UN WEEK END POST MODERNO A VENAFRO

Stefano Starano
00giovedì 8 maggio 2008 23:01
Federico Antonelli
San Giorgio a Cremano

Osvaldo Trica non c’era in casa.
Eravamo rimasti d’accordo, io, Osvaldo e Carlo che saremmo andati a passare un fine settimana da Federico a Venafro.
Non era un invito, non c’erano ricorrenze, non c’era motivo: era per sfizio, gusto o piacere che dir si voglia. Punto.

Storia di Venafro

Venafro, il paese in provincia di Campobasso ove Federico era originario – e dove aveva una villa con un terreno – era uno di quei posti che io avevo visto, belli di per sé, e bello anche per i dintorni. E volevo che anche Osvaldo e Carlo, suoi amici, la vedessero.
Ero stato ospite a casa sua una volta, nel paese incontaminato con gente sui generis, ancora pura. Ricordo che i suoi familiari furono tanto ospitali che a tavola mi offrirono il primo bicchiere di vino dell’annata.
Io che non bevevo vino, cercai di fare la faccia compiaciuta; per non soffrire maggiormente decisi di adottare la tattica dello sciroppo: bere tutto di un sorso e via.
Così feci. Rimasi senza fiato, nel senso letterale della parola. Stavo soffocando. Gli altri non capivano, mi chiedevano come fosse il vino. Diventai rosso, poi viola, poi bianco. A vedermi così ridevano divertiti, pensavano a un mio scherzo o a una bizzarrìa. Le pareti della gola si erano “incollate”, unite, non passava più aria. Finalmente al padre di Federico venne l’idea di assaggiare il vino mentre ormai stavo per perdere i sensi dal soffocamento.
«Ma è aceto!» esclamò. Solo allora gli altri capirono e si accorsero che stavo soffocando.
Tra acqua che dovetti ingurgitare e pacche dietro le spalle (che servono solo a far soffocare meglio) riuscii a riprender lentamente fiato. Dopo diverso tempo ripresi a parlare.
La sera, invece di dormire, io e Federico parlavamo di religione fino a notte fonda, ed andammo a finire (col discorso) all’inferno e quindi al diavolo; andavamo così a fondo nel ragionamento che quando realizzammo che il diavolo poteva esistere davvero – e che aveva molti più poteri di noi, e che se ne fregava delle regole – ci si rizzarono i capelli sulla testa dal terrore. La villa nel paesino si adattava bene ad argomenti di terrore, soprattutto nel buio pesto della stanza di Federico.
Poi di giorno coglievamo fragole, ed io fui messo con un falcetto in mano a potare le piante: non vedevo l’ora di mangiarmele: le fragole le mangiammo a tavola, quando ormai ero morto di voglia e di fame. Tra i vari sport praticammo anche quello della caccia ai gatti selvatici, difficilissimo. Federico era un esperto ed io un degno discepolo. Finalmente catturammo un gattino. Fu terribile indurlo a venire nel garage della villa: ore e ore di appostamenti, di inseguimenti, di chiusure in un angolo, di scope per distanziarlo: era feroce. Riuscimmo, dopo notevoli sforzi, a incapsularlo in uno scatolo di Dixan.
Per giorni lo tenemmo prigioniero, alla fine non dava più segni di vita, anche scuotendo violentemente lo scatolo. Sembrava morto. La curiosità ci vinse: appena sollevato il coperchio uscì con uno scatto felino in tutta la sua vitalità. Lo scatolo internamente era diventato tutto una serie di strisce di cartone “tagliate” dalle feroci unghie del micino. L’avevamo scampata bella!
Lì conobbi anche l’amico Gianpaolo, uno che mi ascoltava interessato e che io ascoltavo interessato lungo il corso principale del paese dove passeggiavano tutti. Con lui si poteva filosofeggiare come con pochi altri. E poi Giovannino, l’amico buono, simpatico, pieno di vita. E vidi anche “la rossa”, il grande amore segreto di Federico.
Ma Venafro era anche piena di bellezze naturali. C’era un fiume, il Biferno, così limpido che una sera ci andai a finire con i piedi mentre parlavo con Federico, – tanta la trasparenza dell’acqua – proseguendo per qualche metro prima di accorgermene. Nessun problema, tranne per il fatto che l’acqua era di quelle così gelide che ci volle una settimana prima che s’asciugassero, ed avevo un solo paio di scarpe.

