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Antologia Amorosa

Dopo problemi sociali, culturali e politici perchè non lasciarsi durre da' flutti creati dagli ardenti accenti de' dimenticati maestri del verso? Qui propongo un saggio dei sonetti, rispetti e odi di grandi e meno grandi autori, i quali non credo abbiano bisogno di alcuna introduzione se non la necessità di sottolineare che molti di questi componimenti, non tutti, sono prove importanti, ma non ancora del tutto mature.

A. Ambrogini-Politiano(Rispetti)
I
Amor' Bandire e comandar' vi fa,
donne belle e gentili che siete qui,
che qualunque di voi cor' preso ha,
lo renda o dia lo scambio in questo dì:
se non, ch'una scumunica farà.
Quest'è un cor' che pur ieri smarrì
e fu veduto, quando qui calò,
ch'una di voi cantando l'allettò

II
Se tu sapessi quanto è gran dolcezza
un suo fedele amante contentare,
gustare e modi suoi, la gentilezza,
udirlo dolcemente sospirare,
tu porresti da canto ogni durezza
e diresti:- una volta i' vo' provare-.
Quando una volta l'avessi provato
tu ti dorresti aver tanto indugiato

III

I' non ardisco gli occhi alti levare,
donna, per rimirar' vostra adornezza,
ch'io non son' degno di tal' donna amare,
nè d'esser servo a sì alta bellezza;
ma se degnassii un po' basso mirare
e fare ingiuria alla vostra grandezza,
vedresti questo servo sì fedele
che forse gli sareste men crudele.

IV

Che maraviglia è s'i' son' fatto vado
d'un sì bel canto e s'i' ne son ingordo?
Costei farebbe innamorare un drago,
un bavalischio, anz'un aspido sordo!
I' mi calai, e or' la pena pago
chi' mi truovo impaniato com'un tordo.
Ognun' fugga costei quand'ella ride:
col canto piglia e poi col riso uccide.

Lorenzo il magnifico(Sonetti)
I
O chiara stella, che coi raggi tuoi
togli alle tue vicine stelle il lume,
perché splendi assai più del tuo costume?
Perché con Febo ancor contender vuoi?

Forse i belli occhi, quali ha tolti a noi
Morte crudel, che omai troppo presume,
accolti hai in te: adorna del lor lume,
il suo bel carro a Febo chieder puoi.

O questa o nuova stella che tu sia,
che di splendor novello adorni il cielo,
chiamata esaudi, o nume, e voti nostri:

leva dello splendor tuo tanto via,
che agli occhi, che han d'eterno pianto zelo,
sanza altra offension lieta ti mostri.

II
Quando el sol giù dall'orizzonte scende,
rimiro Clizia pallida nel volto,
e piango la sua sorte, che li ha tolto
la vista di colui che ad altri splende.

Poi, quando di novella fiamma accende
l'erbe, le piante e' fior' Febo, a noi vòlto,
l'altro orizzonte allor ringrazio molto
e la benigna Aurora che gliel rende.

Ma, lasso, io non so già qual nuova Aurora
renda al mondo il suo Sole! Ah, dura sorte,
che noi vestir d'eterna notte volse!

O Clizia, indarno speri vederlo ora!
Tien' li occhi fissi, infin li chiugga morte,
all'orizzonte estremo che tel tolse.

VII


Occhi, voi siate pur, come paresti,
i più begli occhi ch'io vedessi mai;
l'altre vaghe bellezze ch'io mirai
e i modi son bellissimi e onesti.

Né mi posso doler, lasso!, di questi,
ma ringraziarli e onorar assai;
ma sol di te, o falso Amor, che sai
che il core era adamante, e nol dicesti.

Già ne domandai gli occhi, ove tu eri:
tu formasti parole in quella bocca
da fare i monti gir, non che un cor preso.

Già pe' sospir' gli amorosi pensieri
suoi conobbi io, e che pietà il cor tocca,
ma non sapea di che fuoco era acceso.

Gaspara Stampa(sonetti)

I
Voi, ch’ascoltate in queste meste rime,
in questi mesti, in questi oscuri accenti
il suon degli amorosi miei lamenti
e de le pene mie tra l’altre prime,

ove fia chi valor apprezzi e stime,
gloria, non che perdon, de’ miei lamenti
spero trovar fra le ben nate genti,
poi che la lor cagione è sì sublime.

E spero ancor che debba dir qualcuna:
- Felicissima lei, da che sostenne
per sì chiara cagion danno sì chiaro!

Deh, perché tant’amor, tanta fortuna
per sì nobil signor a me non venne,
ch’anch’io n’andrei con tanta donna a paro?

V

Io assimiglio il mio signor al cielo
meco sovente. Il suo bel viso è ’l sole;
gli occhi, le stelle, e ’l suon de le parole
è l’armonia, che fa ’l signor di Delo.

