LA VERA STORIA DELLA RIVOLTA DI MILANO

fiordineve
00giovedì 9 agosto 2007 23:28
LA VERA STORIA DELLA RIVOLTA DI MILANO

Walko

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(18/5/03 20:39)
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In quei giorni era Imperatore Federico I di Svevia, detto il Barbarossa per via che anni prima era caduto dalla scala ed era finito dritto con la faccia in un secchio pieno di minio (ossido di piombo) mentre verniciava il cancello del Palazzo Imperiale perché non si arrugginisse. Come Imperatore pare non fosse un granché: era sempre incazzato da mattina a sera e ce l’aveva su col Papa, pur essendo bigotto. In realtà lui non aveva niente di personale con il vescovo di Roma, ma in quegli anni dire Imperatore e Papa era come dire Inter e Milan e il Barbarossa si era dovuto adeguare. Comunque di problemi ce n’erano, eccome. A parte le pestilenze e le carestie che in quell’epoca erano molto di moda, non se ne poteva fare a meno per non passare da bastian contrari, ma tutto sommato erano una gran scocciatura. Alle porte dell’Impero bussavano gli Arabi e siccome nessuno andava mai ad aprire giustamente si incazzavano. Per non parlare delle crociate che ogni tanto al Papa gli veniva in mente di fare, e bisognava andarci, non c’erano santi! Eh sì, perché il Papa aveva il potere della scomunica e se l’Imperatore vi fosse incorso sarebbe stata una tragedia, perché per convenzione l’Imperatore scomunicato perdeva ogni potere e non veniva più obbedito e rispettato da nessuno. Così se per esempio, dopo essere caduto in scomunica, il Barbarossa avesse detto a Geltrude (la sua colf a ore): “Geltrude, per favore mi prepara un caffè?”, lei avrebbe risposto: “Fattelo da solo, testa di wurstel”. Non avrebbe nemmeno potuto uscire di casa per andare a fare la spesa (la Geltrude: “se vuoi mangiare vattene a comprare, se no ti mangi le gambe del tavolo!”), perché per strada avrebbero cominciato tutti a fargli pernacchie e ombrelli, e non era da escludere l’arrivo di qualche calcio in culo. Per evitare simili sciagure non restava che fare ammazzare il Papa e nominare al suo posto un amico Anti-papa, sperando che non facesse subito il voltafaccia appena eletto, ma erano comunque cose brutte e poi i sicari costavano tre occhi della testa e il Barbarossa ne aveva solo due ed era anche miope. Se si aggiunge che non avevano ancora inventato gli occhiali e che la Germania aveva perso la finale dei Mondiali contro i Turchi, per uno a zero con un gol di testa del Feroce Saladino in netto fuori gioco non visto dall’arbitro (un papista fra l’altro, marito di una nota ninfomame che si era portata a letto tutta la Curia Romana), mettendo tutto insieme si capisce perché l’Imperatore era sempre incazzato come una biscia. E proprio in quei giorni una nuova rottura di palle venne ad amareggiare la vita del vecchio Imperatore (che poi non aveva nemmeno trent’anni, ma ne dimostrava novanta a causa delle molte preoccupazioni): in tutto l’Impero, passata di colpo la moda dei pellegrinaggi presso sacri luoghi (Gerusalemme, Betlemme, Nazaret, Saint Moritz, Saint Vincent, Sanremo, Disneyland) , era scoppiata la febbre dell’indipendenza. Ormai, nel volgere di pochi mesi, se uno non si definiva “indipendentista” era praticamente tagliato fuori, nessuno lo invitava alle feste, nemmeno se avesse portato una camionata di spumante (“No Indipendentista? No party” e slam la porta in faccia), veniva additato da tutti: “guarda quello lì, non è indipendentista, poveraccio!”. Fu così che in varie città dell’Impero si crearono Leghe per l’indipendenza dall’Impero e scoppiarono rivolte: i vari delegati imperiali, vassalli, valvassori, prefetti e direttori artistici venivano cacciati via a pedate nel culo così com’erano, in camicia da notte e senza nemmeno dargli il tempo di prendere lo spazzolino da denti, i Municipi venivano occupati dai rivoltosi che dichiaravano solennemente l’Indipendenza dall’Impero. Il Barbarossa si vide costretto a inviare l’esercito e in molti casi a recarsi lui stesso nei luoghi in rivolta, per cingere d’assedio i ribelli, rimasti chiusi di primo mattino nei municipi occupati senza viveri, mentre tutt’intorno il Barbarossa e i suoi uomini preparavano pietanze prelibate e con l’ausilio di ventilatori ne indirizzavano il profumo verso le finestre cui avevano prima provveduto a rompere i vetri a sassate. Gli eroici asserragliati si arresero tutti all’ora di cena, dopo un’estenuante resistenza durata in qualche caso addirittura dodici ore, cioè dopo aver saltato colazione, pranzo e merenda. Ma la piaga dell’indipendentismo si allargava, sinché dilagò nella pianura Padana e arrivò a Milano.
In quei giorni nel capoluogo ambrosiano fervevano i preparativi per il carnevale. Il più riuscito dei carri allegorici quell’anno era senza alcun dubbio il Carroccio, predisposto per sfilare per le vie cittadine e anche a Viareggio, per concorrere all’assegnazione del premio al miglior carro carnascialesco dell’anno. Tutto era pronto e predisposto, mancava solo di montare sul Carroccio l’immenso pupazzo rappresentante Maometto vestito da Papa, quando anche a Milano arrivò e si propagò in un lampo la peste dell’Indipendenza. Il mastro costruttore del Carroccio, un certo Brambilla, trasformò in poche ore la sua creazione in un carro da guerra dotato di fionde giganti e di catapulte e con questo attaccarono di sorpresa il Palazzo Comunale. Il Governatore imperiale uscì dal palazzo, devastato dal lancio di pietre, balle di paglia incendiate e lattine di birra, con la bandiera bianca alzata chiedendo di trattare, ma fu subito seppellito da una catapultata di sterco duro di cavallo misto a merda molle di bue; a quel punto i rivoltosi entrarono trionfalmente col Carroccio nel palazzo municipale, sollevando al cielo tutti in coro le note altissime di “Dàghela avanti un passo” (e la bella Gigogìn, trallallilleralillallera, la va a spass col so’ spincìn, trallallilleralillallà). Immediatamente il mastro costruttore del Carroccio assunse il ruolo di leader degli Indipendentisti, con il nome di Barbaverde, probabilmente in spregio all’Imperatore. Si formò in pochi giorni una Lega dei Comuni lombardi e padani che si erano resi indipendenti: l’unione fa la forza, si disse, e così meglio si sarebbe potuta fronteggiare la reazione imperiale.
Quando giunse a Corte la notizia della rivolta di Milano, il Barbarossa era più incazzato del solito per via di un attacco di emorroidi che unito al meteorismo del quale soffriva da anni gli procurava dolori terrificanti nelle retro-regioni basse e siccome l’unica cura conosciuta a quel tempo era l’immersione della parte dolorante in acqua tiepida, dopo aver tirato una delle sue proverbiali scoregge prolungate con le quali usava radunare l’esercito, che nell’occasione gli aumentò nel contempo il bruciore e la collera, si fece montare una bacinella colma d’acqua sulla sella del cavallo, si tolse le mutande e vi si assise, lanciando poi il suo terribile proclama:
- Soldati dell’Impero, indomiti combattenti di Germania! Muoviamo ordunque alla volta di Milano per sedare la rivolta, riportare l’ordine e ripristinare ivi il potere e le insegne imperiali! Ma in questo caso non voglio sentir nemmeno parlare di assedio! Intendo infliggere all’antica e illustre città ribelle una punizione esemplare, ché sia per chiunque memoria e monito della potenza e della ferocia del potere centrale del Sacro Impero! Metteremo a ferro e a fuoco Milano! Non lasceremo pietra su pietra di quella città, raderemo al suolo tutti i suoi edifici, a cominciare dal Colosseo!

