia madre, della sua morte; non ho mai voluto farlo, ma per una penna e della carta ho ceduto; ma ho mentito, l’ho imparato qui dentro. Se l’avessi imparato fuori, forse mi avrebbero lasciato in pace; adesso è troppo tardi. Antonia me lo suggerì una volta, a modo suo.

Se fossi vera, sarei sola


Tutti cercano la verità, fino a quando non la trovano; poi si rendono conto che una diplomatica bugia andava certamente meglio. A scanso di equivoci ti lasciano comunque solo.
L’altra settimana hanno acconsentito a farmi portare “The final cut, a requiem for the post war dream”. Lo ascolto di continuo. Certo non è come quando c’era Sid Barret, ma i vecchi album non me li faranno ascoltare mai! Ovviamente non è consigliabile. L’arte non è consigliabile, mai. L’arte appartiene all’individuo, e l’individuo è pericoloso. La massa è innocua. Io sono sempre stato io, ma, come dicono qui, non è consigliabile.

Uno di questi giorni ti farò a pezzettini

Sono solo come una verità; ma l’accostamento non mi lusinga. Ci sono dei giorni che non rimpiango niente, altri giorni rimpiango il colore, altri vorrei morire; ma non è una cosa nuova, quest’ultima. Da quando ho acquisito il concetto di morte (e l’ho acquisito presto) ne sono affascinato; più che altro sono deluso dal concetto di vita; forse è questo il concetto che non ancora acquisisco bene. Perché la vita finisce, la morte no. Non si finisce mai di essere morti, quando si muore; non si può dire lo stesso della vita. E allora perché trascinarsela per quei settanta, ottant’anni (se non ti prende prima un tir contro mano)? Alla fine ci si arriva comunque, anche se non ti suicidi. Non lo riescono a capire. Solo per questo volevo tagliare le vene. I dottori dicono che non è normale; per me va bene lo stesso, resto vivo, ma per quanto? Chissà come rimarranno male quando morirò comunque. Perché si muore, no? Non vorrei che la mia pazzia fosse semplicemente definita dalla conoscenza della morte. Ci penserò.

La prima volta che presi la lametta per tagliarmi le vene avevo otto anni; sentivo la morte in tv, ma non l’avevo mai vista; poi morì il padre di mio padre di mio padre. Era quasi centenario e non aveva la barba. Mio padre cercò di spiegarmi che è così che vanno le cose. E’ la vita, mi disse. Io pensai che si trattasse di morte. Comunque se così doveva essere per tutti non aveva senso aspettarla, le avrei corso incontro. Ero un tipo impaziente. Ricordo la puzza dei fiori.
La bara, aperta, era sistemata nel salone; io ero nella mia cameretta, al piano di sopra. Ascoltavo la soffocata litania di preghiere provenienti dal basso, e la puzza di fiori morti. Non c’è bisogno che lo vedi, aveva detto mia madre; strinsi le spalle, a voler significare che non m’importava né di vederlo né di non vederlo; mia madre non intuì quella prima scomoda verità che le proponevo semplicemente. Mi lasciò solo, in camera mia, e scese ad unirsi ai lamenti delle donne vicino la bara. Fuori dalla finestra c’era la primavera e c’erano i colori. Gli alberi fiorivano, ma la puzza di fiori proveniente dal basso rendeva quel paesaggio grottesco; la natura si rivelava. Non permetteva alla primavera l’illusione del suo essere. Morirete, dicevano i fiori morti sulla bara ai fiori vivi sugli alberi. Così pensai che, in fin dei conti, potevo morire; non avevo granché da fare quel giorno. Uscii nel corridoio e le voci di sotto sembrarono aumentare di volume; eterno riposo dona a lui, oh Signore, e singhiozzi. Non capivo quella tristezza e ciò m’innervosiva. Erano tutti degli stupidi. Perché piangere per cose che si sanno e sono così, inevitabilmente? E’ la vita, aveva detto mio padre; e anche se non ero d’accordo con la definizione, ero d’accordo sulla sostanza. Non c’è più. Non mi parlerà più. Quelle donnine dicevano che comunque avrebbe sentito, ma che me ne facevo io del suo sentire? Doveva parlare, se voleva farmi un piacere. Più indispettito che triste aprii la porta del bagno.
Alla puzza di fiori morti si unì la puzza di disinfettante, di pulito, correggerebbe qui mia madre. In fondo cos’è la morte se non puzza di fiori morti e disinfettante? Non è una persona che viene a mancare; quello, l’abbiamo appena appurato, è normale. Ma di quella puzza? Ce n’è davvero bisogno? Seppure voglio concedere che per qualcuno la morte di qualcun altro può esser dolorosa (cosa che comunque non capisco), perché peggiorare le cose in quel modo barbaro? Comunque il rasoio di mio padre era lì.