San Giorgio a Cremano

In conclusione, Venafro era la cittadina dove era nato e vissuto Federico, tipo unico. E quel sabato e quella domenica non sapevamo che fare, così avevamo deciso di fare l’improvvisata di andare a trovare il nostro amico (che sicuramente sarebbe stato piacevolmente colto di sorpresa).
La cosa più interessante, per me, era l’associazione di tre tipi unici: Federico, Carlo e Osvaldo.
Federico era un tipo speciale, un critico nato che non faceva sconti a niente e a nessuno. Di molti gradi superiore a noi come cultura era franco e risoluto. Aveva quasi intrapreso la carriera accademica (persa a causa del padre che cacciò senza tanti complimenti un professore universitario che Federico aveva invitato a cena).
Carlo un liberale laico ateo all’estremo: mai innamoratosi di una ragazza, mai una “cotta”, un sogno o una sofferenza d’amore.
Osvaldo il candore in persona, la purezza d’animo incarnata, discreto, riservato e timido.
Io invece ero un filosofo-schizzoide sempre teso a far incontrare e conoscere meglio fra di loro le persone più diverse, amiche o estranee (fra loro) che fossero.
Ma evidentemente Osvaldo non era del parere di conoscere meglio Federico o il suo paese, dal momento che la mattina dell’appuntamento non si era fatto trovare in casa. Oltretutto, fatto indicativo, non aveva lasciato detto nulla.
Ma l’intuito, o una forma di telepatia vera e propria, mi condusse diritto alla stazione della Circumvesuviana di San Giorgio a Cremano, vicino casa di Osvaldo. Nella stazione non si vedeva ma io non mi fermai. Scesi dall’auto e andai giù, al livello dei binari: stava lì.
«Ma che fai, non dovevi venire con noi a Venafro?»
«Non me la sento» rispose, «non ci vengo.»
«Ma perché, andiamo a trovare Federico, ci facciamo un viaggetto: sarà divertente vedrai!» Ma lui non si smuoveva. Carlo aspettava in auto tra l’impaziente ed il perplesso, non sapendo cosa stesse succedendo e perché non tornassi più.
Ma infine, tanto che dissi e tanto che feci (chiamai anche Carlo in mio aiuto) prendemmo Osvaldo quasi di forza e lo caricammo in auto.
Il viaggio fu bellissimo non per il paesaggio che pure era incantevole {qualsiasi paesaggio [che non fosse quel continuum palazzi-capannoni-cemento addossati nel Maelstrom di auto bloccate in perenne traffico che va da Napoli a Castellammare di Stabia da un lato e fino a Pozzuoli dall’altro (come a dire più di mezza regione Campania in quanto a popolazione)] sarebbe stato idilliaco per noi} ma per il mio poter parlare indiscriminatamente di psicologia, amore e sue cause e meccanismi, con i miei compagni di viaggio. In particolare del falso innamoramento (quando non esisteva ancora Alberoni) perché secondo me non poteva essere considerato vero innamoramento quello che nasceva dalla seduzione, partendo da August Forel che diceva “l’amore non deve essere cieco ma pienamente cosciente” ed arrivando alla “Psicologia del Sesso” di Oswald Schwarz, per approdare ad Erich Fromm che proprio Federico mi aveva prestato (L’arte di amare).
Ribadivo con fervore che nel 90% dei casi chi viene sedotto “vuole” essere sedotto, ma non era mica amore questo!
Sulla statale, ad Isernia, in un incrocio con lo “Stop” dove non c’era anima viva o morta, né tantomeno presenza di veicoli a locomozione, una pattuglia di Carabinieri mi fermò contestandomi di esser passato senza fermarmi “completamente” allo Stop. In effetti lo avevo passato, senza fermarmi, ad un chilometro all’ora (all’incirca la velocità con la quale gattona un neonato di otto mesi). Dopo innumerevoli “mea culpa” e dimostrazioni di puro pentimento riuscimmo a ripartire indenni.

