FIORI DI PENSIERO: poesie, racconti, riflessioni... Fiori di Pensiero è nato per permettere agli autori dilettanti di pubblicare le loro emozioni principalmente con la parola scritta, ma anche con immagini e suoni, usando il supporto più moderna che esista: Internet. La poesia è la principale rubrica del forum, ma trovano posto adeguato anche racconti, pensieri, riflessioni, dediche, lettere e tutto ciò che il cuore può dettare ed il pensiero esprimere.

Guido Gozzano - Antologia

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    00 10/11/2012 15:11
    Posto qui le più belle poesie del grande poeta del primo Novecento Guido Gozzano prese da "La via del rifugio" e da "Colloqui", capolavori di grandissima qualità.

    La via del rifugio

    Trenta quaranta,
    tutto il Mondo canta
    canta lo gallo
    risponde la gallina...

    Socchiusi gli occhi, sto
    supino nel trifoglio,
    e vedo un quatrifoglio
    che non raccoglierò.

    Madama Colombina
    s’affaccia alla finestra
    con tre colombe in testa:
    passan tre fanti...

    Belle come la bella
    vostra mammina, come
    il vostro caro nome,
    bimbe di mia sorella!

    ...su tre cavalli bianchi:
    bianca la sella
    bianca la donzella
    bianco il palafreno...

    Ne fare il giro a tondo
    estraggono le sorti.
    (I bei capelli corti
    come caschetto biondo

    rifulgono nel sole.)
    Estraggono a chi tocca
    la sorte, in filastrocca
    segnado le parole.

    Socchiudo gli occhi, estranio
    ai casi della vita.
    Sento fra le mie dita
    la forma del mio cranio...

    Ma dunque esisto! O Strano!
    vive tra il Tutto e il Niente
    questa cosa vivente
    detta guidogozzano!

    Resupino sull’erba
    (ho detto che non voglio
    raccorti, o quatrifoglio)
    non penso a che mi serba

    la Vita. Oh la carezza
    dell’erba! Non agogno
    cha la virtù del sogno:
    l’inconsapevolezza.

    Bimbe di mia sorella,
    e voi, senza sapere
    cantate al mio piacere
    la sua favola bella.

    Sognare! Oh quella dolce
    Madama Colombina
    protesa alla finestra
    con tre colombe in testa!

    Sognare. Oh quei tre fanti
    su tre cavalli bianchi:
    bianca la sella,
    bianca la donzella!

    Chi fu l’anima sazia
    che tolse da un affresco
    o da un missale il fresco
    sogno di tanta grazia?

    A quanti bimbi morti
    passò di bocca in bocca
    la bella filastrocca
    signora delle sorti?

    Da trecent’anni, forse,
    da quattrocento e più
    si canta questo canto
    al gioco del cucù.

    Socchiusi gli occhi, sto
    supino nel trifoglio,
    e vedo un quatrifoglio
    che non raccoglierò.

    L’aruspice mi segue
    con l’occhio d’una donna...
    Ancora si prosegue
    il canto che m’assonna.

    Colomba colombita
    Madama non resiste,
    discende giù seguita
    da venti cameriste,

    fior d’aglio e fior d’aliso,
    chi tocca e chi non tocca...
    La bella filastrocca
    si spezza d’improvviso.

    "Una farfalla!" "Dài!
    Dài!" - Scendon pel sentiere
    le tre bimbe leggere
    come paggetti gai.

    Una Vanessa Io
    nera come il carbone
    aleggia in larghe rote
    sul prato solatio,

    ed ebra par che vada.
    Poi - ecco - si risolve
    e ratta sulla polvere
    si posa della strada.

    Sandra, Simona, Pina
    silenziose a lato
    mettonsile in agguato
    lungh’essa la cortina.

    Belle come la bella
    vostra mammina, come
    il vostro caro nome
    bimbe di mia sorella!

    Or la Vanessa aperta
    indugia e abbassa l’ali
    volgendo le sue frali
    piccole antenne all’erta.

    Ma prima la Simona
    avanza, ed il cappello
    toglie ed il braccio snello
    protende e la persona.

    Poi con pupille intente
    il colpo che non falla
    cala sulla farfalla
    rapidissimamente.

    "Presa!" Ecco lo squillo
    della vittoria. "Aiuto!
    È tutta di velluto:
    Oh datemi uno spillo!"

    "Che non ti sfugga, zitta!"
    S’adempie la condanna
    terribile; s’affanna
    la vittima trafitta.

    Bellissima. D’inchiostro
    l’ali, senza rintocchi,
    avvivate dagli occhi
    d’un favoloso mostro.

    "Non vuol morire!" "Lesta!
    ché soffre ed ho rimorso!
    Trapassale la testa!
    Ripungila sul dorso!"

    Non vuol morire! Oh strazio
    d’insetto! Oh mole immensa
    di dolore che addensa
    il Tempo nello Spazio!

    A che destino ignoto
    si soffre? Va dispersa
    la lacrima che versa
    l’Umanità nel vuoto?

    Colombina colombita
    Madama non resiste:
    discende giù seguita
    da venti cameriste...

    Sognare! Il sogno allenta
    la mente che prosegue:
    s’adagia nelle tregue
    l’anima sonnolenta,

    siccome quell’antico
    brahamino del Pattarsy
    che per racconsolarsi
    si fissa l’umbilico.

    Socchiudo gli occhi, estranio
    ai casi della vita;
    sento fra le mie dita
    la forma del mio cranio.

    Verrà da sé la cosa
    vera chiamata Morte:
    che giova ansimar forte
    per l’erta faticosa?