Siamo sulla stessa barca
io e te
tittititi titititititi
tittititi titititititi
tittititi titititititi


Io non odio i fiori; ho solo detto che mi dà fastidio la puzza di fiori morti. Anzi. Ho sempre amato guardare fiorire gli alberi; soprattutto i peschi e i meli. I fiori di pesco sono rosa, quelli di melo, bianchi. Mi piacciono i papaveri e quei fiorellini blu, i nontiscordardimé. Le margherite, però, mi annoiano, e pure le rose. Mentre i fiori della noce sono proprio brutti.

Togli le tue sudice mani dal mio deserto

L’aria, quando porta il suono di una tromba, è blu.
Quando lo dicevo, tutti mi guardavano male, e dicevano che ero strano. Antonia no. Una volta gliel’ho detto e lei mi ha baciato e io ho pianto, così, perché non sapevo che altro fare.

Giro nei fast-food, però…

Resto l’uomo del tango.
La solitudine non è il non trovare comprensione. La solitudine è il trovare la comprensione di una sola persona. Non lo so spiegare meglio; forse è perché sono strano. Un po’ me ne sto convincendo. Sono dottori, sapranno bene cosa fanno.
Quando sei completamente solo t’assale una sensazione di forza; ti senti più forte e più intelligente degli altri. Condividere queste emozioni con una persona come te porta alla solitudine. Ecco, forse così va un po’ meglio.
Sono solo da sempre, ma me ne sono reso conto da poco; da quando ho scoperto di non saper parlare; cioè, ci sono delle cose che non so dire, o dico in modo sbagliato. E sono cose belle. Questo non è quasi mai un problema, perché raramente ho voglia di parlare, ma quando voglio e non ci riesco mi viene voglia di ammazzare la gente. Ma non me lo fanno fare, allora cerco di ammazzare me stesso, ma neanche questo mi fanno fare; anzi, da quando sanno che penso queste cose non mi fanno fare più niente, mi fanno solo guardare il bianco. Non mi è mai piaciuto il bianco.

Corri, corri, corri

Ho chiesto un quadro, uno qualsiasi. Vogliono sapere perché. Non gli ho riposto e non me l’hanno dato.

Su voi con voi dormire,
sognando di morire


Stupido

Guidare mi è sempre piaciuto; a volte ero talmente preso dalla guida che non sentivo più la radio, che dopo diversi chilometri andava fuori frequenza e cominciava a ronzare. Non provavo neanche a cambiare stazione, non la sentivo proprio. A volte andavo così lontano da perdermi.
Le ginestre ai bordi della statale sono belle; ecco un altro fiore bello! Leopardi non c’entra, per carità. Mi fa schifo.
Voglio uscire di qui.