Venafro oggi

Finalmente (per loro, Osvaldo e Carlo, in quanto a miei discorsi, e per me in quanto a “pericoli di multa”) arrivammo a destinazione.
Ricordavo abbastanza Venafro da riconoscere via Garibaldi dov’era la villa di Federico.
Parcheggiai alla meglio e ci presentammo alla porta con i nostri sorrisi.
Aprì Federico, sorpreso.
«Eccoci qua, visto che bella sorpresa?» dissi raggiante. «Ti ho portato Carlo e Osvaldo, te l’aspettavi? Sono desiderosi di visitare Venafro, il Molise e Campitello Matese!»
Ero sicuro che ci avrebbero ospitati quantomeno a mangiare, se non a dormire. I miei amici erano disposti a dormire anche su brandine e divani, anche per terra se necessario.
Nel frattempo si sentiva una voce gridare «Chi è?»
«Be’» disse Federico, «non so se mio padre…» e si affacciò all’interno riferendo al padre che ero io. Di là si sentiva la voce del padre che rispondeva «Chi, Stefano? Va bene, fallo entrare!» e venne all’uscio. Quando vide che eravamo in tre si fece rubizzo e quasi non riusciva a parlare.
«Andate via, non potete presentarvi così all’improvviso, capito?»
«Ma noi…»
«Via!» e ci sbatté la porta in faccia. Rimanemmo così per qualche minuto quando si aprì lentamente la porta. Era Federico che di nascosto cercava di parlarci.
Sottovoce ci spiegò che il padre era fatto così, che era della vecchia generazione, un fascistone; se lo avessimo avvisato prima lo avrebbe preparato… eccetera eccetera.
Noi gli spiegammo che ci saremmo adattati in albergo e lui ci rispose che non ce n’erano, nemmeno fuori Venafro. E comunque Carlo e Osvaldo non avevano il becco d’un quattrino.
Dopo una giornata a visitare tutti i luoghi da vedere, con Federico che era uscito con una scusa (per non far sapere che veniva con noi) la sera ci salutammo.
Mangiammo due panini in tre, la rimanenza della colazione da viaggio. Poi, stanchi, decidemmo che avremmo trovato un posto dove parcheggiare l’auto e lì avremmo dormito.
Cercammo un angolo o una traversa un po’ più tranquilla, veramente tutte le traverse, anzi tutte le strade lo erano. Troppo. La presenza dell’auto gialla venuta da fuori, lì dove non ce n’erano in quantità, era discreta come il Papa che cercava un posto a sedere nella Mecca. Dalle finestre guardavano l’auto aliena targata NA avvicinarsi, ed ogni volta ci allontanavamo di nuovo. Alla fine arrivammo in una terra sperduta dimenticata da Dio e dagli uomini.
La Fiat 127 di mio padre (molto disponibile a lasciarmela ogni qual volta non andasse a lavoro la sera, il sabato, la domenica e tutti i festivi) aveva solo due sedili con i schienali ribaltabili.
All’inizio parlavamo seduti normalmente, poi dopo le tre il sonno divenne sempre più inarrestabile.
Dopo una civile discussione e diverse valutazioni, pervenimmo alla conclusione che qualcuno doveva sacrificarsi a dormire nel bagagliaio posteriore dell’auto. Il fatto era che a voler fare un sorteggio democratico poteva uscire qualcuno troppo lungo (io o Carlo) ed il bagagliaio della 127 era indubbiamente piccolo e corto, e l’unico “corto” fra noi era Osvaldo.
Alla fine accettò, non proprio volentieri, in verità.
A causa del freddo e dell’umidità dovuti allo stare in piena campagna, facemmo in modo che Osvaldo potesse chiudere (non completamente per lasciar passare un poco d’aria) il bagagliaio con delle cinghie di persiana avvolgibile, che però lui doveva reggere se non voleva che il portello tornasse su.
Cercammo finalmente di prender sonno. I cani che abbaiavano in lontananza erano un riposante sottofondo. Per noi, intendo per me e per Carlo: non così per Osvaldo.
Osvaldo ci chiedeva se per caso sentissimo quei cani latrare.
