Trilogia "Tre donne: Maria, Isa, Annie"

Fiordipoesia
00martedì 25 gennaio 2005 17:26


In attesa di scriverne di nuovi, comincio ad inviare i brevi racconti della Trilogia "Tre donne" che le amiche Danzando e Fiordineve già conoscono (ma va detto che loro due conoscono praticamente tutta la mia produzione letteraria), ma che per gli altri frequentatori e lettori del Forum costituiscono una (spero gradita) novità. Comincio con Maria.

AVE, MARIA…


Diresti che manca l’odore dell’erba, di paglia, di fango, di fiori, di terra. Il paesaggio è lo stesso di sempre, da questa finestra che a volte ti sembra di guardare un dipinto: una fetta di cielo, un groviglio di strade, e palazzi palazzi palazzi palazzi palazzi. Una periferia senza nome. Lui adesso non torna dai campi, non ha mani callose, non ha un collo taurino, non ha spalle possenti, è un signore, un borghese, un qualunque dei tanti che tornano dalla fabbrica, dal negozio, dall’ufficio, dal mondo.
E tu hai lasciato i tuoi sguardi bambini su un ormai appassito e represso desiderio di bambola, sui tuoi giochi di moglie e di mamma piccina, silenziosa e compunta, su contorni rarefatti di favole e storie ormai dimenticate, di preghiere insegnate e rimaste sepolte nel cuore, della voce, delle braccia, delle mani, degli occhi grandi e sgomenti di tua madre che adesso è ricordo talmente lontano da perdersi in un vortice di immagini sfumate: voce braccia mani occhi, una gita in collina, un vestito da sposa piegato e riposto in un baule in soffitta, una tovaglia a grandi scacchi bianchi e rossi macchiata di vino, un odore di candele e di incenso, un silenzio che urla all’intorno. E non sono passati che pochissimi anni, soltanto.
E’ arrivato, ti chiama. Maria!
Lui è arrivato e ti guarda. E tu preghi e lo guardi. E lo aspetti, rassegnata, lo aspetti. E nel cuore, dissepolto, già sgrani il rosario al suo primo mistero doloroso.

“Ave Maria piena di grazia il Signore è con te tu sei benedetta fra le donne…”

I tuoi quattordici anni derubati di innocenza si distendono ed altro non potresti fare, dire, pensare, mentre due lacrime inondano le guance. Lui ti è sopra e ti mette una mano sugli occhi, sulla bocca, sul viso. Non parla, non grida, non insulta, non geme. Ansima soltanto, e una vena vermiglio gli si gonfia sul collo.

“Ave Maria piena di grazia il Signore è con te tu sei benedetta fra le donne…”

Tu non guardi, non parli, non senti. I tuoi occhi bambini cercano altrove immagini consuete, come un volo di rondini, un tramonto tiziano intravisto verso la ferrovia, e la luna che presto sbucherà dietro alla ciminiera.

“Padre nostro che sei nei cieli sia santificato il tuo nome…”

Lui si muove, si muove. Tu preghi. Presto è tutto finito, si dovrà preparare per cena, forse poi questa sera c’è un film alla televisione: una storia di vita, una storia d’amore. Fuori un cane sta abbaiando, disperato o convinto o gioioso, chissà. Gatti randagi gridano d’amore, e ti sembrano le voci di bambini. Lui non c’è più, non lo vedi, non senti i suoi grugniti, la voce del suo sforzo e di quel suo godere solitario.

“Padre nostro che sei nei cieli sia santificato il tuo nome…”

Finito. Tutto fnito. E’ rimasto soltanto un odore un po’ acre di sudore e di sangue. Sei rimasta distesa, i tuoi occhi sbarrati nel vuoto a cercare un appiglio a cui aggrappare la tua rabbia, la tristezza, il ribrezzo. Lui non c’è. E’ soltanto un rumore nel bagno di acqua che scorre. E’ soltanto un ricordo. E’ soltanto un odore. E’ rimasto soltanto un rosario sgranato, seppellito di nuovo nel cuore.

“padre mio…che hai generato questa mia carne e hai fatto offesa della tua carne e hai fatto scempio della mia carne…lo sai…non potrò amare un uomo in tutta la mia vita…è sbarrata la porta del mio amore, è socchiusa la porta del ricordo, è spalancata la porta del dolore…padre mio…non mi vendicherò, non ti denuncerò, non ti farò del male…aspetterò l’orgasmo dei miei sensi, quando ti vedrò decadere soffire morire…sia maledetto per sempre il tuo nome…”

Ave, Maria…dolce perduta regina della sofferenza, della rinuncia e del rimpianto.

Diresti che manca l’odore dell’erba, di paglia, di fango, di fiori, di terra. Il paesaggio è lo stesso di sempre, da questa finestra che a volte ti sembra di guardare un dipinto: una fetta di cielo, un groviglio di strade, e palazzi palazzi palazzi palazzi palazzi. Una periferia senza nome.
Uno straziante dolore senza nome.