Le tempeste, le piogge, i tuoni e ’l gelo
son i suoi sdegni, quando irar si suole;
le bonacce e ’l sereno è quando vuole
squarciar de l’ire sue benigno il velo.

La primavera e ’l germogliar de’ fiori
è quando ei fa fiorir la mia speranza,
promettendo tenermi in questo stato.

L’orrido verno è poi, quando cangiato
minaccia di mutar pensieri e stanza,
spogliata me de’ miei più ricchi onori.

X
Alto colle, gradito e grazioso,
novo Parnaso mio, novo Elicona,
ove poggiando attendo la corona,
de le fatiche mie dolce riposo:

quanto sei qui tra noi chiaro e famoso,
e quanto sei a Rodano e a Garona,
a dir in rime alto disio mi sprona,
ma l’opra è tal, che cominciar non oso.

Anzi quanto averrà che mai ne canti,
fia pura ombra del ver, perciò che ’l vero
va di lungo il mio stil e l’altrui innanti.

Le tue frondi e ’l tuo giogo verdi e ’ntero
conservi ’l cielo, albergo degli amanti.
colle gentil, dignissimo d’impero.

Torquato Tasso(da rime e un estratto dalla gerusalemme liberata)
II
Era de l'età mia nel lieto Aprile,
e per vaghezza l'alma giovinetta
già ricercando di beltà ch'alletta
di piacere in piacer spirto gentile,

quando m'apparve Donna assai simìle
ne la voce e nel volto ad Angioletta:
l'ale non havea già ma quasi eletta
sembrò per darle al mio leggiadro stile.

Miracol' novo, ella a' miei versi et io
impennava al suo nome altere piume
e l'un per l'altro andò volando a prova.

Questa fu qella il cui soave lume
di pianger solo e di cantar' mi giova,
e i primi amori sparge un dolce oblio.
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Io non posso gioire
lunge da voi che sete il mio desire
ma 'l mio pensier' fallace
passa monti e campane e mari e fiumi;
e m'avicina e sface
e 'l languìr sì mi piace
ch'infinito diletto ho nel martire.

(da gerusalemme)
Deh mira- egli cantò- spuntar' la rosa
dal verde suo modesta e verginella,
che mezzo aperta ancora e mezzo ascosa,
quanto si mostra men, tanto è più bella.
Ecco poi nudo il sen già baldanzosa
dispiega; ecco poi langue e non par quella,
quella non par' che desiata inanti
fu da mille donzelle e mille amanti

Così trapassa al trapassar' d'un giorno
de la vita mortale il fiore e 'l verde;
nè perchè faccia indietro april' ritorno,
si rinfiora ella mai, nè si reinverde.
Cogliam'la rosa in su 'l mattino adorno
di questo dì, che tosto il seren' perde;
cogliam' d'amor la rosa: amiamo or quando
esser si puote riamato amando.

Michelangelo Buonarroti(rime)

Quanto si gode, lieta e ben contesta
di fior sopra ' crin d'or d'una ,grillanda,
che l'altro innanzi l'uno all'altro manda
come ch'l primo sia a baciar' la testa!

Contenta è tutto il giorno quella vesta
che serra 'l petto e poi par che si spanda
e quel c'oro filato si domanda
le quanci' e 'l collo di toccar non resta.

Ma più lieto quel nastro par che goda,
dorato in punta, con sì fatte tempre
che preme e tocca il petto ch'egli allaccia.

E la schietta che s'annoda
mi par dir seco: qui vo' stringer sempre
or che farebbon dunche le mie braccia?

Giovan Battista Marino (Amori)

Ardi contento e taci,
o di secreto amore
secretario mio core.
E voi sospiri, testimoni ascosi
5de’ miei furti amorosi,
che per uscire ador ador m’aprite
le labra, ah non uscite,
ch’ai saggi, oimè, del’amorosa scola
il sospiro è parola.
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Donna, siam rei di morte. Errasti, errai;
di perdon non son degni i nostri errori.
Tu, ch’aventasti in me sì fieri ardori;
io, che le fiamme a sì bel sol furai.

Io, ch’una fera rigida adorai;
tu, che fosti sord’aspe a’ miei dolori.
Tu nel’ire ostinata, io negli amori.
Tu pur troppo sdegnasti, io troppo amai.

Or la pena, laggiù nel cieco Averno,
pari al fallo n’aspetta. Arderà poi
chi visse in foco, in vivo foco eterno.

Quivi (s’Amor fia giusto) amboduo noi
al’incendio dannati, avrem l’inferno:
tu nel mio core, ed io negli occhi tuoi.
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Le carte, in ch’io primier scrissi e mostrai
l’arte del ben baciar, Lilla mi chiedi.
Ma di tanti, che loro io già ne diedi,
tu crudel pur un solo a me non dai.

