Il fare da Preti

florentia89
00domenica 25 maggio 2008 18:31
Modo di dire che spesso usiamo
Riprendo a collaborare con qualche difficoltà. Fortunatamente i dati di base dei miei scritti e libri li ho salvati.

Il fare da Prete, l’emulare un Prete

Dire oggi che una persona ha un “fare da Prete”, un modo di agire da Prete, sembra un Prete, non è indice di apprezzamento.
Il soggetto viene considerato di norma poco affidabile, opportunista, di scarsa responsabilità e incertezza decisionale (...).
Eppure almeno una volta mi trovai anch’io a dover fare il Prete, in circostanze alquanto dure, ed ero sui diciotto anni, pur se ho sempre mostrato un’età maggiore di quanto avessi.
I tedeschi ora si trovano fuori Roma; sono arrivati quei padreterni casinari degli americani; io, che prestavo servizio nella sussistenza germanica, sono stato dimenticato dai crucchi nella loro ritirata.
Di tutto ciò ne ho parlato e non mi ripeto.
Lo Stabilimento alimentare ove sono rimasto come operaio è tornato nella disponibilità Vaticana, che ha confermato e incrementato il suo staff direttivo e dirigenziale. La mia vecchia posizione di “collaboratore col tedesco invasore” viene faticosamente tollerata dalla commissione interna, ovviamente comunista, in riconoscimento di alcuni precedenti favori al personale, specie a uno di loro, oltre che in considerazione della mia discreta cultura, nulla di speciale ma ben superiore a quella dei grezzi operai di allora, in virtù della quale mi chiedono vari aiuti in campo organizzativo e scritturale, che non posso rifiutare salvo il subire una guerra personale e l’allontanamento dal lavoro, che mi tengo stretto.
E’ evidente che loro, pur a conoscenza delle mie idee passate e attuali, sperino palesemente di acquisirmi nel loro gruppo e partito.
Viene un giorno che un grosso camion-rimorchio della Società, ancora coi vistosi colori vaticani sulla carrozzeria e sui teloni di copertura, nonché col cartello “Automezzo addetto all’alimentazione di Roma” (verranno presto riverniciati come in origine) deve recarsi in Abruzzo, zona di Montegranaro, a caricare un pieno di grano per macinazione e panificazione.
Oltre i due autisti e un uomo di fatica ci sarò anch’io a dare aiuti vari, collaborare nel facchinaggio, interessarmi di carte, controlli, buoni di ritiro e di consegna. La guerra in zona è passata da poco e il fronte non è poi tanto lontano. Strade difficoltose, intasate da mezzi militari, oltretutto un bel po’ rovinate e rabberciate.
Passiamo Sulmona, passiamo sotto l’Aquila, poi Pescara e verso l’area di Lanciano. Nostra meta finale.
Caricheremo così il grano previsto e con un ritorno altrettanto impegnativo, dopo due giorni di tragitto e due per il carico, saremo di ritorno a Roma, con due notti passate a dormire alla meglio sul camion e due in una casa parrocchiale semiabbandonata.
Di alberghi o locande agibili, pure modesti, neppure l’ombra.
Il ritorno viene effettuato con la presenza–scorta di due militari in quanto sussiste il pericolo di un assalto della popolazione, ancora affamata e bisognosa di tutto, al grande carico che avevamo ritirato.
Giunti a Roma i soldati si presenteranno al loro Comando Militare che provvederà a rispedirli in zona. Ebbene, nella marcia di arrivo passiamo per un sobborgo ove la guerra era appena passata. Distruzioni dappertutto, quattro case vuote con infissi sfondati o mancanti. Una delle tante piccole Pompei che già conoscevamo.
C’è la novità che qualche ritorno umano c’è appena stato.
Vediamo alcune donne anziane che, in mezzo la strada, ci fanno ampi gesti con la mano di fermarci. Anche se vorremmo proseguire non possiamo certo investirle, quindi siamo costretti a una sosta.
Allora questa manciata di donnette, all’unisono, ci gridano qualcosa.
Non capiamo assolutamente nulla sia perché è un parlare generale urlato, sia perché il dialetto abruzzese stretto, quello dell’interno, delle campagne, dei contadini, non è affatto facile a comprendere.
Imponiamo un po’ d’ordine e facciamo parlare la più anziana.
Così fra un gesticolare forsennato e un idioma da cartaginesi, riusciamo a capire che nel casolare c’è una donna che non riesce a partorire e che per loro sta solo morendo.
Siamo o non siamo vaticani? del paese del Papa? obbligati, volenti o nolenti, a dare un aiuto? E allora andiamo a vedere se si può fare qualcosa. In una stanza a pianoterra, scrostata negli intonachi e poverissima di attrezzature, giace una donna che dovrebbe essere giovane, ma maltrattata nella figura dagli stenti, miseria, ignoranza.
