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Il quadro

Ultimo Aggiornamento: 21/12/2010 08:34
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Era mercoledì. Si credo che fosse mercoledì mattina quando un bambino con l’aria innocente, avendo saputo della notizia della mia grave perdita, evento che avvenne qualche mese prima, venne a rincuorarmi l’animo. Credo che si chiamasse Franco. Sono passati tanti anni da quel giorno e non ricordo bene la situazione dell’incontro. Credo comunque che fosse il figlio della Maria, la signora per bene che viveva nell’appartamento sopra al mio.
Ricordo solo che faceva freddo, molto freddo. Aveva appena finito di nevicare, evento molto raro in una città di mare come la mia. Egli con fare affranto mi venne incontro, tirò con decisione il bordo sottostante del cappotto e mi chiese con fare deciso, risoluto:
< siete il signor luigi, quello che ha perduto l’oggetto strano? >
Mi stupii della domanda, sia perché veniva da un ragazzino che poteva avere al massimo sette od otto anni, sia perché la notizia che volevo tenere nascosta, in quanto ne provavo una certa vergogna, era invece giunta evidentemente alle orecchie di tutto il vicinato.

A quella domanda mi si aprì un cancello di dubbi, di incertezze, di rancori e rabbia. Ci tenevo al quadro. Era un dipinto non molto grande e dalla cornice dorata, un olio su tela che aveva come soggetto un nave dispersa nella tempesta. Le onde maestose costituivano il sottofondo del dipinto, quasi come se il mare ruggisse all’osservatore. Una miscela di tonalità di blu scuro, di indaco e di bianco si muoveva tra margini d’oro, parendo che possedesse vita autonoma. Il cielo era molto più cupo, come un tetto nero e grigio il cui riverbero contornava la stanza in cui era affisso il dipinto. Ricordo che ogni volta che mi soffermavo ad ammirarlo l’umore del vento e la furia dei nembi calanti aggiravano il mio corpo, opprimendo il fiato in un senso di chiuso e di usura. E tutto questo semplicemente m’emozionava. Ma il soggetto rimaneva sempre il piccolo veliero che era in balia delle correnti. Una piccola imbarcazione a vela che diveniva ancora più piccola quando si confrontava con l’infinità d’acqua dell’oceano. Era posizionata leggermente a sinistra rispetto all’asse mediano, ma piegata fortemente a destra sull’orlo di un’onda più alta e imponente delle altre. Quel dipinto raffigurava l’esatto momento prima del naufragio. Alla domanda del bambino un alone di malinconia mi afferrò e mi scaraventò in momenti volutamente oppressi dalla volontà di coscienza.
Egli vedendo che ancora non rispondevo e osservando il mio viso rabbuiarsi, con tratti degli zigomi e del labbro che s’abbassavano, con innocente cattiveria insistette per soddisfare la sua curiosità di fanciullo che ancora non conosce la durezza del mondo. Continuò a ripetermi:
< beh signore? Perché non risponde alla mia domanda? Che fine a fatto l’oggetto strano, mamma ne parla sempre con papà di come avete fatto a perderlo>

