Federica
Quella mattina di mercoledì 2 luglio del 1986 ero in alto mare, il mare grigio della depressione.
Diciamo che i pensieri quella mattina non erano dei migliori. Pensavo e ripensavo ormai da alcuni mesi alla mia amica-sorella Giorgia. Era successo che un giorno, ad una mia richiesta di cercare di capirmi (in un periodo interiore particolarmente incasinato in cui non capivo più nemmeno cosa provassi per lei) lei avesse risposto “capire, capire, cosa significa capire?”.
Ero rimasto secco a quella risposta, tutto mi sarei aspettato, ma non una risposta così. Un pugno in faccia sarebbe stato molto più accettabile.
Mentalmente immaginavo la scena in cui la rivedevo per chiederle il miracolo di ritornare come prima. Chiedevo, imploravo “anche se devi fingere, ti prego, non dirmi che sto dicendo un mucchio di cazzate, non mi considerare uno scemo, non mi giudicare con distacco…”.
Mi veniva anche da dirle “tu sei mia sorella, ti supplico, dimmi che sei con me”.
Da morire, veramente!
La notte non era stata meglio della mattina, comunque meno peggio da quando praticavo la cura omeopatica che la cartomante-psicologa rumena mi aveva consigliato. Almeno un po’ dormivo.
Indubbiamente uno dei peggiori periodi della vita, mentalmente intendo. Non so voi, ma quando uno c’incappa sembra non doverne uscire mai, tanto peggio il fatto che non riesci a descriverlo; dall’esterno non avrebbe capito nessuno (né tantomeno da ché dipendeva esattamente). Ed io stesso, una delusione in amore la capirei, ma in amicizia... Basta questo per stare male mesi interi? Certo è che bastava a me per essere angosciato tanto da impedirmi di vivere normalmente. Be’, “fuori” apparivo normale, “dentro” era tutta un’altra cosa. Un po’ come descrive Karen Horney ne “I nostri conflitti interni” nel capitolo della disperazione nevrotica.
Provo a chiamare Annarita ma non c’è. Stavo male già da un po’ di giorni e volevo chiederle di aiutarmi. Lei era giovane, intelligente ed aveva poteri paranormali (senza volerlo) che però non controllava affatto; a me tutto ciò mi tranquillizzava e mi confortava. Il fatto che fosse anche una persona disponibile ed intellettualmente stimolante era una cosa in più.
Decido allora di andare da Osvaldo Trica, mio amico (più caro ed intimo che mai ora che mi trovavo nella merda) forse come non lo eravamo dai primi tempi quando ci frequentavamo con Guido, nel 1967, e poi con Federico nel mitico 1968. Guido si estromise un po’ per studiare quando andò in prima liceo, Federico ormai viveva fuori Napoli.
La madre mi offrì dei fagioli e del prosciutto cotto, dopodiché invito Osvaldo a mangiare dai miei. Scendendo dopo pranzo incontriamo una ragazza, mia ex vicina di casa, Federica; altro che ragazza, ci disse che era medico specialista in nefrologia da tre anni. Come citava Carlo, altro vecchio amico, “il tempo passa e l’uom non se ne avvede”.
Osvaldo, al cospetto di Federica, si sente un fallito perché sta molto indietro negli studi di medicina, ma questo me lo dice dopo, quando nessuno può ascoltarci. Federica era una ragazza molto timida, era la prima volta che si parlava insieme così a lungo, lungo le scale di casa dei miei. Lei e Osvaldo si conoscevano già, io non sapevo di questa loro amicizia, per me era solo la mia vicina andata via.
Torniamo infine ognuno a casa sua, Osvaldo aveva bisogno di riposare, aveva avuto una mattinata estremamente defatigante al 2° Policlinico di Napoli. Io avevo dei lavoretti da completare.
* * *
Dopo aver tentato di montare con grande insuccesso un demiscelatore d’antenna per creare due uscite da un’antenna (per il piccolo televisore del bagno), telefono ad Angela di Corbara, e non c’è; di nuovo ad Annarita e sta fuori (non era venuta nemmeno a mangiare). Poi a Maurizio, ex collega della Marina Militare; eravamo rimasti che ci rivedevamo forse in serata ma poi aveva avuto “l’ordine” di andare nell’ufficio dal quale dipendeva per studiare programmazione informatica. Poi telefono alla piccola Stefania di Roma, mi dice che sta preparandosi per andare in Inghilterra: ci rimane un mese e mezzo. Io non le dico di me (di come sto) e la telefonata si esaurisce presto.