    Trenta quaranta
    tutto il Mondo canta
    canta lo gallo
    canta la gallina...

    La Vita? Un gioco affatto
    degno di vituperio,
    se si mantenga intatto
    un qualche desiderio.

    Un desiderio? sto
    supino nel trifoglio
    e vedo un quatrifoglio
    che non raccoglierò.


    ...

    "Pandite nunc Helicona, deae, cantusque movete..."
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    00 10/11/2012 15:13
    I sonetti del ritorno

    III
    O Nonno! E tu non mi perdoneresti
    ozi vani di sillabe sublimi,
    tu che amasti la scienza dei concimi
    dell’api delle viti degli innesti!

    Eppur la fonte troverò di questi
    sogni nei tuoi ammonimenti primi,
    quando, contento dei raccolti opimi,
    ti compiacevi dei tuoi libri onesti:

    il tuo Manzoni... Prati... Metastasio...
    Le sere lunghe! E quelle tue malferme
    dita sui libri che leggevi! E il tedio,

    il sonno... il Lago... Errina... ed il Parrasio...
    E in me cadeva forse il primo germe
    di questo male che non ha rimedio.

    IV
    Nonno, l’argento della tua canizie
    rifulge nella luce dei sentieri:
    passi tra i fichi, tra i susini e i peri
    con nelle mani un cesto di primizie:

    "Le piogge di Settembre già propizie
    gonfian sul ramo fichi bianchi e neri,
    susine claudie... A chi lavori e speri
    Gesù concede tutte le delizie!".

    Dopo vent’anni, oggi, nel salotto
    rivivo col profumo di mentastro
    e di cotogna tutto ciò che fu.

    Mi specchio ancora nello specchio rotto,
    rivedo i finti frutti d’alabastro...
    Ma tu sei morto e non c’è più Gesù.


    ...

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    00 10/11/2012 15:14
    La morte del cardellino

    Chi pur ieri cantava, tutto spocchia,
    e saltellava, caro a Tita, è morto.
    Tita singhiozza forte in mezzo all’orto
    e gli risponde il grillo e la ranocchia.

    La nonna s’alza e lascia la conocchia
    per consolare il nipotino smorto:
    invano! Tita, che non sa conforto,
    guarda la salma sulle sue ginocchia.

    Poi, con le mani, nella zolla rossa
    scava il sepolcro piccolo, tra un nimbo
    d’asfodeli di menta e lupinella.

    Ben io vorrei sentire sulla fossa
    della mia pace il pianto di quel bimbo.
    Piccolo morto, la tua morte è bella!


    ...

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    00 10/11/2012 15:15
    Il sogno cattivo

    Se guardo questo pettine sottile
    di tartaruga e d’oro, che affigura -
    opera egregia di cesellatura -
    un germoglio di vischio in novo stile,

    risogno un sogno atroce. Dal monile
    divampa quella gran capellatura
    vostra, fiammante nella massa oscura.
    E pur non vedo il volto giovenile.

    Solo vedo che il pettino produce
    sempre capelli biondo-bruni e scorgo
    un cielo fatto delle loro trame:

    un cielo senza vento e senza luce!
    E poi un mare... e poi cado in un gorgo
    tutto di bande di color di rame.


    ...

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    00 10/11/2012 15:16
    Nemesi

    Tempo che i sogni umani
    volgi sulla tua strada:
    la chioma che dirada,
    le case dei Titani,

    o tu che tutte fai
    vane le nostre tempre:
    e vano dire sempre
    e vano dire ’mai,

    se dunque eternamente
    tu fai lo stesso gioco
    tu sei una ben poco
    persona intelligente!

    Cangiare i monti in piani
    cangiare i piani in monti,
    deviare dalle fonti
    antiche i fiumi immani,

    cangiar la terra in mare
    e il mare in continente:
    gran cosa non mi pare
    per te, onnipossente!

    Giocare con le cellule
    al gioco dei cadaveri:
    i rospi e le libellule
    le rose ed i papaveri

    rifare a tuo capriccio:
    poi cucinare a strati
    i tuoi pasticci andati
    e il nuovo tuo pasticcio:

    ma, scusa, ci vuol poca
    intelligenza! Basta -
    di’ non ti pare? - basta
    il genio d’una cuoca.

    Bada che non ti parlo
    per acrimonia mia:
    da tempo ho ucciso il tarlo
    della malinconia.

    Inganno la tristezza
    con qualche bella favola.
    Il saggio ride. Apprezza
    le gioie della tavola

    e i libri dei poeti.
    La favola divina
    m’è come ai nervi inqueti
    un getto di morfina,

    ma il canto più divino
    sarebbe un sogno vano
    senza un torace sano
    e un ottimo intestino.

    Amo le donne un poco -
    o bei labbri vermigli! -
    Tempo, ma so il tuo gioco:
    non ti farò dei figli.

    Ah! Se noi tutti fossimo
    (Tempo, ma c’è chi crede
    di darti ancora prede!)
    d’intesa, o amato prossimo,

    a non far bimbi (i dardi
    d’amor... fasciare e i tirsi
    di gioia; - premunirsi
    coi debiti riguardi),

    certo - se un dio ci dòmini -
    n’avrebbe un po’ dispetto;
    gli uomini l’han detto:
    ma "chi" sono gli uomini?

    Chi sono? È tanto strano
    fra tante cose strambe
    un coso con due gambe
    detto guidogozzano!

    Bada che non ti parlo
    per acrimonia mia:
    da tempo ho ucciso il tarlo
    della malinconia.

