L'UOMO DEI VETRI

Fiordipoesia
00martedì 25 gennaio 2005 16:17
Riparto da un vecchio racconto (1997) che nel caso viene a porsi, anche suo malgrado, come anticipazione del lavoro a puntate che posterò in seguito, nel quale tornano i due personaggi di questo racconto che è poi una specie di favola allegorica. Il lavoro successivo ("Alla ricerca del Sacro Graal") è nato e si è sviluppato nel 2002 tutto all'interno di un circolo culturale web (Libere Parole) che si è sciolto l'estate scorsa e che aveva anche originato due Siti ("Libere Parole" creativo-letterario e "L'Isola che ci sarà" eminentemente culturale e comunitario) l'uno in seguito trasformato in spazio personale e l'altro definitivamente chiuso, ma in altri tempi piuttosto attivi (frequentati e conosciuti anche da alcuni amici di "Fiori di parola" come Cobite, Danzando, Fiordineve e Kate Orlandow che ha fatto stabilmente parte del "Club Libere Parole" per tutto il periodo della sua attività). Il lavoro di cui parlo è nato a livello sperimentale come momento di scrittura collettiva di un romanzo che ha per co-protagonisti gli stessi autori; il risultato è stato, a mio parere, positivo oltre ogni previsione. Ora ho deciso di farlo uscire dalla semi-clandestinità e ve lo proporrò a puntate. Per adesso però, facciamo un passo indietro e dedichiamoci al...


L'UOMO DEI VETRI

L’uomo dei vetri aveva anche un nome. Nessuno lo sapeva, ma si chiamava Zeno, perché suo padre aveva letto un libro, una volta, da giovane, non ci aveva capito granché, e anche quel poco se lo era subito dimenticato, ma gli era rimasto impresso il nome del protagonista, e il titolo del libro, per cui aveva deciso che, se il suo primo, e anche unico figlio doveva essere un uomo di coscienza, come in effetti avrebbe desiderato, già nel suo nome doveva essere rappresentato un augurio, ed insieme una premessa in tal senso. Zeno, l’uomo dei vetri, era ancora un ragazzo quando cominciò a lavorare al Palazzone, nel centro commerciale della Città, come pulitore delle sue grandi vetrate. Nel Palazzone c’erano solo uffici, tantissimi uffici, pieni di uomini e donne affaccendati, non si sa bene in quali mansioni e per quali finalità, ma l’opinione comune era che in quel palazzo, appunto il Palazzone, alto quarantotto piani e lungo un’intera via di duecento metri, la Via del Palazzone, si facessero cose molto importanti, addirittura decisive per la Città, e forse anche per la Nazione, tanto è vero che, ogni quattro o cinque anni, veniva in visita il Presidente in persona: arrivava sempre intorno alle undici del mattino, con una fila di automobili scure, attorniato da una settantina di persone estremamente rumorose, e tutto il corteo veniva risucchiato dal Palazzone nel volgere di dieci convulsi minuti. La gente, in quell’occasione, dietro le transenne applaudiva e sorrideva, gli uomini adulti sollevavano i bambini e dicevano: “Guarda, quello è il Presidente!”. Con il tempo, quei bambini crescevano, diventavano adulti, e a loro volta sollevavano nuovi bambini dicendo “Guarda, quello è il Presidente!”, e anche lui, il Presidente, non era più lo stesso di prima. Poi anche i nuovi bambini diventavano adulti, e così via. Di uguale, col tempo, restavano solo la scena, le transenne e il Palazzone. E l’uomo dei vetri. Zeno era nato lì, nella Via del Palazzone, ma quando lui era nato si chiamava ancora Via dei Prati Fioriti, e del Palazzone c’erano solo le fondamenta. All’età di un anno, quando aveva cominciato a dare un contorno ed un significato alle cose che lo circondavano, il Palazzone c’era già, tutto intero, completo delle sue grandi vetrate che la luce trasformava in apparenti specchi, e tutto intorno la strada, i marciapiedi, l’asfalto. Il suo mondo era lì, la sua casa di fronte al Palazzone, la scuola di fianco. A quattordici anni, finita la scuola dell’obbligo e dimenticata del tutto l’infanzia, era entrato per la prima, ed unica, volta proprio dentro al Palazzone, accompagnato da suo padre che nell’occasione non si dimostrava molto autoritario, ma anzi, di fronte al tipo in giacca, camicia, cravatta e occhiali che siedeva dietro a una scrivania, stava con la testa china e un sorriso permanente stampato in faccia, in una mano stringeva il cappello e teneva l’altra appoggiata sulla testa del figlio, ogni tanto abbozzando una specie di carezza. Il giorno stesso Zeno era salito sul ponteggio volante, un’asse appesa con due corde laterali, sistemate