La canto ai vagabondi
E a chi viene da lontano
Lei aveva occhi tristi
E delle croste sulle braccia
Lui non le vide bene
Lei non disse dove andava
Salutò e salì
Sulla Cadillac



Non so se sono stupido o matto, come dicono; o meglio, non lo dicono, ma se non pensassero questo che ci farei in un manicomio?
Comunque, dicevo: non so se sono stupido o matto, però mi sono accorto che sarebbe presto successo qualcosa di strano. Si vedeva dal paesaggio. Prima che tornassi a casa e trovassi l’ambulanza ad attendermi ero stato in giro, a guidare. Mentre attraversavo senza fretta la statale il mondo cambiò. Come commosso per la mia prossima e definitiva partenza per il mondo del bianco, il mio mondo si rivelò in tutta la sua bellezza. Dallo specchietto retrovisore vedevo la città bruciare di tramonto alle mie spalle e davanti il paese disegnato a pastello. E le nuvole. Nuvole grigie, grosse come bestemmie. Non è un gran quadro, detto così; ma non lo so dire altrimenti. Comunque capii che stava per accadere qualcosa di definitivo. Lì per lì pensai che stavo per avere un incidente mortale; più o meno accadde qualcosa di simile.

Ed ella è Primavera
che non guarda le cime
fosche nel cielo, e spera


La Nausea di Sartre mi spiegò meglio la mia attitudine al suicidio. Con parole che io non avrei mai saputo trovare mi spiegò chiaramente il disgusto per quest’eccessivo capriccio, volgarmente detto vita. Così ci riprovai, avevo circa diciassette anni. Tipico. Anche allora mi dissero che non era normale, ma non ci credei! Chiunque a diciassette anni ha provato o ha pensato a tagliarsi le vene; questo posso dirlo quasi con sicurezza; forse è stata l’unica cosa normale che abbia mai fatto.
Intanto avevo capito che per tagliare i polsi non bastava un rasoio, bensì si doveva togliere la lametta dal precedente rasoio; perché (a diciassette anni l’avevo scoperto, ma prima, a otto, non lo sapevo) i rasoi hanno le protezioni, e stai fresco a scavare a vuoto. Con una lametta nuda è tutta un’altra musica.


Se lo portaron
Seduto in trono
Quattro becchini
Al passo lento
Del perdono


Dal primo funerale al quale avevo assistito, avevo sognato il mio. Non in senso onirico; lo immaginavo, lo studiavo, lo preparavo. Intanto avevo deciso che m’avrebbero seppellito sotto terra. Quelle cappelle coi rispettivi loculi erano ben poco romantiche. No, io volevo una bara malandata, sotterrata, con una croce di legno piantata sopra; avrebbe dovuto rivelare solo nome e cognome, niente date.
Poi volevo pochissima gente, giusto tre o quattro persone, prete compreso; già, il prete. Non sono religioso, ma il prete lo volevo; accresceva la portata romantica del quadro. Ovviamente sarebbe piovuto, e nessuno avrebbe avuto l’ombrello. Neanch’io ho mai avuto un ombrello.

Notte dopo notte
Girando e rigirando attorno al mio cervello
Lui mi guida in questo sogno insano


Ho capito.

Ma la natura la dà sempre scema,
similemente operando all’artista,
c’ha l’abito dell’arte e man che trema


Sono stato pittore. Una sola volta.

L’amavo troppo, ma l’ho dovuta uccidere
L’amavo troppo, ma l’ho seppellita in giardino


Insomma, qua tutti credono che io odi la vita! Certo, da gente che studia Freud per far psicologia non c’era granché da aspettarsi! Vogliono sapere di mio padre, di mia madre… sono così banali. Prima volevo fuggire da qui, ma ora non più. Quello che non sono riuscito a fare io in trent’anni, lo sta facendo tutto questo bianco qui dentro. Allora non userò quello che ho capito di loro per uscire di qui, anche se sarebbe semplice. Perché i miei tentativi di giungere presto ad una conclusione sono goffi e irrilevanti di fronte alla sistematica distruzione dell’uomo che avviene in questi posti. Allora li faccio fare, mi ammazzano cercando di salvarmi la vita.

Tomorrow we enter the town of my birth.
I want to be ready.