    Socchiudo gli occhi, estranio
    ai casi della vita:
    sento fra le mie dita
    la forma del mio cranio.

    Rido nell’abbandono:
    o Cielo o Terra o Mare,
    comincio a dubitare
    se sono o se non sono!

    Ma ben verrà la cosa
    "vera" chiamata Morte:
    che giova ansimar forte
    per l’erta faticosa? 84

    Né voglio più, né posso.
    Più scaltro degli scaltri
    dal margine d’un fosso
    guardo passare gli altri.

    E mi fan pena tutti,
    contenti e non contenti,
    tutti pur che viventi,
    in carnevali e in lutti.

    Tempo, non entusiasma
    saper che tutto ha il dopo:
    o buffo senza scopo
    malnato protoplasma!

    E non l’Uomo Sapiente,
    solo, ma se parlassero
    la pietra, l’erba, il passero,
    sarebbero pel Niente.

    Tempo, se dalla guerra
    restassi e dall’evolvere
    in Acqua, Fuoco, Polvere
    questa misera Terra?

    E invece, o Vecchio pazzo,
    dà fine ai giochi strani!
    Sul ciel senza domani
    farem l’ultimo razzo.

    Sprofonderebbe in cenere
    il povero glomerulo
    dove tronfieggia il querulo
    sciame dell’Uman Genere.

    Cesserebbe la trista
    vicenda della vita e in sogno.
    Certo. Ma che bisogno
    c’è mai che il mondo esista?


    ...

    "Pandite nunc Helicona, deae, cantusque movete..."
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    00 10/11/2012 15:17
    I colloqui

    ...reduce dall’Amore e dalla Morte
    gli hanno mentito le due cose belle...



    I.

    Venticinqu’anni!... sono vecchio, sono
    vecchio! Passò la giovinezza prima,
    il dono mi lasciò dell’abbandono!

    Un libro di passato, ov’io reprima
    il mio singhiozzo e il pallido vestigio
    riconosca di lei, tra rima e rima.

    Venticinqu’anni! Medito il prodigio
    biblico... guardo il sole che declina
    già lentamente sul mio cielo grigio.

    Venticinqu’anni... ed ecco la trentina
    inquietante, torbida d’istinti
    moribondi... ecco poi la quarantina

    spaventosa, l’età cupa dei vinti,
    poi la vecchiezza, l’orrida vecchiezza
    dai denti finti e dai capelli tinti.

    O non assai goduta giovinezza,
    oggi ti vedo quale fosti, vedo
    il tuo sorriso, amante che s’apprezza

    solo nell’ora trista del congedo!
    Venticinqu’anni!... Come più m’avanzo
    all’altra meta, gioventù, m’avvedo

    che fosti bella come un bel romanzo!


    II.

    Ma un bel romanzo che non fu vissuto
    da me, ch’io vidi vivere da quello
    che mi seguì, dal mio fratello muto.

    Io piansi e risi per quel mio fratello
    che pianse e rise, e fu come lo spetro
    ideale di me, giovine e bello.

    A ciascun passo mi rivolsi indietro,
    curioso di lui, con occhi fissi
    spiando il suo pensiero, or gaio or tetro.

    Egli pensò le cose ch’io ridissi,
    confortò la mia pena in sé romita,
    e visse quella vita che non vissi.

    Egli ama e vive la sua dolce vita;
    non io che, solo nei miei sogni d’arte,
    narrai la bella favola compita.

    Non vissi. Muto sulle mute carte
    ritrassi lui, meravigliando spesso.
    Non vivo. Solo, gelido, in disparte,

    sorrido e guardo vivere me stesso.


    ...

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    00 10/11/2012 15:18
    Il gioco del silenzio

    Non so se veramente fu vissuto
    quel giorno della prima primavera.
    Ricordo - o sogno? - un prato di velluto,
    ricordo - o sogno? - un cielo che s’annera,
    e il tuo sgomento e i lampi e la bufera
    livida sul paese sconosciuto...

    Poi la cascina rustica sul colle
    e la corsa e le grida e la massaia
    e il rifugio notturno e l’ora folle
    e te giuliva come una crestaia,
    e l’aurora ed i canti in mezzo all’aia
    e il ritorno in un velo di corolle...

    - Parla! - Salivi per la bella strada
    primaverile, tra pescheti rosa,
    mandorli bianchi, molli di rugiada...
    - Parla! - Tacevi, rigida pensosa
    della cosa carpita, della cosa
    che accade e non si sa mai come accada...

    - Parla! - seguivo l’odorosa traccia
    della tua gonna... Tutto rivedo
    quel tuo sottile corpo di cinedo,
    quella tua muta corrugata faccia
    che par sogni l’inganno od il congedo
    e che piacere a me par che le spiaccia...

    E ancor mi negasti la tua voce
    in treno. Supplicai, chino rimasi
    su te, nel rombo ritmico e veloce...
    Ti scossi, ti parlai con rudi frasi,
    ti feci male, ti percossi quasi,
    e ancora mi negasti la tua voce.

    Giocosa amica, il Tempo vola, invola
    ogni promessa. Dissipò coi baci
    le tue parole tenere fugaci...
    Non quel silenzio. Nel ricordo, sola
    restò la bocca che non diè parola,
    la bocca che tacendo disse: Taci!...


    ...

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    00 10/11/2012 15:19
    Invernale

    "...cri...i...i...i...icch..." l’incrinatura
    il ghiaccio rabescò, stridula e viva.
    "A riva!" Ognuno guadagnò la riva
    disertando la crosta malsicura.
    "A riva! A riva!..." Un soffio di paura
    disperse la brigata fuggitiva.