a carrucola, tirando le quali poteva salire fino al quarantottesimo piano e ridiscendere sino al primo, a piacimento. Era diventato, così, il ragazzo dei vetri, armato di secchio, spazzolone e strofinacci, che lavorava sino a sera e poi rientrava a casa. Questo per un certo periodo, forse qualche anno. Poi, ritrovatosi solo al mondo, divenuto ormai l’uomo dei vetri, cominciò a non rientrare più, la sera. All’ultimo piano c’era il rubinetto esterno per riempire il secchio e la cabina del cambio degli strofinacci, dove qualcuno nottetempo veniva a ritirare quelli sporchi e a sostituirli con stracci puliti che l’uomo dei vetri trovava ogni mattino, quando iniziava il lavoro. Accanto, c’era la mensa self-service, dove bastava pigiare un tasto per avere il rifornimento di cibo. Così Zeno cominciò a vivere sul ponteggio volante: vi lavorava dall’alba al tramonto, con perizia e precisione, vi mangiava, vi dormiva. Non ne ridiscese, per tutti gli anni a venire, ma non si può dire che fosse per una scelta precisa: capitò così, senza nemmeno che se ne rendesse conto, come una cosa normale, insieme a tutte le altre cose circostanti, il cielo, la nebbia, il fumo, la pioggia, la notte, il giorno, il Palazzone e, laggiù in fondo, la strada. Cioè a dire: il mondo.
L’uomo dei vetri prestava il suo servizio con molta coscienza, ogni giorno dell’anno, senza sosta per ferie o feste di cui neppure ricordava l’esistenza. Nemmeno un millimetro di vetro restava immune da una passata del suo strofinaccio, neppure un granello di polvere veniva trascurato dal suo spazzolone. Sul suo ponteggio lungo come tutto il palazzo, l’uomo dei vetri partiva dall’ultimo piano, dove si era fermato a dormire, e scendeva sino al primo, insaponando e lavando le vetrate; il piano terra non gli competeva, perché era tutto di cemento, e la porta di ingresso era un cancello di ferro. Al primo piano si fermava per il pranzo, senza nemmeno per un attimo appoggiare lo sguardo di sotto, al marciapiede, alla strada, che a quell’ora erano sempre vuoti. Una breve pennichella e poi via, cominciava a salire, un piano alla volta, sino all’ultimo, spolverando le vetrate. La strada si riempiva di nuovo, piano piano, ma nessuno si accorgeva mai di quell’uomo sospeso sul ponteggio volante. Anche le persone che lavoravano all’interno del Palazzone non si accorgevano affatto di lui, e forse ignoravano del tutto la sua esistenza.
Né, sia detto per inciso, l’uomo dei vetri si curava di loro: sapeva che erano lì, al di là di quelle vetrate, e che facevano cose importanti, perché chi lavorava nel Palazzone faceva solo cose importanti, ma non sapeva neppure quali fossero, non gli interessava affatto, e non aveva mai visto il viso, né sentito la voce, di una sola di quelle persone. Ne ascoltava il rumoreggiare indistinto, suoni sparsi di voci senza parole, di stampanti e di telescriventi, passi, ticchettii di tasti, campanelli, e nient’altro. In fondo, l’uomo dei vetri non si rendeva neppure conto della propria solitudine, perché anche questa era un fatto normale, scontato come tutto quanto il resto. Ma a volte, la solitudine portata alle estreme conseguenze, provoca fatti alquanto inspiegabili, forse miracolosi. Così, un giorno d’estate, terminato il lavoro che era ancora chiaro abbastanza da non mettersi subito a dormire, l’uomo dei vetri cominciò a passeggiare su e giu per i suoi duecento metri di ponteggio volante, e ritornando al punto di partenza vide un’apparente figura umana, un giovane seduto sul ponteggio, con le gambe penzoloni nel vuoto e un paio di ali dietro la schiena, come fossero richiuse. Si stupì molto di quella visione, e avrebbe voluto rivolgergli subito qualche domanda, che ci facesse lì, come c’era arrivato, ma non parlava da così tanti anni che la voce gli stentava ad uscire. Il giovane lo guardava stupito, come fosse sorpreso che l’uomo dei vetri avanzasse verso di lui, continuando a fissare nella sua direzione, tanto che, a un certo punto, si voltò, come a cercare quel che potesse avere attirato l’attenzione di Zeno esattamente dietro di lui, oltre a lui. L’uomo dei vetri, nel frattempo, era faticosamente riuscito a schiarirsi la voce, con un po’ di esercizio e di deglutizioni della propria saliva, e quando fu di fronte al giovane, senza nemmeno salutarlo, perché non era abituato alle consuetudini della vita in società, gli rivolse la prima domanda che riuscì ad articolare:
- Chi sei?
