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FIORI DI PENSIERO: poesie, racconti, riflessioni... Fiori di Pensiero è nato per permettere agli autori dilettanti di pubblicare le loro emozioni principalmente con la parola scritta, ma anche con immagini e suoni, usando il supporto più moderna che esista: Internet. La poesia è la principale rubrica del forum, ma trovano posto adeguato anche racconti, pensieri, riflessioni, dediche, lettere e tutto ciò che il cuore può dettare ed il pensiero esprimere.

MEE-MERR Madre di Tutti.

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  • Violadaprile
    00 19/02/2015 06:46
    MEE-MERR Madre di Tutti.


    Rada era una gatta selvaggia venuta dal bosco. Il pelo lucido e nero brillava di riflessi azzurri. Spinta dall’inverno feroce che le aveva tolto ogni possibilità di caccia, era scesa verso le case, annusando nell’aria aromi nuovi. Aveva attraversato il margine del bosco con cautela, avventurandosi nella distesa giallastra del prato invernale, attenta a ogni movimento. Più volte si era fermata, le orecchie tese e il muso puntato verso l’alto per cogliere ogni pista sottile, ogni lieve traccia. L’istinto le diceva di tornare, ogni suo pelo la implorava di invertire il cammino. Ma lo stomaco stretto dalla fame era un dittatore potente e le imponeva di proseguire, sempre più avanti, per sopravvivere. Intanto la paura l’attanagliava: tutti gli esseri selvaggi sono un misto di paura e coraggio, ugualmente infiniti. Procedeva tenendo la schiena abbassata, zigzagando da un’ombra all’altra, da un riparo all’altro, cercando nascondigli fra i nascondigli, terrorizzata e determinata. In alto l’occhio bianco di Mee-Merr Madre di Tutti le illuminava la strada.

    Era cresciuta nel bosco, nell’incavo di un ceppo morto. Madre l’aveva scaldata e nutrita, nella primavera precedente, e le aveva insegnato i rudimenti della caccia. Poi era scomparsa, seguendo il filo sottile della sua vita selvaggia. Ma aveva già compiuto interamente il suo dovere di Madre Gatta, Rada e la sorella Imatze erano già grandi abbastanza. Lei e la sorella avevano giocato a lungo, nel bosco improvvisamente più vuoto, in una libertà che ancora non conoscevano. Avevano giocato fra le foglie del sottobosco con i piccoli insetti volanti e con i fili d’erba mossa nell’aria tiepida. Avevano giocato con grandi coni di terra bruciata brulicanti di cosini neri che avevano morso loro il naso.
    Poi a poco a poco il gioco si era fatto duro, la necessità le aveva spinte alla caccia vera, il gioco si era trasformato nella quotidiana lotta per l’esistenza.
    La sorella era scomparsa un giorno, all’improvviso. Rada aveva visto l’ombra terribile dell’ala del falco e si era rifugiata sotto un ramo basso, erano ancora troppo piccole per combattere. Quando ne era uscita, Imatze non c’era più, nulla si vedeva intorno se non qualche ramo spezzato e un po’ di erba scomposta al centro della radura. Rada aveva proseguito la sua vita randagia, inseguendo farfalle, dormendo nei tronchi cavi, nutrendosi di grilli e di piccole cose pelose e lasciando arroventare nel sole delle radure il suo corto pelo nero.
    Quel giorno era diverso. La neve aveva coperto ogni cosa, i piccoli insetti e le cosine pelose dormivano sotto terra in attesa di un clima più mite. La fame la stava prosciugando, come un sacchetto d’ossa che si svuota, doveva andare, doveva cercare. Ed ora, in mezzo alle prime case, si aggirava guardinga cercando la fonte degli odori.

    Se l’era trovato davanti all’improvviso, solo la fame poteva averle tolto la sensibilità, la prudenza e l’attenzione. Se l’era trovato davanti, enorme e urlante, con gli occhi infuocati e le fauci spalancate, colme di orribili zanne brancolanti nel buio, annaspanti nel vuoto a pochi centimetri da lei. Il panico l’aveva travolta ed era schizzata via, accecata dal terrore, lontano da quel frastuono mortale, da quella voragine sanguigna pronta a spezzarla. E si era ritrovata poco più in là, aggrovigliata in un ammasso di fili spinosi che le strappavano il pelo e le laceravano la pelle. L’enorme Ringhiante, svegliato dal suo sonno leggero, continuava a latrare furiosamente, facendo battere all’impazzata il piccolo cuore di Rada. Ma troppo tardi aveva capito che era legato. L’empito della fuga l’aveva scagliata in quell’intrico ferroso con uno slancio tale che ormai non trovava più il modo di liberarsi, più si agitava e più si feriva, più si dibatteva e più si trovava strettamente aggrovigliata. Finché giacque, semisvenuta, in quel letto di spine, stroncata dal dolore, dalla debolezza e dallo spavento.