Piango, solo come un cane, anche se difficilmente un cane si sarebbe potuto sentire così solo.
M’incammino allora barcollando verso casa di Osvaldo (forse dormiva ancora, avrei disturbato?). Stranamente lui si sveglia un attimo prima che io suonassi al citofono: aveva udito il mio tentativo di aprire il portone, un portone che era sempre aperto tranne quella volta. Mi aprì.
Andiamo insieme dal calzolaio, don Peppe, simpatico ed efficiente come sempre. Quando andavamo nella sua bottega, accadevano poi sempre cose particolari, coincidenze, incontri particolari…
* * *
Salendo in auto, chiedo a Osvaldo una cosa che mi mulinellava da un po’ nella testa: «Osvaldo, chi ti piacerebbe vedere adesso fra i “trovabili”?». Intendevo con “trovabili” persone non lontane, era un’aggiunta necessaria: ce n’erano diverse che pure conoscevamo, e che ci avrebbe fatto piacere incontrare, ma che ormai vivevano fuori.
«Non so,» disse lui «sto passando (mentalmente) in rassegna».
Intanto eravamo giunti a Napoli. Io stavo pensando a una Federica di Dinamica Mentale che avevo conosciuto, che era bella e con la quale sentivo delle forti affinità. Ne avevo parlato in precedenza con Osvaldo, così come per tutte le amicizie e le conoscenze significative.
«Anche fra quelle che non conosci» aggiunsi.
«Federica» mi dice. E tutti e due sapevamo che non intendeva la nefrologa.
Un’inversione tra un filobus in arrivo ed un’auto che stava uscendo da un palazzo – e che sfruttai come “scudo” per cambiare corsia nel traffico cittadino – e via, verso la Riviera di Chiaia dove abitava Federica.
Arrivati in zona però ho una ricaduta. Inizio a sentirmi venir meno psicologicamente: la depressione, non mi aveva mollato.
Iniziano a venirmi dubbi e pensieri neri. Cerco di pensare a quello che devo fare, a quello che può succedere, del tipo l’avviso prima per telefono - ci possiamo presentare così in due a casa sua - Osvaldo non lo conosce nemmeno eccetera eccetera. Sapevo dalle sue confidenze che il padre era ossessivamente repressivo, che la madre psicolabile soffriva d’improvvisi impeti di ira immotivati. E infine, come avrei parlato davanti al portiere, avrei detto che mi trovavo di passaggio? E come avrebbe reagito questi? Poi mi chiedevo, perché cercare scuse, non era forse un’amica? Ma è un amica? Mi è veramente amica? In effetti non mi ha mai telefonato di sua iniziativa. Eppoi sapevo che lei di tempo non ne aveva molto tra problemi di disoccupazione, rapporti controversi con il ragazzo, con i genitori e così via. Ma, cosa più importante, c’era da chiedersi: problemi a parte, lei mi pensa, mi vuole vedere? Chi troverò veramente dall’altra parte del filo?
Pensieri e angoscia camminavano di pari passo senza fermarsi un attimo. Ero agitato, piangevo singhiozzando sommessamente la mia disperazione e la mia rabbia.
Giorgia si riaffacciava alla mente… sentivo il rumore di tutte le porte sbattutemi in faccia dalle donne.
Essere condannato alla solitudine. Un’amica, un entusiasmo all’inizio, poi… ognuno per la sua strada; e di nuovo solo per l’ amara via del “far-da-sé”. Per forza dovevi far da te, nessuno t’aiuta se non t’aiuti. Solo che io non ce la facevo, in quei momenti, e non lo potevo dire a nessuno ché altrimenti sarebbe stata la fine, sarebbe stato ufficializzare per sempre il mio abisso. Così invece potevo sperare che il fantasma non esistesse, potevo credere che lo vedessi solo io.
Dovevo fingere per sopravvivere, fingere di volercela fare da solo…
Durante questi lugubri pensieri mi sentii tanto male che mi vennero delle fitte alla pancia. Tensione, paura e dolore non mi incoraggiavano per niente a telefonare da quel bar. M’allontanai con la scusa della folla (ma venivano quasi tutti dopo di me) e andammo a cercare una cabina telefonica.
Trovammo una cabina, era libera, non avevo scuse per non telefonare. Composi il numero: occupato. Ritento: suona a lungo ma nessuno risponde.