Il giovane parve trasecolare.
- Io???
- Sì, tu. Non c’è nessun’altro.
- Ma...mi vedi?
- E perché non dovrei vederti?
- Ma...perché...perché io sono...sono invisibile.
L’uomo dei vetri restò colpito da questa affermazione, dal suo punto di vista, ovviamente, del tutto inspiegabile e perciò assurda. Ma non era il tipo d’uomo che non concede al prossimo l’opportunità di spiegarsi, sebbene a dire il vero, fino a quel momento, non ricordava di aver mai avuto occasione di rapportarsi ad alcun prossimo di qualsivoglia specie.
- Ma allora, se sei invisibile come dici, perché ti vedo?
- E’ proprio quello che non riesco a spiegarmi, perché a questo punto non c’è alcun dubbio che tu mi stia vedendo, e anche ascoltando, perché rispondi a tono e con logica conseguenza alle parole che ti rivolgo.
- Anche questo non dovrebbe essere possibile?
- Proprio così. Non capisco...
- Non ci sarà un guasto da qualche parte?
- Un guasto?
- Sì, un guasto nel tuo meccanismo di invisibilità e inascoltabilità.
Il giovane non rispose, ed era visibilmente perplesso, e il fatto di esserlo, appunto visibilmente, aumentava di fatto il suo stato di perplessità, come si può ben capire. Improvvisamente, come avesse avuto una comunicazione dall’esterno, per quanto chiusa al suo interno, che gli aveva fornito una spiegazione puntuale e plausibile, il giovane si illuminò in viso.
- Ah, è così! Allora è tutto chiaro.
- Cioè?
- Cioè: tu puoi vedermi e puoi ascoltarmi a causa della solitudine in cui vivi, da molto tempo. Solo quando un uomo è estremamente e permanentemente solo con sé stesso, come è il tuo caso, e comunque, anche in casi come questo del tutto eccezionalmente, a quell’uomo può capitare che gli si materializzi di fronte, per così dire in carne ed ossa, e voce, il suo Angelo custode.
Questa volta fu l’uomo dei vetri a rimanere perplesso.
- Perché hai detto “per così dire in carne e ossa”?
- Perché in realtà non ho carne, né ossa: la mia è soltanto una materializzazione visiva e sonora.
- Cioè saresti solo un’immagine?
- In un certo senso sì, ma un’immagine concreta, autonoma, indipendente. In poche parole: non sono frutto della tua immaginazione. Esisto. Anche se non posso toccarti, né tu toccare me, perché sono etereo, impalpabile.
- Come può esistere una cosa impalpabile? Una cosa o c’è, o non c’è.
- Anche la musica è impalpabile, eppure quando la senti non la stai immaginando, ma esiste sul serio. Ah già, tu non hai mai sentito una musica. Ascolta.
E nell’aria, misteriosamente, come se qualcuno avesse acceso una radio, si materializzarono le note di un concerto per arpa e organo. L’uomo dei vetri non aveva mai sentito niente di simile.
- E’ bellissima questa cosa! Però in fondo è un suono, come quelli che sento di là dai vetri. Anche se non lo si può toccare, è una cosa concreta, provocata da qualcosa di materiale, uno sfregolio di corde, un picchiettare su tasti.
L’Angelo si battè una mano sulla fronte, o almeno così parve.
- E’ vero. Non è un esempio azzeccato.
La musica cessò di colpo. Era inutile parlare di sentimenti e sensazioni, perché l’uomo dei vetri non ne aveva esperienza, e sarebbe stato troppo lungo e difficoltoso cercare di spiegarglieli in parole. Alla fine, l’Angelo decise di non approfondire ulteriormente il discorso.
- L’unica spiegazione possibile è questa: io esisto, non sei tu che te lo stai sognando, non sono frutto di un pensiero, ma pura realtà, per quanto eterea e impalpabile. Del resto ogni cosa ha una sua natura specifica, e la mia è questa.