    Se non fosse stata così sfinita si sarebbe accorta dell’Eretto. Avrebbe combattuto, lottato con tutte le sue forze fino a perdere la vita. Ma stremata com’era non percepiva quasi nulla. L’Eretto la liberò con delicatezza dal filo spinato, la portò sotto il portico, la mise in una cesta con una coperta calda, medicò le ferite e le lasciò un po’ di latte in un piattino. Indebolita dalla fame e dalle ferite, Rada si lasciò curare e cullare e a poco a poco si abituò a lui. L’Eretto aveva mani grandi e forti, ma delicate, la medicava e le dava da mangiare. Rada gli fu grata delle cure, gli fu grata di non averla costretta nei limiti dei muri, riconoscente e cauta, talvolta gli carezzava la mano con la sua schiena arcuata. Quando l’Eretto arrivava con la ciotola, talvolta gli carezzava il bordo dei pantaloni strofinando delicatamente sulle sue gambe il muso appuntito e muschiato.

    Di giorno molti Eretti si affaccendavano intorno, grandi cataste di legna venivano spostate, tagliate e riordinate, congegni ferrosi cigolavano, sibilavano, stridevano in continuazione. Il Ringhiante sonnecchiava, innocuo e stolto, legato alla catena. La sera l’Eretto veniva con la ciotola e rinnovava le medicazioni. Le ferite si stavano chiudendo e la fame non si faceva più sentire.
    Un giorno l’Eretto prese Rada fra le braccia e la pose in un cesto, la portò nella sua casa, nella città. Rada tremava per i rumori sconosciuti, ma il latte era caldo e buono e la mano dell’Eretto l’aveva curata con amore. Rada lasciò fare.
    -Ho un figlio che ha bisogno di te-, disse lui, e la depositò in una grande stanza fumosa, dove un ragazzetto rannicchiato in una poltrona a fiori sembrava dormire quietamente. Rada non aveva mai visto un Eretto così piccolo, ma sempre enorme rispetto a lei, e sconosciuto. Si guardò intorno, vie di fuga non ce n’erano, allora attese, tremando piano, nel suo angolo.

    Il ragazzo si svegliò e vide la gatta nera, gli occhi gialli sgranati su di lui da sotto il tavolo, le pupille dilatate dalla paura e dalla penombra.
    -Come sei bella!- le disse piano e sorrise, un sorriso triste e delicato. Allungò una mano e Gatta sentì uno strano sottile odore di terre e di erbe, simile a quello che proveniva dal vicino tavolino pieno di boccette. Si lasciò carezzare e di colpo ripensò al bosco, al fruscio delle foglie e al profumo della terra umida sotto il muschio. Il ragazzo aveva qualcosa di tutto questo, Gatta lo amò dal primo istante, e fu sua. Tommaso non fu mai un Eretto, Tommaso fu sempre solo Tommaso.


    Ma era malato, il ragazzo, uno strano male lo accompagnava e lo consumava piano piano, dall’interno, fra la costernazione dei dottori e la disperazione dell’Eretto che Gatta aveva saputo chiamarsi Padre. Spesso soffriva, raramente aveva la forza di levarsi dal letto. Febbricciattole insidiose lo minavano continuamente, aveva dolori alle gambe, alle braccia, e una debolezza invincibile che gli impediva qualunque gioco, qualunque vita. Il corpicino magro e pallido, Tom giaceva spesso nel grande letto, che Padre gli aveva ceduto, dopo che erano rimasti soli per sempre, perché fosse meglio sistemato, tenendo per sè il divano del salotto. I medici erano impotenti e scuotevano il capo, prescrivendo talvolta un rimedio, talaltra una compressa, il tavolino si andava sempre più riempiendo di inutili boccette. Padre aveva sempre uno sguardo triste.

    Gatta aveva capito, nel piccolo corpo peloso aveva un cuore grande. In quella città fumosa, in quella casa grigia e triste anche lei si sentiva deperire, nonostante il buon cibo e le cure. Il bosco le mancava sempre più. Cominciò e dimagrire e il pelo perse gran parte della sua lucentezza. Passava lunghe ore accanto a Tom, nel letto ai suoi piedi o rannicchiata di fianco a lui nella poltrona, mentre lui sonnecchiava o le parlava piano carezzandola fra le orecchie. Fra loro era nato un linguaggio segreto, fatto di sguardi, di ammiccamenti, di impercettibili suoni leggeri. Entrambi si stavano consumando e nulla riusciva a guarirli.