«Okay, andiamo a citofonare» mi fa Osvaldo.
Con le gambe di mozzarella lo seguo riluttante ma incapace a dir di no.
Il portiere non dice nulla, mi dà la cornetta. Non rispondono. Mi sentii quasi sollevato ma all’improvviso rispose una vocina: era la sorella minore. Per risponder lei forse Federica non c’era.
«Aspetta, adesso la chiamo.» C’era.
E adesso? Come avrei giustificato il fatto che ero andato lì senza avvisarla, col rischio di incontrare il padre o la madre?
«Vuoi salire?» mi fa.
«Veramente non sono solo, sto insieme a un amico.»
«Va bene, sale anche lui. Anzi, vuoi che scenda io? Dimmi tu.»
«No, fai come è meglio per te.»
«Per me è uguale,» risponde lei «va be’, scendo un attimo. Devo fare i piatti e poi viene Remo.»
Remo era il ragazzo che lei aveva lasciato e con il quale non si trovava per niente bene (l’aveva trattata male da tutti i punti di vista: fisico, psichico e morale) e che ha chiesto di sposarla fra due mesi, e lei – che manco si sognava di sposarsi (e men che mai con lui) – aveva detto di sì (senza saperne il perché).
Giù, fuori al palazzo, ci mettiamo a parlare; fa la conoscenza di Osvaldo, capisce che ci si può fidare (sfido io, e dove lo trova un altro Osvaldo!) ed inizia a parlare di sé.
Con Remo aveva rotto, però si vedevano. Il padre ha tolto il telefono da casa rimanendo la suoneria così quando lei la sente si rode il fegato. Carino, eh? In quel momento ho pensato: non è degno di essere padre, ma poi ragionando fra me e me ricordo che ne ho conosciuto tanti di tipi così… e poiché nel frattempo mi ero calmato non rispondo, ascolto.
Mentre parla la tocco per vedere se è vera, le stringo le spalle col braccio, cingendola; guardo Osvaldo e gli dico: «è lei, la mia amica.»
Ancora non ci credo che è lì, realmente amica, una-con-me. Non un sogno ma una che esiste realmente, e che era dalla mia parte prima ancora che ci conoscessimo.
C’invita a salire.
Proprio in quel momento incontro Lino, ovvero Pasquale De Rogatis, una persona molto positiva anche se l’avevo frequentata poco. L’ultima volta che lo incontrai era ad Arcinazzo il 13 ottobre 1985: stava passando per caso fuori la chiesa dove mi stavo sposando senza saper nulla del matrimonio (infatti mi salutò e poi dovette proseguire). E dire che Arcinazzo non era affatto un luogo frequentato da napoletani e, in verità, al di fuori dell’estate nemmeno da molti altri che non siano romani. Ora si trovava lì ancora una volta per caso. Non fu l’ultimo caso ma questa volta la sua presenza mi rincuorò. Quell’ incontro suonò come uno insolito auspicio.
Una serie di coincidenze erano avvenute in presenza di persone per me molto particolari, anche se in maniera molto diversa, quali Osvaldo e Federica.
* * *
Giunti in casa diedi dimostrazione delle qualità magico-geometriche dell’anello di Moëbius (che sarebbe un anello spezzato in un punto, e ricongiunto ma... torcendo la sezione di 180° ad uno dei due estremi – cioè girando il punto spezzato di mezzo giro). Nel frattempo arrivò il fatidico Remo; Federica me lo presenta, poi lo presenta a Osvaldo, e continuo la dimostrazione. Inizio con l’anello che, tagliato a metà lungo tutta la sua lunghezza, invece di diventare (secondo la logica) due anelli più sottili, diventa un unico anello più largo e più sottile. Finisco poi con un taglio a un terzo che lo fa diventare due anelli, uno più corto, l’altro più lungo, uno incatenato all’altro.
Rimangono tutti esterrefatti. Remo era il più scettico, fino all’ultimo (come ce lo aveva descritto Federica non poteva che essere così); perciò alla conclusione fu quello che ci rimase più secco.
Dopo chiedo del pianoforte: sta in camera di Federica. Attraversiamo lunghi corridoi classici di quella casa incredibilmente panoramica – praticamente si godeva tutto il Golfo di Napoli – bella come lei. Suono la mia brevissima “mi-si-mi” “mi-la-mi” con fa, re, e do sempre più bassi, poi quella senza nome con molti 5/4: lei rimane di stucco, come anche Osvaldo; le piacciono, le mie assurde musiche le piacciono! È proprio “una dei nostri” (o “una come noi” come l’ha poi definita Osvaldo). Poi si ritorna nel salone a parlare di cose intime e profonde, dell’entrare (o far entrare) qualcuno nel proprio castello, nel proprio mondo.