L’uomo dei vetri sembrò soddisfatto di quest’ultima spiegazione, ma non si erano esaurite le sue curiosità.
- Ma dimmi: se voi Angeli custodi siete impalpabili, non potete essere toccati, ma nemmeno toccare.
- Sì, infatti.
- Ma dunque, se io ora scivolassi e precipitassi dal ponteggio, tu non mi potresti afferrare in nessun modo.
- Proprio così.
- Ma allora in cosa consiste la vostra custodia?
L’Angelo restò un attimo interdetto. Si riprese subito.
- Ma è ovvio che non possiamo intervenire materialmente, altrimenti non ci sarebbero incidenti di alcun genere, salvo ad ammettere che ogni tanto un Angelo custode si può anche distrarre, il che sicuramente non è.
- Allora, siete invisibili, inascoltabili, immateriali...non ti offendere, ma a che servite?
L’Angelo avrebbe anche potuto cominciare a scocciarsi, ma siccome era un Angelo, proseguì serenamente il suo discorso.
- Noi assistiamo gli uomini con la nostra presenza, con il nostro consiglio sussurrato al cuore, fermo restando che gli uomini rimangono liberi di non ascoltarlo. E a volte portiamo a Dio le richieste e i bisogni che nascono dal cuore degli uomini. Niente altro che questo.
L’uomo dei vetri era una persona concreta, e certe cose non le capiva, o almeno non del tutto. Anche sull’esistenza di questo Dio aveva alcuni dubbi: anche Lui non si vedeva e non si poteva toccare, non si capiva bene quale fosse il suo ruolo e la sua utilità, ma non volle mancare di rispetto o addirittura addolorare il suo Angelo custode, che appariva come una persona, o qualcosa di simile, assolutamente per bene, e certamente di buon cuore. Però volle lo stesso dire ancora qualcosa sull’argomento.
- Io credo nelle cose che vedo, te compreso, perché altrimenti non starei qui a parlarti. Tutto sommato preferisco non pormi troppe domande, ed accontentarmi di quello che c’è: per esempio queste vetrate, solide e pulite come specchi, perché sono io che le tengo pulite. Ognuno è utile a qualche cosa, e io a questo. Forse un giorno capirò anche l’utilità di Dio. Forse l’essenza di Dio è contenuta proprio in questo grande palazzo, il Palazzone, dove si decidono e si fanno cose importanti per tutti. Sì, dev’essere proprio così.
- No, Zeno, non ti confondere: l’essenza di Dio la puoi trovare semmai nelle cose piccole...e non si può misurare tutto, men che meno Dio, col metro dell’utilità. Anche le cose utili, e persino quelle importanti, se si studiano a fondo...certe volte non sono poi una gran cosa. Ad esempio: tu consideri molto importante e utile il tuo lavoro. Eppure, non c’è una sola persona che se ne accorga, nemmeno quelli che lavorano nel Palazzone.
Questa volta fu l’uomo dei vetri a rimanere interdetto. Reagì.
- Non è vero! Io, con il mio lavoro di pulizia, permetto che la luce penetri in quegli uffici, al di là delle vetrate, affinché le persone che vi operano possano farlo nelle migliori condizioni, anche se loro non lo sanno o non se ne avvedono.
- Ma non ti sei accorto dei tendaggi impenetrabili, sempre chiusi, che vi sono dietro ad ogni vetrata? Non hai mai fatto caso che tutti gli uffici sono illuminati da barre al neon, sempre accese? Nel Palazzone non sanno che farsene della luce del sole, che entrerebbe dalle vetrate. Hai mai visto qualcuno affacciarsi a una finestra? Se anziché vetrate vi fosse solo un muro di cemento, come al pian terreno, sarebbe lo stesso. Hai notato che le vetrate sono di colore grigio? Questo perché non si veda lo sporco, quella polvere che tu levi un granello alla volta, senza tralasciarne nemmeno uno. Se anche tu non lo facessi, se stessi anche un anno o dieci, senza far nulla, nessuno se ne accorgerebbe, perché comunque le vetrate rimarrebbero sempre uguali, grige, come tutto il resto: la strada, il marciapiede, i muri, il cielo, che è sempre grigio per il fumo che sale dalla Città, e perché il mare da qui è troppo lontano, per cui il cielo riflette solo l’asfalto.