Potrebbe avere venti o quaranta anni, cambierebbe poco, anche se si vede che gli anni sono pochi. Si lamenta incessantemente, si trattiene il ventre con le mani, è pallidissima, è già a gambe divaricate.
Delle donnette che la circondano solo una giovane l’assiste veramente. Le altre collaborano poco e secondariamente, soprattutto recitano rosari e preghiere alla Madonna, a Sant’Anna, a Sant’Elisabetta. Ogni tanto qualcuna urla “Madonna grazia!” “Madonna salvala!”, “Vade retro Satana!” e altre invocazioni .
Se gli aiuti debbano essere questi, che terrorizzano noi e le nostre orecchie, figuriamoci la partoriente semicianotica, sarebbe meglio che sparissero tutte con immediatezza.
La giovane che l’assiste dice di non essere nuova ai parti, anche se non praticissima, ma questo non lo capisce, la partoriente ha perso le acque da parecchio e il figlio, o figlia, dovrebbe averlo già fatto da un pezzo, ma non vuole proprio venir fuori e la mamma è palesemente sempre più debole.
Uno dei nostri autisti è stato in sanità militare e qualcosa sa’. Dei casi simili ce ne furono negli ospedaletti militari da campo e loro, a volte, aiutarono a far nascere anche degli animali, cavallini e vitelli.
Egli da’ una rapida occhiata e dice che per lui il momento vero non è ancora giunto, verrà presto, ma qualche complicazione, a suo giudizio, la presume o la prevede.
Di uomini non c’è ombra, il rientro lo hanno anticipato queste poche donne e un paio di vecchi. Il grosso dovrebbe essere per i prossimi giorni. Per la partoriente prevedevano l’evento per i giorni a venire ma qualcosa, forse lo strapazzo lo hanno imprevedibilmente anticipato
Decidiamo di dare un aiuto. Ci laviamo le mani, la donna ci fa indossare dei grembiali da cucina sdruciti ma puliti, sono pronti un modesto fuoco, un caldaio d’acqua calda, un bagnapiedi, tele varie. Nessun medicinale o disinfettante. Qualcosa di emergenza, poco, lo prendiamo dalla cassetta sanitaria del camion.
Mentre stiamo controllando che non manchi lo stretto indispensabile la puerpera lancia grida di intensità spaventosa.
L’autista e la ragazza si postano fra le gambe aperte e la incitano a spingere, a spingere, a spingere sempre più, cercando di facilitare l’operazione anche con robusti massaggi a scendere sul pancione vibrante, non so quanto efficaci o maldestri..
L’altro autista si da’ da fare fra acqua e fuoco e io asciugo di continuo il viso della donna, pallida come uno spettro.
Non mi dilungo, altre grida, invocazioni alla Madonna, a Gesù, alla mamma, incitamenti a farcela e pian piano qualcosa si intravede. Allora tutti a gridare: …”dai Elena, ci siamo! Viene! Ancora uno sforzo! Arriva! Arriva!
E il bambino, perché di maschio si trattava, fuoriesce dall’utero materno aiutato dalla giovane e dal nostro autista-ostetrico, che taglia il cordone e lo annoda! Il bimbo, dopo alcuni attimi, urla anche lui la sua contentezza o disperazione di essere a questo mondo. E’ coperto di sangue ma viene lavato e avvolto in panni caldi.
Insomma sta magnificamente, almeno per noi. Come la pensi lui lo ignoro.. Chi non sta bene è la mamma che ha perso un mare di sangue, ha di sicuro delle lacerazioni interne ed è pallida a non finire. Siamo stati fermi da loro per un paio d’ore, forse un po’ di più.
L’autista infermiere assicura loro che avvertiremo il medico del primo paese o i carabinieri, i quali arriveranno a risolvere l’emergenza.
Poi la puerpera apre gli occhi, abbraccia il bimbo, e sussurra a me:
…”grazie padre per quello che ha fatto e avete fatto. Non è stato però conveniente farmi vedere da lei nella mia nudità, mi sono vergognata tanto, mi scusi, mi scusi, e mi perdoni”….
Gli altri mi guardano e anche io comprendo, loro sono in tuta da lavoro, io indosso un maglione scuro a collo alto che potrebbe farmi passare per un prete un po’ “casual”. I diciotto anni non contano, ho detto che sembro più adulto e poi gli occhi febbricitanti di una sofferente non vanno per il sottile.
Poi un altro sussurro faticato: …”padre, devo chiederle due cose”…
Come dirgli che non sono un prete? Anche gli altri mi fanno cenno di non contraddirla, stante il suo stato debilitato.