Amo Picasso quando dipinge, Casati quando suona la tromba e Pirandello quando scrive. Amo la natura, anche quando è pioggia e neve. Amo Antonia. Amo il freddo di quando entri sotto le coperte d’inverno, e il fresco di quando lasci che l’acqua ti si asciughi addosso da sola, d’estate, dopo una doccia. Amo i cani perché vogliono essere accarezzati e i gatti che se ne fottono.
Ma non significa niente. E’ solo per dire che non è come pensano loro. Sssst.

Se la porti in concorsi di vento
dove eleggono Miss Stella maris


Avevo paura che sarebbe piovuto, ma alla fine è stata una bella giornata. Siamo stati in montagna, proprio sulla cima; per fortuna Antonia ha portato dei plaid, sennò ci saremmo macchiati d’erba. Non sarebbe stato grave. Il sole non era troppo forte e il vento leggero; ci siamo stesi a guardare il cielo. Poche, piccole nuvole ci passavano davanti, ci guardavano un attimo, sorridevano, e ripartivano svelte. Forse pensavano che stavamo per baciarci.
L’erba appena tagliata non puzza come i fiori morti.
Non me lo so spiegare; tecnicamente erba tagliata e fiori morti sono la stessa cosa, però non hanno lo stesso profumo. Il profumo dell’erba appena tagliata è buono.
Abbiamo parlato poco e io avevo paura che mi diceva che ero strano, perché quelli normali pare che parlino molto, soprattutto con le ragazze. Ma pure lei parlava poco, e allora non mi sono preoccupato più.
Quando il sole ci è arrivato proprio sopra la testa ci siamo dovuti girare a pancia in giù. Forse Antonia aveva il peso tutto sulla pancia, perché le premeva e parlava di più; non volevo dire che parlava per far uscire fiato, però… così sembrava, visto che ha cominciato appena ci siamo girati. O forse solo perché è pericoloso parlare mentre si guarda tranquillamente il cielo. E’ come il vino, ti fa dire cose strane.


Non mi va più di scrivere.






Volevo fare il contadino.


Sta cambiando di nuovo. Il mondo, dico.
Il bianco è diventato minaccioso.

Considerate bene ciò che chiedete,
potreste essere esauditi.

Io mi volevo uccidere, ma non per questo; adesso penso solo che avevo ragione. Adesso ho paura.

Not now John!!


Volevo andare io,ma sta venendo lui; è un po’ diverso, ma alla fine è lo stesso; solo che ho paura.
Il bianco mi continua a chiedere se sono sicuro. E ghigna.


Io mi volevo uccidere, non me l’avete permesso e ora muoio lo stesso. Maledetti.



Così si concludevano i brevi scritti del mio paziente, il giorno della sua morte. Come avesse capito che stava morendo (arresto cardiaco) rimarrà un mistero. Continuo a chiedermi se fosse pazzo davvero.
L’unica cosa di cui sono certo è che l’abbiamo ucciso.
Dio ci perdoni.

Prof. Dott. Anselmo Iodidei

N.d.A: I vari versi presenti nel racconto sono di: Jim Morrison, Dante Alighieri, Max Manfredi, Vinicio Capossella, Gun's 'n' Roses, Pink Floyd, Rino Gaetano.
29/10/2004 01:38
 
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D'acchito sembrerebbe un racconto ironico, così non è; certo c'è del sarcasmo, ma gli interrogativi che si pone il "pazzo" sono gli stessi che si saranno posti i nostri antenati e che ci poniamo noi stessi.

Un amore viscerale per la natura (ha ragione l'erba morta ha un buonissimo profumo mentre i fiori che si mettono attorno alle bare puzzano di morte su morte) per i colori per la vita.

Mi chiedo spesso anch'io quale sia lo scopo del vivere se alla fine ci attende la morte, dato che dalla vita non si esce vivi.

Allora mi rivolgo al Prof. Dott. Anselmo Iodidei e chiedo di entrare pure io in quelle stanze bianche, io l'adoro il bianco, prometto di non farmi male con una biro e che mi si lasci sola con i miei pensieri, i miei sogni, le mie angosce.

MITICO LADRO


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