E allora montò una certa frustrazione che mi assalì cosi rapidamente che abbassai le spalle raccogliendole nelle braccia e cercai di evadere da quei quesiti continuando a camminare. Come avevo fatto a perderlo mi ripetei più volte. Sovvenne alla mente quella maledetta fiera. Un paio di amici fidati mi convinsero ad affittare la mia meravigliosa opera ad un teatro che stava allestendo una fiera di beneficienza e cercava quadri da allestire. Inizialmente titubante, decisi alla fine di concederlo visto anche che in quel periodo avevo urgenze più impellenti. Pensai che in fondo era a fin di bene e nell’opera pia avrei forse soddisfatto il mio bisogno di benevolenza. Prima dell’affidamento interpellai un restauratore e uno dei curatori del museo di città che tempo fa avevo conosciuto. Entrambi erano favorevoli al prestito, rassicurandomi che il danno potenziale per il dipinto era minimo, soprattutto se commensurato dal beneficio del prestigio e del servizio al prossimo. Convinto da questi pareri mi convinsi a correre il rischio e il giorno seguente vennero due responsabili della mostra per prelevarlo. Fu l’ultima volta che vidi il mio dipinto.
Mi bloccai per un istante dal cammino e dalla voce divenuta fastidiosa dell’impertinente fanciullo. Non solo le mie gambe erano ferme, immobili. Anche la voce non sembrava volesse uscire, e il volto come la mente erano bloccati solo nel revisionare quell’esatto momento. Gli occhi si inumidirono e la bocca si piegò lievemente, quasi che non volessi farmi notare da passanti che ignoravo, in una smorfia di sconcerto. Sembrava che il mio abbandono fosse avvenuto il giorno prima e che in questo preciso istante mi accorsi della gravità della perdita. Il respiro divenne corto, manco se avessi fatto una lunga scalinata a chiocciola. Il battito accelerò preparando l’animo ad una improvvisata fuga, ma non vi era alcuno predatore, se non il mio stesso intelletto che ora si trovava smarrito dall’abbattimento di barriere costruite in tanto tempo. Volevo urlare, almeno per scaricare parte della tensione che stavo accumulando. Ero pronto per esplodere, mancava solo la miccia.
E la scintilla s’accese all’insistenza del fanciullo:
mi chiese stizzito.
Mi voltai di scatto, seccato ed infuriato per l’impudenza e la maleducazione di quel fastidioso essere, ma quando vidi il suo viso sciolto dalla preoccupazione e vidi soprattutto il candore che addobbava la sua curiosità di sapere, mi calmai. Afferrai immediatamente che pensare ancora al quadro ora non aveva più senso. L’ammirazione che provavo per quell’imbarcazione era fuori discussione. Mi accorsi che era inutile rivivere situazioni passate, sia d’affetto che d’amore verso quei colori. Era passato tanto tempo da quell’infausto giorno e chissà dove, chissà chi starà ammirando a sua volta la fantastica creatura. Forse, anzi ne ero e ne sono tuttora convinto, che avrà trovato sicuramente un tutore più assorto del mio sguardo. Qualcuno che non correrà il rischio di cederlo a terzi. Qualcuno per il quale il quadro è troppo importante per poterlo affidare ad estranei o conoscenti. Qualcuno che veramente ama quell’oceano in tempesta, quella furia del cielo, e quel veliero moribondo. E a questo pensiero giunse un sincero sorriso, una calma che in tutti quei mesi non avevo mai trovato. La verità, anche se dopo tanto tempo, era venuta finalmente a galla quietando l’animo da qualsiasi rancore e rimpianto. Con parole ben scandite, quasi come se volessi incidere la mia esperienza nel fanciullo, e con andamento lento per farmi capire per bene, solenne, gli risposi:

< piccolo, quando tieni veramente a qualcosa non te la fai sfuggire, ma cerchi in tutti i modi di prenderla, afferrandola, sempre se è nelle tua possibilità coglierla. In questo caso ne vale veramente la pena. L’oggetto strano a cui tu fai riferimento, era un quadro che mi fece perdere la testa per la sua bellezza. Molti non l’apprezzavano quanto me, e forse per questo che divenne il mio dipinto. Almeno cosi credevo, ma non l’amavo, ed è per questo che non lo meritavo. Quando sei pronto a correre il rischio di perdere quello a cui credi di tenere, vuol dire che in fondo non era così importante>.

Presi un sospiro e continuai:

< Avrai un giocattolo preferito rispetto agli altri giusto? Sono sicuro che non lo affideresti a nessuno, magari col tempo smetterai di giocarci, ma non lo affideresti a nessuno perché è troppo importante per te stesso. Io invece l’ho lasciato andare per il suo cammino, e grazie a te ora mi rendo conto che il bisogno che credevo impellente di guardarlo non era cosi urgente, e l’ho perso perché ho corso il rischio>.
Lui mi squadrò strano, non credo che abbia capito ad una sola delle mie parole, ma avendo trovato risposta al suo quesito s’allontanò correndo verso i suoi amici.

Appunto questo aneddoto al mio diario perché ho appena incontrato un ragazzo, figlio di quel fanciullo. Nei suoi occhi ho trovato lo smarrimento che presumo il veliero abbia avuto quando non è più riuscito a scontrarsi con la mia passione nell’osservarlo. Quell’evidenza di chi capisce, rischiara le sue cataratte e rivive non i bei momenti, che rimarranno comunque impressi, ma quelli di sconforto e di perplesso. Indice questa che quando ci si può permettere il lusso di perdere qualcosa allora il destino a cui vai incontro è di perderla. Afferrai istintivamente il braccio del giovane e gli dissi a sottovoce: ti chiedo scusa se ti ho illuso d’esser il mio oggetto strano, ma a me andava così di fare.
Il ragazzo, quasi d’impulso si ricordò di quel Luigi di cui la madre ne aveva tanto parlato e dolcemente e leggermente sollevato dalle parole più recenti, ma soprattutto di quelle passate ed incise, mi rispose: non ti preoccupare, non nutro rancore nei tuoi riguardi, il tempo mi ha fatto trovare il mio curatore, personificando il veliero.

Non ho mai più ritrovato il quadro, né il quadro ha trovato me. Ma mi sento sollevato d’aver rincuorato quel ragazzo divenuto uomo.


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21/12/2010 08:34
 
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Chiedo scusa per eventuali errori gravi e sviste (che ho trovato)... saluti Alessio
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