    "Resta!" Ella chiuse il mio braccio conserto,
    le sue dita intrecciò, vivi legami,
    alle mie dita. "Resta, se tu m’ami!"
    E sullo specchio subdolo e deserto
    soli restammo, in largo volo aperto,
    ebbri d’immensità, sordi ai richiami.

    Fatto lieve così come uno spetro,
    senza passato più, senza ricordo,
    m’abbandonai con lei, nel folle accordo,
    di larghe rote disegnando il vetro.
    Dall’orlo il ghiaccio fece cricch, più tetro...
    dall’orlo il ghiaccio fece cricch, più sordo...

    Rabbrividii così, come chi ascolti
    lo stridulo sogghigno della Morte,
    e mi chinai, con le pupille assorte,
    e trasparire vidi i nostri volti
    già risupini lividi sepolti...
    Dall’orlo il ghiaccio fece cricch, più forte...

    Oh! Come, come, a quelle dita avvinto,
    rimpiansi il mondo e la mia dolce vita!
    O voce imperiosa dell’istinto!
    O voluttà di vivere infinita!
    Le dita liberai da quelle dita,
    e guadagnai la ripa, ansante, vinto...

    Ella solo restò, sorda al suo nome,
    rotando a lungo, nel suo regno solo.
    Le piacque, alfine, ritoccare il suolo;
    e ridendo approdò, sfatta le chiome,
    e bella ardita palpitante come
    la procellaria che raccoglie il volo.

    Non curante l’affanno e le riprese
    dello stuolo gaietto femminile,
    mi cercò, mi raggiunse tra le file
    degli amici con ridere cortese:
    "Signor mio caro grazie!" E mi protese
    la mano breve, sibilando: "Vile!".
    [Modificato da Vinum Divinum 18/02/2013 19:51]


    ...

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    00 10/11/2012 15:23
    La signorina Felicita
    ovvero
    la Felicità



    10 luglio: Santa Felicita.

    I.

    Signorina Felicita, a quest'ora
    scende la sera nel giardino antico
    della tua casa. Nel mio cuore amico
    scende il ricordo. E ti rivedo ancora,
    e Ivrea rivedo e la cerulea Dora
    e quel dolce paese che non dico.

    Signorina Felicita, è il tuo giorno!
    A quest'ora che fai? Tosti il caffè:
    e il buon aroma si diffonde intorno?
    O cuci i lini e canti e pensi a me,
    all'avvocato che non fa ritorno?
    E l'avvocato è qui: che pensa a te.

    Pensa i bei giorni d’un autunno addietro,
    Vill’Amarena a sommo dell’ascesa
    coi suoi ciliegi e con la sua Marchesa
    dannata, e l’orto dal profumo tetro
    di busso e i cocci innumeri di vetro
    sulla cinta vetusta, alla difesa...

    Vill’Amarena! Dolce la tua casa
    in quella grande pace settembrina!
    La tua casa che veste una cortina
    di granoturco fino alla cimasa:
    come una dama secentista, invasa
    dal Tempo, che vestì da contadina.

    Bell’edificio triste inabitato!
    Grate panciute, logore, contorte!
    Silenzio! Fuga dalle stanze morte!
    Odore d’ombra! Odore di passato!
    Odore d’abbandono desolato!
    Fiabe defunte delle sovrapporte!

    Ercole furibondo ed il Centauro,
    le gesta dell’eroe navigatore,
    Fetonte e il Po, lo sventurato amore
    d’Arianna, Minosse, il Minotauro,
    Dafne rincorsa, trasmutata in lauro
    tra le braccia del Nume ghermitore...

    Penso l’arredo - che malinconia! -
    penso l’arredo squallido e severo,
    antico e nuovo: la pirografia
    sui divani corinzi dell’Impero,
    la cartolina della Bella Otero
    alle specchiere... Che malinconia!

    Antica suppellettile forbita!
    Armadi immensi pieni di lenzuola
    che tu rammendi pazïente... Avita
    semplicità che l’anima consola,
    semplicità dove tu vivi sola
    con tuo padre la tua semplice vita!


    II.

    Quel tuo buon padre - in fama d’usuraio -
    quasi bifolco, m’accoglieva senza
    inquietarsi della mia frequenza,
    mi parlava dell’uve e del massaio,
    mi confidava certo antico guaio
    notarile, con somma deferenza.

    "Senta, avvocato..." E mi traeva inqueto
    nel salone, talvolta, con un atto
    che leggeva lentissimo, in segreto.
    Io l’ascoltavo docile, distratto
    da quell’odor d’inchiostro putrefatto,
    da quel disegno strano del tappeto,

    da quel salone buio e troppo vasto...
    "...la Marchesa fuggì... Le spese cieche..."
    da quel parato a ghirlandette, a greche...
    "dell’ottocento e dieci, ma il catasto..."
    da quel tic-tac dell’orologio guasto...
    "...l’ipotecario è morto, e l’ipoteche..."

    Capiva poi che non capivo niente
    e sbigottiva: "Ma l’ipotecario
    è morto, è morto!!...". - "E se l’ipotecario
    è morto, allora..." Fortunatamente
    tu comparivi tutta sorridente:
    "Ecco il nostro malato immaginario!".


    III.

    Sei quasi brutta, priva di lusinga
    nelle tue vesti quasi campagnole,
    ma la tua faccia buona e casalinga,
    ma i bei capelli di color di sole,
    attorti in minutissime trecciuole,
    ti fanno un tipo di beltà fiamminga...

