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Mia madre di Raffaele Dibiasi

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    00 08/01/2006 20:31


    Mia madre
    racconto di Raffaele Dibiasi


    Come tutte le mattine, il gallo lanciò il suo gioioso canto alla vita, annunciò la nascita del sole e svegliò le creature della terra.

    Il mio paese, così, si liberava dal torpore della notte e dal suo silenzio. Il canto svegliò anche me.
    I miei occhi si muovevano nella loro orbita naturale, vagavano nel buio della cavità rincorrendo piccoli flash di luce; sembravano lucenti code di stelle polari.

    Ero ancora immerso nel firmamento dei sogni, si diradava il buio della notte donando ai miei occhi la luce del nuovo giorno.
    Mia madre era già sveglia da un po', l'osservavo camminare immersa nella penombra della stanza, come se cercasse qualcosa, percepivo i suoi spostamenti, e, il suo passare e ripassare agitava l’aria, che, leggera, sfiorava il mio viso.
    Seguivo i suoi passi, e notai che, non c'era nulla nella stanza che potesse servirle, nulla che potesse attirare la sua attenzione, che potesse giustificare il suo cercare.
    Mi chiesi cosa cercasse davvero: Forse la sua vita? Oppure, i suoi occhi, smarriti nei meandri di una malinconia forzata?
    Ero ancora piccolo per comprendere tali atteggiamenti, non riuscivo a penetrare i suoi pensieri, ed io, inconsapevole, vivevo con lei la sua tristezza.
    Continuavo a guardare i suoi movimenti, e il mio cuore palpitava, sembravano colpi di martello; picchiavano l’incudine su cui giaceva la mia anima, pronta ad essere forgiata nei sentimenti.
    Pensierosa, occhi trasognati, viso segnato da lievi solchi di sofferenza, trascorreva in silenzio il suo giovane tempo guardandolo scorrere lentamente, come acqua di ruscello.
    Una vita, la sua, fatto di sacrifici ed attese estenuanti, di un lento passare dei giorni in una perfetta e riuscita operazione di clonazione naturale, ogni attimo era identico all’altro.
    Aspettava mio padre, era emigrato, veniva in paese poche volte l’anno, quelle poche volte, non erano sufficienti a rendere un quadro famigliare concreto.
    Mio padre mi era estraneo, quelle poche volte che tornava a casa avevo voglia di raccontargli le mie piccole storie, i miei problemi, i miei futuri progetti , ma, rimanevo in silenzio ascoltando il suo.
    Perciò, di lui, non ho ricordi emozionanti da considerare, non una carezza rassicurante, non una parola di conforto, nulla di ciò che, normalmente, è alla base di una crescita serena.

    Di silenzi ne ascoltai, e ne ascolterò ancora, ci saranno anche i miei, ma penso siano diversi, direi, riflessioni.
    In alcuni periodi dell’anno lei partiva, raggiungeva mio padre per trascorrere qualche giorno insieme, il suo ritorno era sempre uguale, viso disteso, radioso, pieno di luce, dopo qualche giorno ricadeva nella malinconia, e nel mare profondo della solitudine.
    Era una donna dolce e premurosa, tutte le mattine la vedevo avvicinarsi al letto, si chinava, e mi sfiorava la fronte con la mano, poi, baciandola lievemente diceva: Svegliati, tra non molto la campana della torre annuncerà l'ingresso a scuola, non voglio tu faccia tardi.
    Tardavo sempre un po' ad alzarmi dal letto, mi piaceva il suo tepore, mentre aspettavo l'ultima chiamata di mia madre, ascoltavo le voci che incrociavano le strade del paese.

    I contadini erano già tutti svegli, in lontananza udivo lo scalpitio tipico di zoccoli ferrati, era un asino, il suo raglio, contestava il duro incitamento dell'uomo affinché camminasse lesto.
    Udivo i soliti saluti mattutini misti al vocio di giovani donne, che, allegramente, si preparavano ad affrontare il duro lavoro dei campi.
    Davanti a casa, nel largo piazzale, un gruppetto di galline razzolava raspando il terreno, la loro scattante testolina, ornata da un capellino rosso seghettato, andava alla ricerca di piccoli semi sparsi sul terreno.
    Saltellavano come ballerine, in fila indiana giravano attorno ad una piccola collinetta di terra, e sembrava cadenzassero una vecchia danza indigena, come se volessero propiziarsi i favori del sole nascente.
    Passi leggeri e frettolosi risalivano i piccoli viottoli del paese, i quali, intersecavano il viale principale che sbucava sulla grande piazza, erano i lavoratori giornalieri, aspettavano la chiamata dei grandi proprietari terrieri.
    L'eco dei loro passi si confondeva con lo schiamazzo delle rondini, il cinguettio gioioso degli uccelli e lo strepitare dei bambini, mentre l’aria, poco alla volta, si riempiva dei profumi delicati del mattino.
    Tutto si muoveva in uno scenario naturale, che, per secoli, si ripeteva ad ogni risveglio, sempre uguale, ma con sfumature diverse, appena percepibili.
    Fatto colazione, prendevo la mia cartella di cartone pressato colore rossiccio, controllavo il contenuto, compreso i miei quaderni neri col bordo rosso, e uscivo di casa: Sull’uscio tiravo un lungo respiro.