Lei ha avuto delle delusioni da un’amica, anzi si corregge, “delusione”: una e buona.
La sua migliore amica aveva letto tutto di lei, sapeva tutto, era stata sua ospite a dormire, era stata aiutata psicologicamente (non usciva di casa e Federica per giorni, mesi, stava con lei a dividere quei giorni rinchiusa insieme alla sua fobia). Era stata nel “castello” di Federica.
Un giorno, all’improvviso, l’amica l’ha semplicemente esclusa dalla sua vita.
Federica non ha potuto contare su di lei più su niente, né per le cose importanti né per le banali: quando ne ha avuto bisogno, Federica ha trovato tutte le porte chiuse.
Io cercavo di mitigare la ferita, dicevo che forse c’era qualche motivo e che comunque un po’ bisogna rischiare nel rapporto con gli altri (diciamo ti può arrivare una pugnalata un amico su dieci). Poi le ho chiesto come si chiamava questa presunta amica, così, per curiosità: “Maria Giorgia” fu la risposta. Ovviamente non era “quella” Giorgia, però – chissà perché – mi uscì spontaneo dire: «Questa tua amica è una stronza! Non ha capito un cazzo della vita, ma proprio un cazzo: è proprio una stronza totale!».
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Venuti di pomeriggio s’era fatto già sera. Chissà perché con le persone belle il tempo trascorre sempre troppo velocemente.
Ci salutiamo, lei ci accompagna sin quasi dentro l’ascensore. Le confido che m’era passato per la testa di regalarle un anello di Moëbius.
«Sì, dai, ti prego. Che bello, fallo.» Chi se l’aspettava?
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In auto parliamo della delusione avuta in passato dalla mia Giorgia (che m’ha condizionato moltissimo); a proposito, il vero nome di Giorgia è Maria Giorgia (l’avevo scoperto una volta accompagnandola allo sportello dell’Università a fare dei documenti). Parlammo anche della delusione di Federica, della sua bellezza, quando all’improvviso Osvaldo ammutolisce. Cerco di capire cosa succede, lo sollecito. Gli escono a stento le parole “il padre di Anna” ed indica un’auto che stava proprio lì, davanti la nostra.
Anna era la sua “lei”, quella per la quale aveva gettato gli studi di medicina alle ortiche, si era rovinato la salute – soprattutto quella psichica (fu preso da paranoia) e tante altre cose ancora. Eravamo a Mergellina: improbabile incontrare quel giorno, a quell’ora ed in quel posto, due persone di Barra (perché in auto c’era probabilmente Anna a fianco del padre); sarebbe stato come incontrare un muratore di Pollena Trocchia fra i tecnici della stazione orbitante. E forse era singolare anche l’analogia che legava Anna a Giorgia. Il fatto che ciò accadesse proprio di ritorno da un incontro così particolare e significativo, con un’amica che forse mi avrebbe aiutato nella mia lotta interiore, contro quello che era diventato ormai il mio mostro, il mio nemico: Giorgia. E chi era Anna se non la “Giorgia” di Osvaldo, ovvero il suo mostro interiore? Quello che gli aveva fatto perdere la pace e l’equilibrio?
Tutto ciò nel giorno in cui poche ore prima avevamo lasciato la bottega di don Peppe, punto d’incrocio di inverosimili coincidenze.
* * *
Di ritorno decido di richiamare subito la piccola Stefania di Roma: le rivelo che prima l’avevo telefonato perché in realtà stavo male e perché avevo bisogno di lei, cioè di una persona con cui parlare, sentirmi vicino, e le confidai che pensavo che lei potesse darmi tutte queste cose.
Lei mi dice “certo, ci mancherebbe altro che non fosse così”.
Non avevo che da dirglielo.
“Scrivimi” aggiunse “mi raccomando Stefano, scrivimi”. Dopo conosciuta infatti non c’eravamo più visti, ma c’era stato un bel rapporto epistolare.
Naturalmente Osvaldo rimane a cena con noi, cioè me e Fausta. E parliamo di tutto quello che ci è capitato questa giornata, la giornata in cui siamo stati nella bottega di don Peppe.