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LA GANG DEI SELVAGGI
(da "La saga di John Selvaggio)



Eravamo un bel gruppo, all’epoca.
La cilindrata più bassa si aggirava sul 750 e quando capitava di muoversi assieme, al nostro passaggio tremavano i muri delle case e si alzavano le gonne delle ragazze: eh, se ne abbiamo spolverate di mutande in quei giorni!
Il vecchio Testadpéijer quando sentiva da lontano il rombo di tuono delle nostre moto, usciva di casa e si appostava in piazza, aggrappato a un lampione, passandosi la lingua sul labbro superiore. Andavamo alla Birreria del Bragamòla, a tenere riunione: Io proponevo le idee, gli itinerari e i passatempi del periodo, Pertüga, Cimbelìn, Fiacamùnd e Scopasassi li discutevano, Ramìn scriveva il verbale, Barbìs taceva tutto il tempo facendo sì con la testa e Pierpansùn scatarrava sul pavimento.
A un certo punto Scopasassi urlava a Pierpansùn che se non la piantava lì di scraciare per terra gli avrebbe spento la cicca sul muso, e allora Pierpansùn tirava due tre “vacagàmerda!”, cambiava posto e cominciava a sputare contro il muro. In genere la serata finiva con l’idea di fare una gara a cronometro su un tratto di autostrada, da casello a casello: di solito il premio per il vincitore era un pompino fatto dalla sorella del Bragamòla, che si toglieva la dentiera prima di procedere alla premiazione.
Fu lì, in quell’atmosfera, tra le scatarrate di Pierpansùn, le scoregge di Pertüga e la birra che scorreva a fiumi, che prese corpo l’idea di metter su una fabbrica di gondoni. Qualche anno dopo scoppiò la storia dell’aids, e fu così che facemmo i soldi a palate.
Guarda te, cosa vuol dire il culo.