    M'incamminavo verso la scuola, l’aria fresca del mattino penetrava nei miei polmoni dandomi un senso di ebbrezza, procedevo inoltrandomi in un mondo fatto di coloriti scenari mattutini ed eterni silenzi serali.
    Era il mio mondo, un mondo contenuto in lunghe scampagnate con gli amici, gioiosi raduni serali, e svaghi nella grande piazza del paese fino a notte inoltrata, inventando i giochi più strani.
    Ma era fatto anche di noiose giornate, dove, solo la fervida inventiva di noi ragazzi riusciva ad attenuarne la noia, e renderle ugualmente interessanti.
    Il paese pulsava con lieve aritmia, il tempo scandiva bene i suoi minuti, le sue ore, al tramonto, quel gioioso vocio del mattino non era lo stesso, era appena accennato, quasi un lamento.

    La gente, stanca, tornava a casa dal faticoso lavoro dei campi, e si apprestava al meritato riposo, mentre, il crepuscolo, preparava il letto ad un giorno stanco ed assonnato.
    Al tramonto osservavo i raggi del sole giocare con leggeri strati di nuvole concitate, si rincorrevano all’orizzonte, nel toccarle si tingevano di rosso, innescando una meravigliosa gamma di colori che abbellivano le ultime ore del giorno, un giorno che tra un po' sarebbe andato via.

    Scenari di un dì giunto al finito, lentamente, come ogni sera, gli ultimi raggi del sole si nascondevano dietro il monte Vulture, lasciando il posto alle ombre serali.
    Le sfumature di grigio man mano avvolgevano le abitazioni, e tra i viottoli si spegneva la poca luce che ancora vi penetrava, scurendo muri vecchi e ruvidi sbiaditi dal tempo: Intanto, la notte iniziava a vivere quegli spazi.
    Sui muri, corrosi dalle intemperie e denudati dallo strato di sabbia gialla, grossi ciuffi d’erba crescevano tra una pietra e l’altra, le loro radici penetravano nelle piccole fessure della muratura, unico luogo dove attingere la loro linfa vitale.
    I ciuffi di fili verdi si animavano appena mossi dal vento, nell’oscurità, apparivano come grossi ragni che risalivano quelle pareti scalcinate: Sembrava cercassero la strada per raggiungere un'inesistente preda.
    Le strade, che, poco prima erano piene di vita, ad un tratto si trasformano in deserte e silenziose, abitate da ombre misteriose ed esseri invisibili, il vento, costante e fastidioso, gli prestava la sua voce sibillina.
    Lo spostamento dell'aria metteva in oscillazione i piccoli faretti appesi tra un muro e l'altro delle abitazioni, e il loro movimento creava sagome di corpi fantastici, sembrava giocassero.

    Vedevo scorazzare le ombre tra i viottoli e le strade lastricate di basalto, le percorrevano giocose fino alle prime luci dell’alba, poi, assorbite dalla luce mattutina si dissolvevano nel nulla.
    Nel mio immaginario tale visione spaventava, ricordo che, quando camminavo tra quei viottoli stretti e scoscesi li percorrevo con passo accelerato, arrivavo a casa con il cuore in gola, quasi senza respiro.
    A sera inoltrata, mia madre si fermava in cucina, sedeva vicino al tavolo posto al centro della stanza, io andavo a letto, ma non dormivo, attraverso la porta socchiusa mi piaceva guardarla alla luce della candela, una fioca luce tremolante e biancastra che le illuminava il giovane volto.

    Rammendava con pazienza le poche cose che possedevamo, fatte di cose essenziali, poi le rimetteva con cura nel guardaroba.
    Ogni tanto alzava gli occhi dal rammendo e li vedevo perdersi nel vuoto, i suoi occhi: Due gocce limpide come acqua di sorgente, illuminati dalla fioca luce, luccicavano come cristalli.
    Sapevo quali erano i suoi pensieri, e, per essi, angoscia e solitudine l’assalivano nel silenzio della notte.

    Quando tutti dormivano, lei era lì, pensierosa, circondata da quella poca luce che, avvolgendola, formava un alone attorno al suo piccolo corpo, delimitando i suoi esili lineamenti.
    Ascoltava la voce della notte, forse aspettava che le raccontasse il suo futuro, che desse una risposta ai suoi pensieri più intimi.

    Attendeva così il nuovo giorno, chiedendosi infine: Quale altra malinconia le era stata riservata?
    La notte si preparava ad avvolgerle l’anima, e, dopo un'incessante pioggia di pensieri, il suo mondo crollava nel sonno, un mondo sovrastato da un arcobaleno incolore.
    Il mio ricordo percorre quelle notti silenziose, percepivo ogni suo piccolo sospiro, ogni suo movimento, era difficile addormentarsi e non ascoltare: Aspettavo con ansia che i miei sensi si assopissero.
    Nel sonno, sognai di portarla in un luogo dove la solitudine non è il seme della vita, e la tristezza, non è il suo frutto.

    Oh! se potessi tornare indietro nel tempo e dirle: Quanto ho amato i tuoi occhi profondi e luminosi.



    Dibiasi
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    [Modificato da Cobite 12/01/2006 18.15]

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    debona
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    00 09/01/2006 20:53
    Penso che tu sia stata molto fortunata non solo per avere una mamma cosi' coraggiosa, ma anche per avere vissuto in un paese e conosciuto il calore che le cose piu' semplici sanno dare. Il tuo racconto e' dolcissimo e cosi' il ritratto che fai di tua mamma.. sono sicura che ne sara' (o sarebbe) molto orgogliosa.
    Grazie di avere diviso con noi questi momenti [SM=x142922]