Walko 24/02/2004 8.56


Fiordipoesia
00martedì 25 gennaio 2005 17:28
Isa


ISA

Le cinque amiche inseparabili, le chiamavano così, tanti anni fa. Adesso hanno fra i trentasei e i quarant’anni ed è un caso assai raro che si ritrovino insieme, tutte quante, come questo pomeriggio. Che poi è stato un caso: due sono arrivate insieme, altra due a poca distanza di tempo una dall’altra, e per ultima lei, Isabella, che è uscita dall’ufficio alle diciotto. Si sono trovate per coincidenza dentro al supermercato e poi sono andate in un bar, hanno occupato un tavolino e parlano e raccontano, e si raccontano e ridono, ridono, ridono.
Isabella ha trentotto anni, ma è sempre stata un po’ la leader delle cinque amiche inseparabili. Anche adesso, che da anni si sono quasi perse di vista, ha subito preso il centro della scena, lei così sempre serena, così allegra, così sempre un po’ più intelligente e un po’ più colta degli altri, lei così sempre curata nell’aspetto: i capelli ordinati, trucco preciso e leggero, le unghie sempre smaltate, il suo vestire sportivo ed elegante, il suo sguardo sempre arguto e un po’ furbetto, dietro le lenti da miope, rotonde, con montatura leggera, lei con la sua ironia e quelle sue battute folgoranti, lei sempre di poche parole, a volte basta un certo sguardo dei suoi e anche l'uomo più spavaldo del mondo si ritira in silenzio, portando altrove, lontano il suo imbarazzo. “Fortunata te!”, è questa l’espressione ricorrente delle sue quattro amiche. Sì, perché delle cinque lei è l’unica sola, l’unica libera, senza legami, senza catene, senza nessuno a casa ad aspettarla. Le guarda, sbuffa e dice “eh, povere amiche!”, e ride, ride, ride.
Una si lamenta del marito geloso, l’altra sta per sposarsi e già si chiede se non starà per fare un grosso sbaglio, un’altra ha già due figli e i problemi, e i casini, l’ultima si è sposata da pochi mesi e non fa che ripetere “che noia!”. Le storie che raccontano dipingono scene di vita varia e indaffarata: la casa da comprare con il mutuo, tanti progetti da mettere in atto, lui che guarda la partita e urla, lui che se c’è da spostare un pezzo di mobilio ha mal di schiena e non si regge in piedi, ma dopo cinque minuti scende le scale di corsa, lui che l’accompagna anche a fare la spesa perché non si sa mai chi può incontrare, lui che sta in casa tutto il pomeriggio, lui che esce di sera con gli amici, lui che questo e che quello, lui lui, lui. “Fortunata te, Isa, l’hai scampata!”, e lei ride, ride, ride forte.
Lei no, non si è sprecata, non si è lasciata scegliere, non si è mai regalata. Gli uomini con lei hanno sempre provato soggezione, non sono mai riusciti a prevalere. Però anche lei ha avuto le sue storie, ha amato quelle storie, anche Isabella ha amato: lui che parlava poco e non rideva mai, non si sentiva all’altezza e lo diceva, era una vera lagna e l’ha mollato; lui che era sposato e lei non si sentiva al posto giusto, ma lui le ripeteva “non la amo, non la sopporto più”, però non la lasciava, non riusciva a decidersi mai, c’era il bambino, c’era la casa da costruire, c’erano tante cose, e infine ha scelto di restare con lei, hanno poi avuto un altro figlio, hanno finito la casa, hanno ritrovato un loro equilibrio, per quanto sempre precario, provvisorio, insomma è poi finita anche con lui; e lui che era troppo intelligente e troppo instabile, anche lui, come lei, così votato alla libertà, con le sue scappatelle che chiamava spazi di fuga, senza importanza, così com’era senza importanza quella loro storia, finita lentamente senza nemmeno rendersene conto, e dopo lui si è sposato, adesso gira spingendo lentamente un passeggino sul viale, chi l’avrebbe mai detto? Le amiche ridono e parlano, raccontano e ricordano: “l’hai scampata bella, Isa, tu sì che sei fortunata!”, e lei ride, ride, ride.
Si è fatto proprio tardi. Le cinque amiche si lasciano, ridendo: “dobbiamo ritrovarci, rivederci!”, e poi ognuna di loro torna a casa, torna alle proprie cose di ogni giorno. Isabella rientra e pensa “cosa mangio per cena?”. Ma poi perché cenare? E’ obbligatorio? Non deve rendere conto a nessuno, ha già mangiato un tramezzino e un po’ di patatine al bar, per adesso può anche bastare, poi magari più tardi, se ritorna un poco di appetito, si potrà sempre spiluccare qualcosa. Che fare? In televisione non c’è niente di bello, uscire…dove andare? Godersi in pace questa libertà? Leggere un libro o qualche cosa, ma no, meglio riposare la vista, lasciamo perdere anche la chat per questa sera: troppo casino, troppi cretini, troppe risse. Sarebbe il caso di fare qualche lavoro di casa, cambiare le tendine, fare le pulizie, ma no…chi se ne frega, non c’è mica nessuno che poi si lamenta, per lei va bene così, la casa serve per viverci, ci penserà domani, come ha detto già ieri, e l’altro ieri, e da un po’. L’unica cosa da fare è riposare, è stata una giornata pesante in ufficio, forse domani sarà pure peggio. Meglio vestire il pigiama e andare a letto, un bel concerto di Bach in sottofondo, per farsi accompagnare verso il sonno. Isa si infila sotto le lenzuola, si gira su un fianco, stringe fortissimo il suo vecchio koala di peluche… e piange, piange, piange.



