QUELLA DOMENICA

Stefano Starano
00giovedì 8 maggio 2008 23:08
la domenica del cane
Sarebbe stata una domenica indimenticabile, almeno lo speravo.
Carmen era un’amica, non una conoscente, e come tale disponibile. Con lei avevo iniziato a parlarci da quando s’era lasciata con Alessandro. Lei sapeva di me ed io di lei. Tante cose, vere (mie) e, diciamo, un po’ meno vere (sue).
Ero riuscito a combinare l’uscita per la domenica mattina; io avrei portato con me il mio amico di Venafro,Federico.
Questi era di gran rigore morale, non amava la mondanità, non frequentava comitive né localini, non andava a ballare, non si faceva la pizza la domenica sera, non aveva molti amici a San Giorgio a Cremano.
Lui veniva, come ho detto, dalla provincia di Campobasso; ero stato ospite a casa sua qualche volta, nel paese incontaminato con gente sui generis, ancora pura, come l’acqua del Biferno. L’aspetto, il passo, la parlata, la faccia, di Federico sembravano quelle di un vero montanaro. Ma l’intelligenza e la cultura, soprattutto umanistica-filosofico-letteraria era paragonabile a quella dei più eminenti ed impegnati intellettuali del ’68, e non esagero.
Per questo avevo organizzato l’uscita, avrebbe fatto piacere a lui e, nello stesso tempo, sarebbe stato stimolante far conoscere una persona così a Carmen. Lei, a sua volta, aveva fatto in modo di venire con un’amica più grande che conosceva attori e persone del mondo dello spettacolo. Era una che, come diceva Carmen, aveva fatto e visto un sacco di cose eccezionali.
Arrivarono all’appuntamento. Dopo le presentazioni ci allontanammo da San Giorgio con la Fiat 127 di mio padre (che lasciava a mia completa disposizione ogni domenica ed ogni sera, con piena fiducia da parte sua, dal momento che avevo la patente da poco) e ci dirigemmo alla volta di San Sebastiano al Vesuvio dove non mancano verdi viali, paesaggi collinari ed uno sfondo del golfo di Napoli che non lo trovi nemmeno su internet.
Ma la passeggiata, ormai al termine, a noi che eravamo giovani non eccitava più di tanto.
Carmen ebbe l’idea di provare qualcosa di nuovo, e ce lo propose: guidare l’auto.
Lei non aveva la patente e in Italia le leggi sono particolarmente severe al riguardo. Poi c’era il fatto della responsabilità morale (oltre che civile, amministrativa e penale) per me, sia come persona che come figlio, per la fiducia accordatami da mio padre che mai avrei voluto tradire.
Guidò per viali poco frequentati. Andò tutto bene. Finito lo sfizio si fece avanti l’amica, e si propose come prossimo autista.
Io l’amica non la conoscevo, mi sembrava qualcosa di più di una semplice ragazza, non solo perché avesse qualche anno in più, ma perché appariva più “vissuta”, una che se la faceva con l’alta società. Disse che le avevano fatto guidare BMV, Maserati ed anche una Ferrari: era ormai esperta, non sarebbe stata dunque capace di guidare un’utilitaria piccola ed insignificante come “la Fiat 127”?
Avevo forti dubbi sulla guida, anche lei senza patente. Influì indiscutibilmente il fatto che non fosse niente male, anzi, era una “bona” più bona di Carmen.
Eravamo emozionati, Federico ci diede l’epiteto di “matti da legare” e disse che voleva scendere immediatamente, sarebbe tornato in autobus, in taxi, a piedi… c’era la galera per la guida senza patente eccetera eccetera. Non voleva sentir ragioni.
Guidava molto lentamente e ciò ci rincuorò.
Che pericolo c’era, pensavamo mentre procedeva diritto, sempre diritto ed a velocità costante. Pareva che non volesse mai svoltare o accelerare. Ma nemmeno rallentare.
Da lontano vedemmo un cagnolino, di quelli di razza volpina antipatici per natura, che iniziava ad attraversare. Era abbastanza distante, nessun pericolo.
Mentalmente calcolai che era sufficiente pigiare leggermente sul pedale del freno, o anche solo rallentare senza frenare; in verità bastava ancora meno, deviare anche leggermente. Era semplice, anche un bambino delle elementari ci sarebbe riuscito da quella distanza. Non era possibile mettere quel cane sotto, nemmeno a volerlo centrare.
Finì sotto. Ma la ragazza continuò imperturbabile con la stessa lenta, costante, invariabile andatura, senza deviare o svoltare nemmeno di un millimetro. La faccia sembrava incollata al parabrezza, non si era accorta di nulla. Non aveva avvertito nemmeno il “tunc-tunc” del cane che passava sotto le ruote.
Dovetti tirare il freno a mano e portare la leva del cambio in posizione di “folle”.
Non ci fu bisogno di scendere dall’auto, il padrone del cane, un vecchio, ci raggiunse furibondo.
«Fermi razza di pirati della strada, il mio cane!»
Ovviamente ci chiese documenti di proprietario e conducente, e l’amica di Carmen – che aveva provocato “l’incidente” – naturalmente non ne aveva.
Le due ragazze furono invitate a salire (è un eufemismo, furono prese “in ostaggio”) nell’auto del vecchio, io e Federico fummo costretti a caricare il cane ferito nella mia auto per trasportarlo al Pronto Soccorso.
Era domenica mattina, ormai abbastanza tardi da formarsi il famigerato traffico della partita. Già, perché quella domenica c’era una delle partite più decisive del campionato di calcio proprio allo Stadio San Paolo di Fuorigrotta, e le strade di Napoli e dintorni, quando c’è la partita, sono più impraticabili di quelle di Calcutta se uno volesse attraversarla nell’orario di punta con il TIR che trasporta i piloni prefabbricati destinati al ponte sullo stretto di Messina.
Il Pronto Soccorso dei cani si trovava a Licola, esattamente la parte opposta della provincia, con Napoli – e Fuorigrotta in particolare – come passaggio obbligato. Una quarantina di chilometri almeno.
Il vecchio partì come un razzo e correva come un matto. Io ero spericolato con l’auto ma non così tanto.
Imboccò la famigerata autostrada al casello di San Giorgio a Cremano, il più vicino, e noi lo seguimmo. L’ “A3” (questo il nome della “Napoli-Pompei-Salerno-Reggio Calabria”) era nota come “l’autostrada della morte” perché “fornita” di sole due corsie, molto stretta ed in alcuni punti persino senza separazione intermedia. Morivano ogni settimana diversi innocenti. Ancora oggi è così.