    Ma Gatta sapeva e a volte agitava la lunga coda sottile in segno di richiamo, e volgeva il muso verso la porta.
    -Non possiamo, Gatta-, diceva il ragazzo allora, -non ho forza abbastanza, sono pieno di dolori, ma dove vorresti andare? Non vedi come sono debole? Non posso venire nel bosco con te-.
    -Certo che puoi-, diceva Gatta col suo sguardo muto, -vieni con me, ti insegnerò la voce della foresta e il cielo pieno di volatori sfreccianti e il fruscio del muschio brulicante di profumi e di grilli. Se vieni ti insegnerò a cacciare, come ha fatto Madre Gatta con me. Ti porterò al piede del ruscello dove saltano le idromitre e guizzano pesciolini grandi come la punta del mio baffo. Vieni, vieni Tommaso, là c’è la mia vita e là anche tu risorgerai-.


    Il dialogo muto si protraeva da tempo, Mee-Merr aveva aperto e richiuso il suo bianco occhio molte volte, e Gatta, sempre più debole al pari di Tom, guardava il cielo attraverso scatole di vetro, guardava le nuvole scomparire nel cielo grigio, inghiottite da altre nuvole grigie, e nel corso del cielo vedeva il tempo passare inutilmente. La casa era fumosa ma calda, gli Eretti erano gentili, lei era ben nutrita e comoda. Ciononostante continuava a dimagrire, pareva che avesse assorbito qualcosa del male di Tom, soffriva con lui e si sentiva sempre più debole.
    -Andiamo, Tommaso-, implorava con occhi muti. -Non senti la voce del vento che chiama? Ecco questo è il profumo dei crochi che stanno crescendo ancora sotto terra, questo è l’odore dell’aria cristallina nel giovane sole che sfida l’ultima neve, questo è il suono tintinnante delle campanule che iniziano ad aprirsi. Non senti, Tommaso, il richiamo del legno vecchio, che scricchiola sotto il peso dei funghi e dei muschi, rivelando nelle nuove spaccature nidi e nidi di corridori a mille zampe e di masticatori dalle grandi corna e di termiti bianche, che vivono nelle oscurità muschiose? ...-.

    Finalmente la primavera venne. Il corpo non lo reggeva ma il cuore di Tommaso cominciava a correre con Gatta.
    -Padre-, disse un giorno il ragazzo all’Eretto, -vorrei andare alla segheria, vorrei restare qualche tempo col nonno, davvero credo che mi farebbe bene-.
    Nonno abitava vicino alla fabbrica ai piedi del bosco dove Gatta era stata raccolta, nella vecchia casa della famiglia. Padre esitava.
    -Starò attento-, diceva Tommaso, -non prenderò freddo, porterò tutte le medicine ...-.
    Ma la primavera aveva ripulito i pensieri e i sogni. Così andarono. Padre aveva l’aria preoccupata, ma era anche contento che il ragazzo desiderasse qualcosa, mise Gatta nel cesto e li accompagnò. -Ci vedremo ogni giorno-, disse Padre, -passerò dopo il lavoro e ci racconteremo la nostra giornata-.


    Nonno fumava una pipa quasi sempre spenta e sbucciava castagne o piselli novelli, secondo la stagione, seduto a un capo del tavolo di legno nella cucina. A volte raccontava di tempi lontani, ma per lo più si immergeva solitario e zitto abbandonandosi alla memoria. Aveva il suo piccolo orto dietro la casa che coltivava con amore, raccogliendo i frutti della terra e preparando squisite zuppe e piatti complicati che Nonna Nina gli aveva un tempo insegnato. Ogni anno un’aiola era tenuta a fiori.
    -Per Nonna Nina-, diceva, e raccoglieva mazzi che sistemava in un vaso dorato nel centro della tavola. E non diceva altro, lo sguardo perso lontano. Tommaso passò settimane nella poltrona a fiori davanti al camino spesso acceso, godendo del tepore benefico e dell’immagine ipnotica del fuoco, assaporando le verdure dell’orto. Riprendeva pian piano le forze.