24/02/2004 8.57


Fiordipoesia
00martedì 25 gennaio 2005 17:31
Annie
ANNIE


Avevo un banco di fiori nelle fiere, e nella settimana di Halloween fuori dal cimitero; alla notte ci montavo sopra una tenda ed il mio banco era casa mia. Chissà perché, i miei fiori li comprava solo la gente umile e povera, quella che si avvcina al banco con gli occhi bassi e fruga nel portafogli con le dita in cerca di moneta, con lo sguardo del cane abbandonato. I ricchi del paese i fiori li compravano sempre da Mary Jane, che aveva il banco vicino al mio, uguale al mio, stessi fiori, stessi profumi, ma lei era Mary Jane la fioraia, e io...io ero Annie, la vagabonda.
Avevo i capelli lunghi e scarmigliati, gli occhi scuri un po' spiritati, i fianchi troppo stretti, un seno troppo grande e un culo troppo piatto. Giravo spesso di notte, andavo al bar di Joseph e me ne stavo lì seduta al tavolino, da sola, con un bicchier di vino e le mie sigarette, ad ascoltare i discorsi degli avvinazzati, a respingere i loro rozzi tentativi di portarmi a letto, a guardare gli uomini giocare a biliardo e a ridere forte con loro, come loro. Ma loro erano uomini e io...io ero Annie, la vagabonda.
E' vero: litigavo spesso, con tutti, per la strada e in ogni luogo, anche in chiesa, persino col Pastore Laughton. Ma il furore che scoppiava in un attimo, in un istante si placava e cominciavo a cantare le canzoni che inventavo sul momento, cantavo ad alta voce, con la mia voce bassa e intonata, anche se loro, gli altri, mi guardavano male e provavano molto disagio e persino fastidio, ma cantavo perdio, perché anch'io avevo diritto a qualche briciola di gioia; loro avevano tutto, una casa, una famiglia, tante cose da fare, da dire, da viaggiare, da ricevere, da dare, da festeggiare, da vendere, da comprare; io soltanto me stessa, il mio banco di fiori e il mio canto. E Lucy, chissà dove. Loro erano una comunità e io...io ero Annie, la vagabonda.
Lucy. Lucy era nata a Gennaio, era bionda, era bella, era un batuffolo rosa che piangeva ed urlava. Non potevo tenerla. Così il Pastore la portò via, in un città lontana. Quando venti anni dopo la volli vedere andai ad aspettarla all'uscita dal campus, l'unica volta che uscii dal paese; il Pastore le parlò, poi si allontanò e lei mi venne incontro, mi guardò a lungo in viso, forse cercava un segno, una rassomiglianza, aveva gli occhi pieni di lacrime e tremava, non disse niente, ma mi diede un ceffone, e mi sputò addosso, se ne andò senza voltarsi e non la vidi mai più. Non gliene volli per questo, in fondo aveva ragione, lei era Lucy, la figlia del Giudice Thompson e della Maestra Grant, e io...io ero Annie, la vagabonda.
E quando questa tosse maledetta non mi lasciava più dormire andai dal Dottor Furness; mi visitò e mi disse che avrei dovuto andare all'ospedale, ma gli dissi che io non avevo nessuno a cui lasciare i miei gatti e il mio banco di fiori, proprio a Ottobre che era quasi Halloween, ci sarei andata magari in inverno; Doc mi disse che all'inverno non sarei arrivata, ed aveva ragione. Dopo una notte di freddo e di febbre che avevo passato a tossire e a sputare sangue nel catino, senza avere nemmeno la forza per andarlo a svuotare, la prima luce dell'alba è diventata scura all'improvviso, ed è arrivato finalmente il sonno. Molti portano fiori sulla mia tomba, anche Mary Jane, che aveva il banco vicino al mio. Non so perché lo fa, forse soltanto per dovere, per rimorso, non so, magari solo per benevolenza; in fondo è stata per tanti anni una collega: certo, lei era Mary Jane la fioraia e io...io sono Annie, la grande cantautrice.


24/02/2004 8.58



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