Deh, perché quei che’n lor baci stampai,
stampar nel volto tuo non mi concedi?
E quel piacer, che tu con gli occhi vedi,
con la bocca sentire a me non fai?

Saprai qual sia maggior de’ duo diletti,
s’io di questi o di quei sia miglior fabro,
e quai più dolci sien, gustati o letti.

lo volentier con porpora e cinabro
cangio un vil don, se tu cangiar prometti
baci per versi e con un libro un labro.
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Parini(odi)
Le nozze

E pur dolce in su i begli anni
De la calda età novella
Lo sposar vaga donzella,
Che d’amor già ne ferì.

In quel giorno i primi affanni
Ci ritornano al pensiere:
E maggior nasce il piacere
Da la pena che fuggì.

Quando il sole in mar declina
Palpitare il cor si sente:
Gran tumulto è ne la mente:
Gran desìo ne gli occhi appar.

Quando sorge la mattina
A destar l’aura amorosa,
Il bel volto de la sposa
Si comincia a contemplar.

Bel vederla in su le piume
Riposarsi al nostro fianco,
L’un de’ bracci nudo e bianco
Distendendo in sul guancial:

E il bel crine oltra il costume
Scorrer libero e negletto;
E velarle il giovin petto,
Ch’or discende or alto sal.

Bel veder de le due gote
Sul vivissimo colore
Splender limpido madore,
Onde il sonno le spruzzò:

Come rose ancora ignote
Sovra cui minuta cada
La freschissima rugiada,
Che l’aurora distillò.

Bel vederla all’improvviso
I bei lumi aprire al giorno;
E cercar lo sposo intorno,
Di trovarlo incerta ancor:

E poi schiudere il sorriso
E le molli parolette
Fra le grazie ingenue e schiette
De la brama e del pudor.

O Garzone amabil figlio
Di famosi e grandi eroi,
Sul fiorir de gli anni tuoi
Questa sorte a te verrà.

Tu domane aprendo il ciglio
Mirerai fra i lieti lari
Un tesor, che non ha pari
E di grazia e di beltà.

Ma oimè come fugace
Se ne va l’età più fresca,
E con lei quel che ne adesca
Fior sì tenero e gentil!

Come presto a quel che piace
L’uso toglie il pregio e il vanto;
E dileguasi l’incanto
De la voglia giovanil!

Te beato in fra gli amanti,
Che vedrai fra i lieti lari
Un tesor, che non ha pari
Di bellezza e di virtù!

La virtù guida costanti
A la tomba i casti amori,
Poi che il tempo invola i fiori
De la cara gioventù.


Ugo Foscolo(sonetti, di cui uno postumo)

Non son chi fui; perì di noi gran parte:
questo che avvanza è sol languore e pianto.
E secco è il mirto, e son le foglie sparte
del lauro, speme al giovenil mio canto.

Perché dal dì ch’empia licenza e Marte
vestivan me del lor sanguineo manto,
cieca è la mente e guasto il core, ed arte
la fame d’oro, arte è in me fatta, e vanto.

Che se pur sorge di morir consiglio,
a mia fiera ragion chiudon le porte
furor di gloria, e carit à di figlio.

Tal di me schiavo, e d’altri, e della sorte,
conosco il meglio ed al peggior mi appiglio,
e so invocare e non darmi la morte.
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Vigile è il cor sul mio sdegnoso aspetto,
E qual tu il pingi, Artefice elegante,
Dal dl ch'io vidi nel mio patrio tetto
Libertà con incerte orme vagante.

Armi vaneggio, e il docile intelletto
Contesi alle febee Vergini sante;
Armi, armi grido; e Libertade affretto
Più ognor deluso e pertinace amante.

Voce inerme che può? Marte raccende,
Vedilo, all'opre e a sacra ira le genti:
Siede Italia, e al flagel l'omero tende.

Pur, se nell'onta della Patria assorte
Fien mie speranze, e i dì taciti e spenti,
Per te il mio volto almen vince la morte.
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Meritamente, però ch’io potei
abbandonarti, or grido alle frementi
onde che batton l’alpi, e i pianti miei
sperdono sordi del Tirreno i venti.

Sperai, poiché mi han tratto uomini e Dei
in lungo esilio fra spergiure genti
dal bel paese ove meni sì rei,
me sospirando, i tuoi giorni fiorenti,

sperai che il tempo, e i duri casi, e queste
rupi ch’io varco anelando, e le eterne
ov’io qual fiera dormo atre foreste,

sarien ristoro al mio cor sanguinente;
ahi vota speme! Amor fra l’ombre e inferne
seguirammi immortale, onnipotente.