L’uomo dei vetri pensò che i discorsi di quell’essere fatuo, con ogni evidenza rispecchiavano la sua stessa natura: l’Angelo perdeva di vista le cose concrete, quelle d’ogni giorno, il mondo, per seguire i suoi pensieri eterei e impalpabili. Per tutto il tempo trascorso, da quel giorno, l’uomo dei vetri non prestò più attenzione all’Angelo, che restava sempre lì sul ponteggio, vicino a lui, senza parlare. Solo ogni tanto gli urlava “fai attenzione!” quando lui si sporgeva un po’ troppo. Ma l’uomo dei vetri alzava le spalle: non aveva certo bisogno dei suoi suggerimenti e dei suoi avvertimenti. Un giorno, molti anni prima, che si era sporto davvero troppo, e un colpo di vento aveva spostato il ponteggio volante, lui era rimasto attaccato ai vetri con le unghie e con i polpastrelli, come avesse delle ventose, e un’altra volta era salito di alcuni piani, senza rendersene conto, non azionando la carrucola, rimanendo attaccato ai vetri con il suo strofinaccio, e continuando il suo lavoro come se niente fosse. Era impossibile che potesse cadere, era abituato a distrarsi, a pensare, e pensava molto, col tempo sempre di più. Lavorava e pensava, attaccato ai suoi vetri, e non poteva cadere.
Eppure, un’altra chiara sera d’estate, terminato il lavoro, l’uomo dei vetri si trovò, all’improvviso, a precipitare nel vuoto, dal quarantottesimo piano, a testa in giù, agitando le braccia come nuotasse nell’aria. L’Angelo aprì le ali, e lo raggiunse, gli si accostò. L’uomo dei vetri continuava a precipitare nuotando, quasi che in tale maniera aumentasse l’attrito e rallentasse la sua irrefrenabile caduta. L’uomo dei vetri precipitava e nuotava, impassibile, come se stesse accadendo qualcosa di assolutamente normale e scontato, come tutto il resto. L’Angelo e l’uomo dei vetri non avevano più intavolato un discorso, dal giorno in cui si erano conosciuti. Fu l’Angelo a interrompere il silenzio.
- Zeno! Cos’è successo? Come hai fatto a cadere?
- Ho perso l’equilibrio.
- Ma...com’è possibile? Proprio tu?
- Proprio io. Ho pensato moltissimo in tutto questo tempo, perciò non ti parlavo: volevo prima completare il pensiero.
- E ora non lo potrai più completare...
- L’ho completato invece. Perciò sto precipitando. Ho cercato un senso a tutto questo, al Palazzone, a quel che stavo facendo, a quel che stavo vivendo, all’insieme delle cose, e non l’ho più trovato: tutto qui. Così ho perso l’equilibrio.
- Mi dispiace.
- E perché? Ora vedo avvicinarsi la strada, ma anche questa è grigia, come tutto il resto. Se si rovesciasse il punto di vista, ponendo il Palazzone in orizzontale e la strada in verticale, non cambierebbe nulla. Tutto grigio.
- Mi dispiace.
- L’hai già detto. E ti ho già risposto: e perché? Che restassi lassù, attaccato ai vetri grigi, o che precipiti verso la strada grigia, non cambia poi un granché. Ero inutile lassù, resto inutile adesso. Nessuno si accorgeva di nulla quando ero lassù, e anche adesso è lo stesso. Ero solo, lassù, e sono solo adesso. L’unica cosa che mi spiace è che, mentre la strada si avvicina, e con la strada lo schianto, non trovo ancora un giusto senso, adeguato a sostituire il senso perduto, e forse ormai è troppo tardi.
- Mi dispiace.
- Ma...cos’è quella macchia di colore diverso, là nel mezzo del marciapiede?
- Una piccola aiuola, verde. Tutto quel che è rimasto della vecchia Via dei Prati Fioriti.
- E cos’è quella piccola cosa, ritta, al centro?
- Un fiore. Un piccolo fiore.
Quando ormai era a poco più di un metro dall’asfalto, l’uomo dei vetri vide più chiaramente quella aiuola striminzita, pochi centimetri quadrati d’erba verde sepolti in mezzo all’asfalto, e al centro un piccolo fiore, striminzito anche quello, ma vivo, col suo fragile stelo, la sua piccola corolla, e i suoi minuscoli petali variopinti. Un fiore. Era la prima volta che vedeva un fiore.
- Avevi ragione sai, Angelo! E’ nelle piccole cose che si avverte l’essenza di Dio.
- Il senso...
L’uomo dei vetri sorrise, per la prima volta nella sua vita.




02/03/2004 8.56


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