    E rivedo la tua bocca vermiglia
    così larga nel ridere e nel bere,
    e il volto quadro, senza sopracciglia,
    tutto sparso d’efelidi leggiere
    e gli occhi fermi, l’iridi sincere
    azzurre d’un azzurro di stoviglia...

    Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
    rideva una blandizie femminina.
    Tu civettavi con sottili schermi,
    tu volevi piacermi, Signorina:
    e più d’ogni conquista cittadina
    mi lusingò quel tuo voler piacermi!

    Ogni giorno salivo alla tua volta
    pel soleggiato ripido sentiero.
    Il farmacista non pensò davvero
    un’amicizia così bene accolta,
    quando ti presentò la prima volta
    l’ignoto villeggiante forestiero.

    Talora - già la mensa era imbandita -
    mi trattenevi a cena. Era una cena
    d’altri tempi, col gatto e la falena
    e la stoviglia semplice e fiorita
    e il commento dei cibi e Maddalena
    decrepita, e la siesta e la partita...

    Per la partita, verso ventun’ore
    giungeva tutto l’inclito collegio
    politico locale: il molto Regio
    Notaio, il signor Sindaco, il Dottore;
    ma - poiché trasognato giocatore -
    quei signori m’avevano in dispregio...

    M’era più dolce starmene in cucina
    tra le stoviglie a vividi colori:
    tu tacevi, tacevo, Signorina:
    godevo quel silenzio e quegli odori
    tanto tanto per me consolatori,
    di basilico d’aglio di cedrina...

    Maddalena con sordo brontolio
    disponeva gli arredi ben detersi,
    rigovernava lentamente ed io,
    già smarrito nei sogni più diversi,
    accordavo le sillabe dei versi
    sul ritmo eguale dell’acciottolio.

    Sotto l’immensa cappa del camino
    (in me rivive l’anima d’un cuoco
    forse...) godevo il sibilo del fuoco;
    la canzone d’un grillo canterino
    mi diceva parole, a poco a poco,
    e vedevo Pinocchio e il mio destino...

    Vedevo questa vita che m’avanza:
    chiudevo gli occhi nei presagi grevi;
    aprivo gli occhi: tu mi sorridevi,
    ed ecco rifioriva la speranza!
    Giungevano le risa, i motti brevi
    dei giocatori, da quell’altra stanza.


    IV.

    Bellezza riposata dei solai
    dove il rifiuto secolare dorme!
    In quella tomba, tra le vane forme
    di ciò ch’è stato e non sarà più mai,
    bianca bella così che sussultai,
    la Dama apparve nella tela enorme:

    "È quella che lasciò, per infortuni,
    la casa al nonno di mio nonno... E noi
    la confinammo nel solaio, poi
    che porta pena... L’han veduta alcuni
    lasciare il quadro; in certi noviluni
    s’ode il suo passo lungo i corridoi...".

    Il nostro passo diffondeva l’eco
    tra quei rottami del passato vano,
    e la Marchesa dal profilo greco,
    altocinta, l’un piede ignudo in mano,
    si riposava all’ombra d’uno speco
    arcade, sotto un bel cielo pagano.

    Intorno a quella che rideva illusa
    nel ricco peplo, e che morì di fame,
    v’era una stirpe logora e confusa:
    topaie, materassi, vasellame,
    lucerne, ceste, mobili: ciarpame
    reietto, così caro alla mia Musa!

    Tra i materassi logori e le ceste
    v’erano stampe di persone egregie;
    incoronato dalle frondi regie
    v’era Torquato nei giardini d’Este.
    "Avvocato, perché su quelle teste
    buffe si vede un ramo di ciliege?"

    Io risi, tanto che fermammo il passo,
    e ridendo pensai questo pensiero:
    Oimè! La Gloria! un corridoio basso,
    tre ceste, un canterano dell’Impero,
    la brutta effigie incorniciata in nero
    e sotto il nome di Torquato Tasso!

    Allora, quasi a voce che richiama,
    esplorai la pianura autunnale
    dall’abbaino secentista, ovale,
    a telaietti fitti, ove la trama
    del vetro deformava il panorama
    come un antico smalto innaturale.

    Non vero (e bello) come in uno smalto
    a zone quadre, apparve il Canavese:
    Ivrea turrita, i colli di Montalto,
    la Serra dritta, gli alberi, le chiese;
    e il mio sogno di pace si protese
    da quel rifugio luminoso ed alto.

    Ecco - pensavo - questa è l’Amarena,
    ma laggiù, oltre i colli dilettosi,
    c’è il Mondo: quella cosa tutta piena
    di lotte e di commerci turbinosi,
    la cosa tutta piena di quei "cosi
    con due gambe" che fanno tanta pena...

    L’Eguagliatrice numera le fosse,
    ma quelli vanno, spinti da chimere
    vane, divisi e suddivisi a schiere
    opposte, intesi all’odio e alle percosse:
    così come ci son formiche rosse,
    così come ci son formiche nere...

    Schierati al sole o all’ombra della Croce,
    tutti travolge il turbine dell’oro;
    o Musa - oimè! - che può giovare loro
    il ritmo della mia piccola voce?
    Meglio fuggire dalla guerra atroce
    del piacere, dell’oro, dell’alloro...

    L’alloro... Oh! Bimbo semplice che fui,
    dal cuore in mano e dalla fronte alta!
    Oggi l’alloro è premio di colui
    che tra clangor di buccine s’esalta,
    che sale cerretano alla ribalta
    per far di sé favoleggiar altrui...