In quei giorni avevo un raffreddore incontenibile, il muco non si fermava mai. Mi soffiai il naso con una mano mentre con l’altra guidavo a 120 chilometri all’ora sbandando paurosamente con Federico che urlava terrorizzato e costretto – seduto sul sedile posteriore e con quello davanti ribaltato – a mantenere disgustato la povera bestia che rimetteva sangue, bava e vomito sulla mano con cui lo reggeva, nonché sul suo vestito buono e sui sedili della mia auto (ossia di mio padre).
Il tratto per Napoli era di soli sei chilometri e ben presto finì: c’immettemmo nella viabilità ordinaria. Lo spettacolo del traffico dei tifosi con le bandiere e le sciarpe azzurre della squadra del cuore, le auto completamente ferme, le trombe-spry di segnalazione marina che suonavano a tutto spiano – ed io col clacson pigiato ostinatamente dilaniato dalla massima incertezza di poter suonare (ovvero di non poter usare il clacson permanente, fazzoletto bianco e andatura vertiginosa per un pronto soccorso animale) e l’acqua alla gola del non dover perdere di vista l’auto con le ragazze, pena un inevitabile conflitto con le relative madri – non mi confortava molto nel procedere.
Ad un certo punto li stavo perdendo di vista, troppo difficile tenerli vicino nel traffico. Presi la drastica decisione di mettermi sulla corsia del tram di via Marina: non era asfaltata. Tra pietre e binari il povero cane sobbalzava e Federico che lo doveva tenere fermo (eroicamente pensai) urlava dallo schifo, pensavo, ma non era così: era spaventato dal tram che giungeva di fronte. Avevo preso la direzione sbagliata! Me ne accorsi appena in tempo per cambiare corsia istantaneamente ed evitarlo per un pelo. Solo dopo diversi secondi udii Federico trarre un sospiro.
Finalmente intravidi l’auto del vecchio ed uscii dalla carreggiata dei binari scavalcando il marciapiedi che separava le carreggiate tra auto che tentavano di non farmi passare credendomi un pirata della strada che lo faceva solo per andare avanti ed arrivare prima alla partita. Né io né Federico siamo mai stati tifosi ma questo non lo avrebbero capito se avessimo tentato di spiegarlo.
Dopo due ore di traffico arrivammo a Fuorigrotta, una specie di “EUR” alla decima potenza negativa. Lì il traffico era completamente paralizzato. Senonché dopo un tempo interminabile (che Albert Einstein non sarebbe stato capace di calcolare nemmeno con la teoria della relatività pubblicata nel dicembre del 1916) l’auto del vecchio si discostò di un paio di metri guadagnando un posto in avanti nella teoria di auto che si distendeva all’infinito. Lentamente ed inesorabilmente il posto di distanza da noi divenne due posti, poi tre… si allontanava sempre più: stavolta li perdo per sempre, pensai. Meditai frenetico finché decisi che avrei dovuto prendere un’altra drastica decisione: salire sul marciapiede. Così fu, e per conquistare una posizione definitivamente favorevole, presi una corsa del diavolo nel momento stesso in cui una pattuglia di carabinieri motociclisti si fermò istituendo un posto di blocco al bivio del Viale Augusto, esattamente davanti a noi. Dalla posizione in cui si erano piazzati noi eravamo relativamente coperti dal traffico, solo che la nostra auto era particolare: si muoveva mentre tutte le altre erano ferme.
Sempre più travagliato dal dilemma se continuare a correre suonando il clacson fisso (e beccarmi un verbale lungo un chilometro) o essere osservante del codice della strada come un cattolico della chiesa riformata (e perdere definitivamente vecchio, ragazze e speranze) mi avvicinavo inesorabilmente al posto di blocco.
«Federico, che tu sappia si può suonare in caso di pronto soccorso a un cane?»
«Sei tu quello che ha la patente!»
«Vero, ma a scuola guida non ci hanno mai parlato di questo.»
«Credo che si possa adoperare il clacson solo in casi di emergenza» fece lui dubbioso.
«E non è un’emergenza questa? Se non suoniamo il clacson, se non riusciamo a sbloccarci, perderemo il cane!»
«E le ragazze» aggiunse truce Federico.
«Il traffico si sta sbloccando anche se a rilento, fra poco arriviamo davanti ai carabinieri. Se questi ci fermano in ogni caso perdiamo ragazze e cane. Le madri ci uccideranno, mio padre passerà guai con quel tale ed io perderò patente, fiducia… ».
I carabinieri si voltarono per l’ennesima volta dalla nostra parte (si erano decisamente accorti di qualcosa di strano) mentre arrivavamo all’ineluttabile posto di blocco dal marciapiede.
Mi assalirono una decina di sensi di colpa (la fiducia di mio padre, due ragazze senza patente in una sola volta, il povero cane) ma almeno libero dal dilemma lacerante (clacson o perdita?). Mi feci coraggio ed aprii il finestrino.
«Brigadiere, mi scusi!»
Loro fecero il saluto militare aspettando cosa dicessi.
«Devo andare al pronto soccorso, sto portando un...» ma il frastuono dei tifosi non permise loro di capire.
Uno dei due si avvicinò e guardò all’interno: vide Federico seduto dietro. Immediatamente fermarono le auto in transito da tutte le direzioni.
Rimasi senza parole: c’arrestano, pensai. Come faccio con papà, ho tradito la sua fiducia, non merita questo.
Montarono in moto urlando “seguiteci!” e partirono a sirene spiegate.
«Stefano, ma che gli hai detto?»
«Niente, che dovevamo andare al pronto soccorso…»
«Ma adesso dove ci portano, quello mi ha guardato,» disse concitato Federico «e non ha neanche visto il cane!»
«Non lo so, ma sono obbligato a seguirli» risposi disperato.
Dopo qualche chilometro si fermarono a Piazzale Tecchio. Quello che aveva condotto “l’operazione” si fermò e mi invitò ad abbassare il finestrino.
«Per motivi di ordine pubblico dobbiamo tornare indietro nei pressi della galleria. Ad ogni modo non preoccupatevi, da qui dovrete solo proseguire diritto per alcune centinaia di metri. L’ospedale lo troverete sulla destra. In realtà sarebbe un ospedale per partorienti ma…» guardò di nuovo Federico «per il vostro amico andrà bene lo stesso. Auguri e fate in fretta!»
Rimasi secco. Mi voltai indietro cercando una conferma se avevo capito bene: vidi la faccia bianca e sconvolta di Federico, e capii.
«Gra… Grazie» balbettai a stento.