Il Barbarossa era molto ignorante in fatto di storia dell’arte. I militi dell’Impero risposero all’unisono con un “Heil” sinistro e altisonante, si armarono fino ai denti, si corazzarono e partirono a piedi dietro all’Imperatore che procedeva al galoppo. Arrivarono alle porte di Milano dopo meno di una settimana, stremati e con le piante dei piedi fumanti. Dovettero sostare per due settimane in un Agriturismo della Brianza, per riprendere le forze, col Barbarossa che durante l’attesa scalpitava e scoreggiava a più non posso.
In quella fase di stallo a Milano si discuteva di politica e tattica, oltre che di calcio. Una delegazione di Indipendentisti indipendenti si recò al palazzo municipale per cercare di convincere il Brambilla Barbaverde ad allargare le alleanze. Il loro argomentare era sensato ed opportuno:
- In tutta la penisola ormai lo spirito dell’Indipendenza ha preso piede, ovunque si stanno organizzando rivolte. Il Papa stesso è favorevole e appoggia materialmente i ribelli. In questo quadro cresce e si va imponendo un nuovo spirito nazionale. Nel contempo il Barbarossa sta per invadere Milano e la sua caduta sarebbe un colpo mortale per tutto il movimento indipendentista. Si rende necessario stringere accordi oltre la Lega dei Comuni lombardi, con Genova, Bologna, Firenze, Napoli, Palermo e la stessa Roma e tutti insieme ricacciare oltre le Alpi l’invasore. Questo è il momento di fare l’Italia!
- Italia? Che roba l’è?
Tuono con voce cavernosa Barbaverde.
- L’Italia è… sarebbe l’unione delle genti dalle Alpi alla Sicilia…
- Sì, dal Manzanarre al Reno! Disem minga di’ cagat! Non diciamo cagate! Da dove esce sta roba qui dell’Italia? Italia non era il nome antico della Calabria? Noi qui siamo Padania, ‘sti rob chì de l’Italia i lassem ai teruni! Capito? Ste robe le lasciamo ai meridionali!
- Ma siamo tutti Italiani!
- Per la carità, mis-cem no la merda @#%$ el gran, non mischiamo la merda con il grano! Quella là è gente rozza, infida, un po’ araba e un po’ africana, gente puzzolente che sa solo cantare e rubare! Via, via! Non abbiamo bisogno di quelli là, al Barbarossa ci penso io a rompergli il culo, porca troia! A lui e a suoi quater tognìn del menga, a lui e ai suoi quattro tedeschi del cazzo, capito? Mi fanno un baffo me quelli lì! Pòta! E ‘des’ andé foera di’ ciapp, andate fuori dalle balle che ho da fare!