    Gatta annusava l’aria e percepiva echi lontani e noti. Rinvigorita anche lei dall’aria sottile, correva spesso alla finestra scrutando l’infittirsi del bosco.
    -Vieni, vieni Tommaso-, dicevano i suoi occhi gialli, -Ti porterò in un posto pieno di magie, ti porterò nel mio mondo, dove la Natura, e l’Occhio di Isolur grande e caldo, e Mee-Merr Madre di Tutti ci proteggeranno-.
    Tom sorrideva a quei richiami, che ormai capiva perfettamente, si formavano dritti nella sua mente come in una telescrivente.
    -Non posso, non ho forze!- rispondeva con le parole, ma in verità lontano dalle tossine dell’aria grigia che aveva respirato da sempre, immerso in quella pace agreste e quieta, in quell’aria tersa e frizzante, aveva cominciato a rifiorire. Il colorito delle guance era più acceso, i dolori meno forti. Sospettava che nelle zuppe del nonno ci fosse qualche ingrediente segreto, aveva anche chiesto. Il nonno aveva sorriso con aria misteriosa e non aveva risposto.

    Finché un giorno Rada trovò la porta e schizzò fuori dalla casa. Si lanciò nell’erba e iniziò a rotolarsi, ubriaca di profumi. Poi, dopo una selvaggia danza di gioia tribale, chiamò Tom con gli occhi e si addentrò nel bosco. Fecero pochi passi quel giorno, ma l’aria era fine e pulita e balsamica di cento essenze.
    E Rada sapeva aspettare. Il suo pelo era di nuovo nero e lucente e illuminato di riflessi cobalto. Le brevi passeggiate divennero ogni giorno più lunghe, man mano che le forze tornavano, Tom si sentiva depurato, lucido, rinnovato ogni giorno di più.

    Finché, addentrandosi, arrivarono un giorno a una piccola radura, con un ceppo cavo, qualche raggio di sole e una distesa di mirtilli. Rada prese a saltellare qua e là come un cerbiatto felice.
    -Ecco, questa è la mia casa-, disse con gli occhi fermandosi a contemplare, quando fu sazia, -qui sono cresciuta, qui ho vissuto un tempo con la mia sorellina, qui Madre Gatta ha avuto cura di me, qui ho giocato i primi giochi e cacciato le prime cacce-.
    Tommaso si guardò intorno.
    -Bella!-, disse con sincerità. -La casa che ognuno vorrebbe avere-.
    Poi guardò di nuovo l’amica, che già aveva un lampo selvaggio negli occhi.
    -Sei una creatura del bosco-, le disse serio, -qual’è il tuo nome?-
    -Rada-, rispose Rada con uno sguardo intenso.


    Ma già lui non poteva più capirla. Prepotente nel piccolo animale si stava facendo strada l’urgenza di andare, di seguire il richiamo delle mille generazioni che l’avevano preceduta e lì avevano vissuto. Padre l’aveva nutrita, Tom l’aveva cullata. Ma il suo destino e la sua strada erano lì, il ragazzo non aveva più bisogno di lei e il richiamo del suo mondo era forte come un tuono, fragoroso come un vento carico di odori antichi, la faceva vibrare tutta come una corda di violino e calamitava la sua anima ancora selvaggia.

    -Va’-, le disse Tom, -torna al tuo bosco, non ho più bisogno di te ma non ti dimenticherò mai-. E Rada scattò. Come una pallottola di pelo lucente. Ritornò indietro nel tempo immergendosi nel suo destino selvaggio, con un respiro profondo, gli occhi dilatati dall’eccitazione.
    Solo per un attimo fermò la corsa e si volse. -Io sarò sempre qui, per te- dicevano i suoi occhi gialli e Tom sorrise senza capire, solo sentendo. Rada poteva vedere le sue lunghe vibrisse bianche, che il ragazzo non sapeva di avere, e la coda invisibile che gli era spuntata vivendo con lei.
    -Ciao uomo-gatto!-, lo salutò un’ultima volta e si immerse nel sottobosco.

    Era già quasi notte. Mee-Merr Madre di Tutti già saliva nel cielo a mostrare le strade. Nell'aria profumi noti e attraenti. Profumi muschiati. Rada, già dimentica, abbassò la schiena e si dispose, aspettando, orizzontale e col muso in aria, il pelo nero e i baffi tremanti. I profumi dei maschi, degli amori e delle lotte vicine, i suoni che solo lei sentiva la prendevano tutta, la promessa di quello che doveva arrivare la faceva di nuovo vibrare come una musica nascosta.

    Protese il muso al cielo e lanciò alto il suo richiamo.



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    simonecorrieri
    Post: 188
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    Registrato il: 22/10/2014
    Sesso: Maschile
    00 21/02/2015 15:36
    Qui c'e ' il percorso naturale dell vita di tutti noi , gatti compresi.
    Quindi siamo un po' tutti gatti .

    Ti rispondo mentre la mia, mi sta facendo le fusa e vuole una carezza ,
    come lo e' in fondo , la madre di tutti ( dolce come una carezza)
    Ti aspetta per accoglierti.
    Brava .


    ...

    Simone Corrieri