«Certo, ma sono lontani, non senti?» gli disse Carlo per tranquillizzarlo.
«Già, e se si avvicinano?»
«Perché dovrebbero venire proprio qua?» risposi io di rimando. Intanto il numero dei guaiti aumentava, altri cani si stavano aggregando.
«Io ho paura» dichiarò Osvaldo.
«E di che, stai protetto!»
«Sarà, ma intanto sento abbaiare più forte.»
In effetti si stavano avvicinando.
Cercammo di confortarlo spiegandogli che comunque c’eravamo noi, che potevamo sempre intervenire: non era solo!
Non si rassicurò molto.
Ad un certo punto sentimmo un ululato da lupo mannaro vicinissimo, verso la parte posteriore dell’auto.
«Aiuto!» Era la voce del povero Osvaldo. Aveva perfettamente ragione. In pochi secondi qualcosa come quindici-venti cani abbaiavano ferocemente col muso quasi nel bagagliaio posteriore.
«Ehi, aiuto, questi mi vogliono mordere!»
«Resisti Osvaldo, siamo qui, non temere!» ma ci stavamo facendo sotto dalla paura. Carlo stava per uscire per consentire all’amico di entrare ma dovette desistere immediatamente: in sette o otto lo stavano assalendo già prima che avesse terminato di aprire lo sportello.
Erano grandi e soprattutto feroci. Forse avevano fame o erano idrofobi. La paura cominciò a prendere anche noi.
«Non ce la faccio più, aiutatemi, vi prego!» lo sentimmo urlare disperato.
«Non preoccuparti, mica possono sfondare la carrozzeria? È solo impressione ma sei al sicuro.»
«No, voglio dire che non ce la faccio più a mantenere completamente chiuso il portellone! Sono più forti, spingono con i musi rabbiosi, intravedo i loro denti. Tra poco lascio, le braccia mi stanno per cedere! Fatemi entrare subito!»
«Non è possibile, ci abbiamo provato. Non avremmo neanche il tempo di aprirti che saremmo sbranati. Dobbiamo pensare a qualcos’altro!» Ma cosa, non lo sapevamo.
«Sto per cedere! Aiuto! Aiuto!»
Ad un certo presi la decisione di mettere in moto e spostarci da là fino ad un posto sicuro.
«Cosa fai?» mi chiese Carlo.
«Andiamo via di qui.»
«Non so se è una buona idea, il terreno è sconnesso e per come si è stancato Osvaldo non riuscirà a mantenerlo chiuso, il portellone si aprirà.»
«Hai un’idea migliore?»
«No.»
«Allora si parte.» Avvisammo Osvaldo di reggersi forte e di resistere quanto più poteva. Ma non resistette nemmeno due secondi, al terzo però ero già partito.
«Aaah, mi stanno venendo addosso…»
Accelerai ma l’auto sobbalzava eccessivamente, c’era il rischio di ribaltarsi se continuavo così. I cani ci avevano quasi raggiunto.
«Come va dietro?» chiesi ad alta voce.
«Male, con tutti questi sobbalzi non riesco a tenere giù il portellone!» fu la risposta.
Accelerai ulteriormente nonostante tutto. Rischiai ma non potevo comunque correre perché non riuscivo a cambiare marcia con un rapporto più alto della prima, e la velocità non era superiore a quella dei cani ancor più imbestialiti nel vedere la loro preda allontanarsi. Ma il terreno si era leggermente più appianato, inserii la seconda.
Era fatta, progressivamente la velocità aumentò. Ci fermammo dopo sei chilometri.
«Okay, adesso puoi entrare,» gli dissi concitatamente «fa presto, non si sa mai» aggiunsi.
La mattina dopo sembravamo tre sopravvissuti alla notte dei morti viventi. Infreddoliti, digiuni, pieni di pipì da fare (e qualcuno anche qualcos’altro) ce ne andammo. Non aspettammo la sera per tornare.
ELIPIOVEX
00sabato 10 maggio 2008 22:45
Sinceramente io preferisco le gite organizzate!
Mi sa che Osvaldo ci avrebbe guadagnato a rimanere a casa...
Stefano Starano
00lunedì 12 maggio 2008 00:13
Certo
Certo che Osvaldo ci avrebbe guadagnato, ma non sarebbe stato così divertente!
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