    "Avvocato, non parla: che cos’ha?"
    "Oh! Signorina! Penso ai casi miei,
    a piccole miserie, alla città...
    Sarebbe dolce restar qui, con Lei!..."
    "Qui, nel solaio?..." - "Per l’eternità!"
    "Per sempre? Accetterebbe?..." - "Accetterei!"

    Tacqui. Scorgevo un atropo soletto
    e prigioniero. Stavasi in riposo
    alla parete: il segno spaventoso
    chiuso tra l’ali ripiegate a tetto.
    Come lo vellicai sul corsaletto
    si librò con un ronzo lamentoso.

    "Che ronzo triste!" - "È la Marchesa in pianto...
    La Dannata sarà che porta pena..."
    Nulla s’udiva che la sfinge in pena
    e dalle vigne, ad ora ad ora, un canto:
    O mio carino tu mi piaci tanto,
    siccome piace al mar una sirena...

    Un richiamo s’alzò, querulo e rôco:
    "È Maddalena inqueta che si tardi:
    scendiamo; è l’ora della cena!". - "Guardi,
    guardi il tramonto, là... Com’è di fuoco!...
    Restiamo ancora un poco!" - "Andiamo, è tardi!"
    "Signorina, restiamo ancora un poco!..."

    Le fronti al vetro, chini sulla piana,
    seguimmo i neri pippistrelli, a frotte;
    giunse col vento un ritmo di campana,
    disparve il sole fra le nubi rotte;
    a poco a poco s’annunciò la notte
    sulla serenità canavesana...

    "Una stella!..." - "Tre stelle!..." - "Quattro stelle!..."
    "Cinque stelle!" - "Non sembra di sognare?..."
    Ma ti levasti su quasi ribelle
    alla perplessità crepuscolare:
    "Scendiamo! È tardi: possono pensare
    che noi si faccia cose poco belle..."


    V.

    Ozi beati a mezzo la giornata,
    nel parco dei marchesi, ove la traccia
    restava appena dell’età passata!
    Le Stagioni camuse e senza braccia,
    fra mucchi di letame e di vinaccia,
    dominavano i porri e l’insalata.

    L’insalata, i legumi produttivi
    deridevano il busso delle aiole;
    volavano le pieridi nel sole
    e le cetonie e i bombi fuggitivi...
    Io ti parlavo, piano, e tu cucivi
    innebriata dalle mie parole.

    "Tutto mi spiace che mi piacque innanzi!
    Ah! Rimanere qui, sempre, al suo fianco,
    terminare la vita che m’avanzi
    tra questo verde e questo lino bianco!
    Se Lei sapesse come sono stanco
    delle donne rifatte sui romanzi!

    Vennero donne con proteso il cuore:
    ognuna dileguò, senza vestigio.
    Lei sola, forse, il freddo sognatore
    educherebbe al tenero prodigio:
    mai non comparve sul mio cielo grigio
    quell’aurora che dicono: l’Amore..."

    Tu mi fissavi... Nei begli occhi fissi
    leggevo uno sgomento indefinito;
    le mani ti cercai, sopra il cucito,
    e te le strinsi lungamente, e dissi:
    "Mia cara Signorina, se guarissi
    ancora, mi vorrebbe per marito?".

    "Perché mi fa tali discorsi vani?
    Sposare, Lei, me brutta e poveretta!..."
    E ti piegasti sulla tua panchetta
    facendo al viso coppa delle mani,
    simulando singhiozzi acuti e strani
    per celia, come fa la scolaretta.

    Ma, nel chinarmi su di te, m’accorsi
    che sussultavi come chi singhiozza
    veramente, né sa più ricomporsi:
    mi parve udire la tua voce mozza
    da gli ultimi singulti nella strozza:
    "Non mi ten...ga mai più... tali dis...corsi!"

    "Piange?" E tentai di sollevarti il viso
    inutilmente. Poi, colto un fuscello,
    ti vellicai l’orecchio, il collo snello...
    Già tutta luminosa nel sorriso
    ti sollevasti vinta d’improvviso,
    trillando un trillo gaio di fringuello.

    Donna: mistero senza fine bello!


    VI.

    Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
    luceva una blandizie femminina;
    tu civettavi con sottili schermi,
    tu volevi piacermi, Signorina;
    e più d’ogni conquista cittadina
    mi lusingò quel tuo voler piacermi!

    Unire la mia sorte alla tua sorte
    per sempre, nella casa centenaria!
    Ah! Con te, forse, piccola consorte
    vivace, trasparente come l’aria,
    rinnegherei la fede letteraria
    che fa la vita simile alla morte...

    Oh! questa vita sterile, di sogno!
    Meglio la vita ruvida concreta
    del buon mercante inteso alla moneta,
    meglio andare sferzati dal bisogno,
    ma vivere di vita! Io mi vergogno,
    sì, mi vergogno d’essere un poeta!

    Tu non fai versi. Tagli le camicie
    per tuo padre. Hai fatta la seconda
    classe, t’han detto che la Terra è tonda,
    ma tu non credi... E non mediti Nietzsche...
    Mi piaci. Mi faresti più felice
    d’un’intellettuale gemebonda...

    Tu ignori questo male che s’apprende
    in noi. Tu vivi i tuoi giorni modesti,
    tutta beata nelle tue faccende.
    Mi piace. Penso che leggendo questi
    miei versi tuoi, non mi comprenderesti,
    ed a me piace chi non mi comprende.