…”sono passata fra tante atrocità! hanno ammazzato mio marito e mio fratello; e’ vero che la guerra è passata? che i tedeschi non ci sono più? che sono arrivati gli inglesi? Ho tanta paura di non farcela, mi sento debole, ma prego la Madonna che mi conservi per mio figlio.
Senta, mi dia la benedizione e battezzi il bambino, il nome è Stefano”… Ai compagni accenno a bassa voce di non sentirmi di fare quanto chiesto. .Loro, con mille argomentazioni, mi spronano ad agire diverso. Anche la ragazza-infermiera ha ritenuto io fossi un prete o, almeno, un quasi prete, magari un seminarista avanzato..
Allora per la benedizione rimedio dicendo alla signora:
…”recitiamo assieme una preghiera, la Madonna l’aiuterà” … gli poggio il palmo della mano sulla fronte e bisbiglio tre Ave Marie e una preghiera all’Alta Regina che m’aveva insegnato mia mamma.
Sposto poi le mani sulle palpebre e gli dico di stare tranquilla.
Posso avere pure bleffato ma lei la prese come una benedizione, e poi recitare una preghiera in comune non è certo un peccato.
Lei insiste sul battesimo, terrorizzata dai possibili pericoli in atto, ed io, ormai coinvolto, tento di procrastinare dicendogli che gli avrei mandato un sacerdote del suo paese, perché è da lui che si fanno i battesimi, ma lei insiste, ha paura per il figlio (“perché non vuole battezzarlo? Eppure sa che i bambini non battezzati se muoiono non vanno in paradiso!”). L’autista infermiere, che ha fatto la guerra, mi parla sottovoce di battesimi impartiti in casi di emergenza, e allora dico: ”senta Elena, il figlio lo battezzo ma questo vale per lassù, non fra noi. Lei deve ripetere il battesimo appena possibile nella sua chiesa, ove registreranno il sacramento, cosa che io non posso fare”…
La donna è felice, così coi due autisti accanto, come fossero testimoni, verso una scodella d’acqua sul capo del bambino dicendo ad alta voce, ben udibile dalla mamma che osserva attenta, con gli occhi socchiusi: …”Stefano, io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, sii un buon cristiano, vai per la tua via” … (qualcuno a me superiore mi avrà perdonato).
Partiamo poco dopo, Elena, la partoriente, mi bacia la mano (vergogna per me, non lo merito) e mi dice “Sia lodato Gesù Cristo”.
Tre giorni dopo ripassiamo, fermiamo un attimo, e vediamo un paio di donnette di quelle che avevano da implorare madonne e Sante.
Ci dicono che Elena sta meglio, l’hanno portata vicino Lanciano dalla madre, felice di aver ritrovato una figlia creduta dispersa nel passaggio del fronte, o anche peggio, e di aver ricevuto un nipote robusto, sano, futura colonna della famiglia.
Gli autisti, il facchino, e poi parecchi altri nello stabilimento, mi prenderanno per i fondelli chiamandomi “Reverendo”, invitandomi anche ad assolverli per dei turpi peccatacci che sciorinavano senza ritegno, e così seguiteranno a fare, sia per l’operazione “Benedizione-Battesimo”, sia perché il presidente della Società, nipote del Papa allora regnante, e il Direttore Generale, collegato al Vaticano, pur con la sua razza israelitica, mi concessero la loro fiducia e attenzione, nonché mi facilitarono nel lavoro e nella carriera, infischiandosene delle mie idee indirizzate al “nero” vero, quello dei gagliardetti, e non quello delle loro tonache, che conoscevano e forse apprezzavano..
Quindi nel tempo lontano anch’io mi comportai come un “prete”, senza però le riserve di poca affidabilità che in seguito verranno connesse a questo appellativo.
E ciò non mi creò problemi allora e in seguito.
Si pensi che su consiglio di un mio amico eremita, torturato e quasi ammazzato dai boia della Gestapo di Kappler (ne ho parlato), ho battezzato in anteprima, immediatamente dopo la nascita, tutti i miei tre figli, salvo ripetere il sacramento successivamente ed ufficialmente, almeno per chiesa e preti. Forse per un eventuale Dio comprensivo potrebbe avere avuto valore anche il mio di padre timoroso e attento a ogni forma di salute dei propri pargoli, sia fisica, sia di spirito.
A mo’ di complemento didattico preciso che ai tre battesimi non poté partecipare mia moglie. Le donne che avevano partorito, allora, non potevano entrare in chiesa per quaranta giorni, tempo necessario per la loro purificazione (da che?!). Pratica questa da imbecilli, anche se ecclesiastici, retaggio di tempi primordiali per fortuna passati e sepolti.

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