La Tangenziale, quell’autostrada cittadina rimasta incompleta per dieci anni, era ancora in costruzione. La dovemmo prendere lo stesso per seguire il tipo del cane. Quello fu il culmine dello sconvolgimento di Federico più che del pericolo (peraltro reale) di vita che correvamo superando persino i 120 all’ora che avevamo fatto precedentemente sull’autostrada Napoli-Pompei-Salerno-Reggio Calabria per tener dietro quel vecchio collerico. In più la Tangenziale non la conoscevo. Imparammo comunque che era molto più pericolosa dell’autostrada.

Tornammo dopo le sei a San Giorgio a Cremano, di sera.
Il cane si salvò, noi anche.
Sono passati trent’anni e non abbiamo dimenticato quella domenica.
auroraageno
00sabato 10 maggio 2008 16:57

Che vicenda!
Sospiro di sollievo perché è finita bene..!

Lo credo che non abbiate dimenticato quella domenica, anche a distanza di tanti anni.

Grazie, Stefano, d'averla raccontata

Un caro saluto

aurora



ELIPIOVEX
00sabato 10 maggio 2008 22:33
Veramente un'avventura da cardiopalmo.
Ha voluto farvela pagare la vostra ragazzata!
Stefano Starano
00lunedì 12 maggio 2008 00:17
Grazie e non d'accordo pagare
Grazie o mia Aurora,
ed a te, cara ELIPIOVEX,
credo proprio che il padrone del cane
non si sia fatto tanti scrupoli
a pretendere tutto quello che ci ha costretti a fare.
L'unica cosa di cui mi sento responsabile
è di essermi fidato a far guidare l'auto
a quella bona ma cretina
dell'amica della mia amica.
Mai più vista quella tipa.
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