    Ed io non voglio più essere io!
    Non più l’esteta gelido, il sofista,
    ma vivere nel tuo borgo natio,
    ma vivere alla piccola conquista
    mercanteggiando placido, in oblio
    come tuo padre, come il farmacista...

    Ed io non voglio più essere io!


    VII.

    Il farmacista nella farmacia
    m’elogiava un farmaco sagace:
    "Vedrà che dorme le sue notti in pace:
    un sonnifero d’oro, in fede mia!"
    Narrava, intanto, certa gelosia
    con non so che loquacità mordace.

    "Ma c’è il notaio pazzo di quell’oca!
    Ah! quel notaio, creda: un capo ameno!
    La Signorina è brutta, senza seno,
    volgaruccia, Lei sa, come una cuoca...
    E la dote... la dote è poca, poca:
    diecimila, chi sa, forse nemmeno..."

    "Ma dunque?" - "C’è il notaio furibondo
    con Lei, con me che volli presentarla
    a Lei; non mi saluta, non mi parla..."
    "È geloso?" - "Geloso! Un finimondo!..."
    "Pettegolezzi!..." - "Ma non Le nascondo
    che temo, temo qualche brutta ciarla..."

    "Non tema! Parto." - "Parte? E va lontana?"
    "Molto lontano... Vede, cade a mezzo
    ogni motivo di pettegolezzo..."
    "Davvero parte? Quando?" - "In settimana..."
    Ed uscii dall’odor d’ipecacuana
    nel plenilunio settembrino, al rezzo.

    Andai vagando nel silenzio amico,
    triste perduto come un mendicante.
    Mezzanotte scoccò, lenta, rombante
    su quel dolce paese che non dico.
    La Luna sopra il campanile antico
    pareva "un punto sopra un I gigante".

    In molti mesti e pochi sogni lieti,
    solo pellegrinai col mio rimpianto
    fra le siepi, le vigne, i castagneti
    quasi d’argento fatti nell’incanto;
    e al cancello sostai del camposanto
    come s’usa nei libri dei poeti.

    Voi che posate già sull’altra riva,
    immuni dalla gioia, dallo strazio,
    parlate, o morti, al pellegrino sazio!
    Giova guarire? Giova che si viva?
    O meglio giova l’Ospite furtiva
    che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio?

    A lungo meditai, senza ritrarre
    la tempia dalle sbarre. Quasi a scherno
    s’udiva il grido delle strigi alterno...
    La Luna, prigioniera fra le sbarre,
    imitava con sue luci bizzarre
    gli amanti che si baciano in eterno.

    Bacio lunare, fra le nubi chiare
    come di moda settant’anni fa!
    Ecco la Morte e la Felicità!
    L’una m’incalza quando l’altra appare;
    quella m’esilia in terra d’oltremare,
    questa promette il bene che sarà...


    VIII.

    Nel mestissimo giorno degli addii
    mi piacque rivedere la tua villa.
    La morte dell’estate era tranquilla
    in quel mattino chiaro che salii
    tra i vigneti già spogli, tra i pendii
    già trapunti da bei colchici lilla.

    Forse vedendo il bel fiore malvagio
    che i fiori uccide e semina le brume,
    le rondini addestravano le piume
    al primo volo, timido, randagio;
    e a me randagio parve buon presagio
    accompagnarmi loro nel costume.

    "Vïaggio con le rondini stamane..."
    "Dove andrà?" - "Dove andrò? Non so... Vïaggio,
    vïaggio per fuggire altro vïaggio...
    Oltre Marocco, ad isolette strane,
    ricche in essenze, in datteri, in banane,
    perdute nell’Atlantico selvaggio...

    Signorina, s’io torni d’oltremare,
    non sarà d’altri già? Sono sicuro
    di ritrovarla ancora? Questo puro
    amore nostro salirà l’altare?"
    E vidi la tua bocca sillabare
    a poco a poco le sillabe: giuro.

    Giurasti e disegnasti una ghirlanda
    sul muro, di viole e di saette,
    coi nomi e con la data memoranda:
    trenta settembre novecentosette...
    Io non sorrisi. L’animo godette
    quel romantico gesto d’educanda.

    Le rondini garrivano assordanti,
    garrivano garrivano parole
    d’addio, guizzando ratte come spole,
    incitando le piccole migranti...
    Tu seguivi gli stormi lontananti
    ad uno ad uno per le vie del sole...

    "Un altro stormo s’alza!..." - "Ecco s’avvia!"
    "Sono partite..." - "E non le salutò!..."
    "Lei devo salutare, quelle no:
    quelle terranno la mia stessa via:
    in un palmeto della Barberia
    tra pochi giorni le ritroverò..."

    Giunse il distacco, amaro senza fine,
    e fu il distacco d’altri tempi, quando
    le amate in bande lisce e in crinoline,
    protese da un giardino venerando,
    singhiozzavano forte, salutando
    diligenze che andavano al confine...

    M’apparisti così come in un cantico
    del Prati, lacrimante l’abbandono
    per l’isole perdute nell’Atlantico;
    ed io fui l’uomo d’altri tempi, un buono
    sentimentale giovine romantico...

    Quello che fingo d’essere e non sono!


    ...

    "Pandite nunc Helicona, deae, cantusque movete..."
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    00 10/11/2012 15:24
    Cocotte

    I.

    Ho rivisto il giardino, il giardinetto
    contiguo, le palme del viale,
    la cancellata rozza dalla quale
    mi protese la mano ed il confetto...


    II.

    "Piccolino, che fai solo soletto?"
    "Sto giocando al Diluvio Universale."