Concluse Barbaverde con la proverbiale raffinatezza del suo eloquio. Poco dopo, sentendo un movimento sussultorio sotto i suoi piedi e vedendo cadere calcinacci e tremare suppellettili d’intorno, pensò cupo fra sé: “ecco, basta nominare i terroni per tirarsi la sfiga addosso: ci mancava il terremoto!” . Ma non era il terremoto. Erano il Barbarossa e i suoi trecentomila armigeri che marciavano per le vie di Milano, diretti verso il palazzo comunale.
La battaglia fu breve, ma intensa. Appena ripreso il potere il Barbarossa ordinò di radere al suolo Milano, cominciando dal Colosseo, come si era solennemente impegnato a fare. Proprio il ritardo causato dall’inutile ricerca del Colosseo in tutti gli angoli del capoluogo ambrosiano da parte degli armigeri imperiali, permise di intavolare trattative. Molto si debbe all’intervento dell’allora giovane cardinale Carlo Maria Martini, futuro vescovo di Milano, che tanto insistette e perorò e supplicò e predicò, fino a fiaccare l’Imperatore, che infine accettò di scendere a patti pur di levarselo di torno. Barbarossa, reso malleabile anche dal rientro della sua crisi di emorroidi e decisamente sollevato d’umore dalla scoperta dell’osso buco e del risotto con lo zafferano, accettò di risparmiare la città dalla distruzione e persino di revocare la condanna a morte per i capi della rivolta, tramutando la pena capitale in pubblica mutilazione. Decise di comminare egli stesso la pena al leader del movimento, che il giorno seguente fu portato in piazza nudo e con i polsi legati dietro la schiena, in piedi sul suo Carroccio. Lo fecero scendere e salire sul palco, dove si trovò faccia a faccia con l’Imperatore.
- Così tu saresti Barbaverde! Quanto sei brutto!
- Sarai bello te!
- Osi ancora fare il galletto? Mettetelo in posizione per la mutilazione! Qui finisce la tua carriera di ribelle, terrone che non sei altro!
- Uhè, terone a me? Mi son lombard! Capito Barbarossa? Lombardo! Padano!
- E allora? Io sono tedesco. Quindi in confronto a me sei un terrone.

E detto questo sguainò la spada e con un sol preciso colpo mutilò il Barbaverde, che da quel giorno cambiò nome e fu detto “Brambila el Capùn” (Brambilla il Cappone).
Morale: attenti quando pensate che sia giusto disprezzare chi è nato un po’ più a sud, perché c’è sempre un nord un po’ più nord di voi.





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