    Accennai gli stromenti, le bizzarre
    cose che modellavo nella sabbia,
    ed ella si chinò come chi abbia
    fretta d’un bacio e fretta di ritrarre
    la bocca, e mi baciò di tra le sbarre
    come si bacia un uccellino in gabbia.

    Sempre ch’io viva rivedrò l’incanto
    di quel suo volto tra le sbarre quadre!
    La nuca mi serrò con mani ladre;
    ed io stupivo di vedermi accanto
    al viso, quella bocca tanto, tanto
    diversa dalla bocca di mia Madre!

    "Piccolino, ti piaccio che mi guardi?
    Sei qui pei bagni? Ed affittate là?"
    "Sì... vedi la mia mamma e il mio Papà?"
    Subito mi lasciò, con negli sguardi
    un vano sogno (ricordai più tardi)
    un vano sogno di maternità...

    "Una cocotte!..."
    "Che vuol dire, mammina?"
    "Vuol dire una cattiva signorina:
    non bisogna parlare alla vicina!"
    Co-co-tte... La strana voce parigina
    dava alla mia fantasia bambina
    un senso buffo d’ovo e di gallina...

    Pensavo deità favoleggiate:
    i naviganti e l’Isole Felici...
    Co-co-tte... le fate intese a malefici
    con cibi e con bevande affatturate...
    Fate saranno, chi sa quali fate,
    e in chi sa quali tenebrosi offici!


    III.

    Un giorno - giorni dopo - mi chiamò
    tra le sbarre fiorite di verbene:
    "O piccolino, non mi vuoi più bene!..."
    "È vero che tu sei una cocotte?"
    Perdutamente rise... E mi baciò
    con le pupille di tristezza piene.


    IV.

    Tra le gioie defunte e i disinganni,
    dopo vent’anni, oggi si ravviva
    il tuo sorriso... Dove sei, cattiva
    Signorina? Sei viva? Come inganni
    (meglio per te non essere più viva!)
    la discesa terribile degli anni?

    Oimè! Da che non giova il tuo belletto
    e il cosmetico già fa mala prova
    l’ultimo amante disertò l’alcova...
    Uno, sol uno: il piccolo folletto
    che donasti d’un bacio e d’un confetto,
    dopo vent’anni, oggi ti ritrova

    in sogno, e t’ama, in sogno, e dice: T’amo!
    Da quel mattino dell’infanzia pura
    forse ho amato te sola, o creatura!
    Forse ho amato te sola! E ti richiamo!
    Se leggi questi versi di richiamo
    ritorna a chi t’aspetta, o creatura!

    Vieni! Che importa se non sei più quella
    che mi baciò quattrenne? Oggi t’agogno,
    o vestita di tempo! Oggi ho bisogno
    del tuo passato! Ti rifarò bella
    come Carlotta, come Graziella,
    come tutte le donne del mio sogno!

    Il mio sogno è nutrito d’abbandono,
    di rimpianto. Non amo che le rose
    che non colsi. Non amo che le cose
    che potevano essere e non sono
    state... Vedo la case, ecco le rose
    del bel giardino di vent’anni or sono!

    Oltre le sbarre il tuo giardino intatto
    fra gli eucalipti liguri si spazia...
    Vieni! T’accoglierà l’anima sazia.
    Fa ch’io riveda il tuo volto disfatto;
    ti bacierò; rifiorirà, nell’atto,
    sulla tua bocca l’ultima tua grazia.

    Vieni! Sarà come se a me, per mano,
    tu riportassi me stesso d’allora.
    Il bimbo parlerà con la Signora.
    Risorgeremo dal tempo lontano.
    Vieni! Sarà come se a te, per mano,
    io riportassi te, giovine ancora.


    ...

    "Pandite nunc Helicona, deae, cantusque movete..."
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    00 10/11/2012 15:25
    I colloqui

    I.

    "I colloqui"... Rifatto agile e sano
    aduna i versi, rimaneggia, lima,
    bilancia il manoscritto nella mano...

    - Pochi giochi di sillaba e di rima:
    questo rimane dell'età fugace?
    È tutta qui la giovinezza prima?

    Meglio tacere, dileguare in pace
    or che fiorito ancora è il mio giardino,
    or che non punta ancora invidia tace.

    Meglio sostare a mezzo del cammino
    or che il mondo alla mia Musa maldestra.
    quasi a mima che canta il suo mattino,

    soccorrevole ancor porge la destra.


    II.

    Ma la mia Musa non sarà l’attrice
    annosa che si trucca e pargoleggia,
    e la folla deride l’infelice;

    giovine tacerà nella sua reggia,
    come quella Contessa Castiglione
    bellissima, di cui si favoleggia.

    Allo sfiorire della sua stagione,
    disparve al mondo, sigillò le porte
    della dimora, e ne restò prigione.

    Sola col Tempo, tra le stoffe smorte,
    attese gli anni, senz’amici, senza
    specchi, celando al Popolo, alla Corte

    l’onta suprema della decadenza.


    III.

    L’immagine di me voglio che sia
    sempre ventenne, come in un ritratto;
    amici miei, non mi vedrete in via,

    curvo dagli anni, tremulo, e disfatto!
    Col mio silenzio resterò l’amico
    che vi fu caro, un poco mentecatto;

    il fanciullo sarò tenero e antico
    che sospirava al raggio delle stelle,
    che meditava Arturo e Federico,

    ma lasciava la pagina ribelle
    per seppellir le rondini insepolte,
    per dare un’erba alle zampine delle

    disperate cetonie capovolte...


    ...

    "Pandite nunc Helicona, deae, cantusque movete..."