I ricordi di padre Ramòn

alberto_58
00sabato 3 maggio 2008 15:30
Padre Ramòn non parlava mai.
Fra i pochi effetti personali, che teneva sopra la scrivania della sua cella, una foto di quando era un giovane seminarista. Era ritratto assieme ad una trentina di studenti, tutti molto giovani e sorridenti, in compagnia di un anziano prelato.

La sveglia dei seminaristi, in quel giorno di guerra, era avvenuta come al solito. Una preghiera giungeva da lontano, cantinelante, assieme ai raggi di sole che penetravano i finestroni della camerata candida, lasciando intravedere il pulviscolo danzante.
Il loro rettore, don Pedro, aveva l’aria più severa e imbronciata del solito. Dopo la messa fece colazione con loro, ma non mangiò nulla, li guardava uno ad uno, pensieroso.
Li radunò tutti nella biblioteca. Si sentiva che doveva dire qualcosa d’importante.
“Ragazzi” cominciò
“Sapete bene che la nostra nazione ha perso la guerra…”
I ragazzi lo guardavano seri e preoccupati.
“Noi purtroppo siamo proprio al confine e da notizie comunicatemi, il nemico…sta per venire qui.”
“Ci faranno del male, don Pedro?”
Chiese Louisito, il più giovane seminarista, aveva dodici anni.
Don Pedro lo accarezzò sui capelli, senza rispondere, un sorriso.
“I nostri soldati non ci difenderanno?” chiese Ramòn, quindici anni.
“I nostri soldati…” fece don Pedro con un tono di disgusto nella voce, ora un po tremolante, “Sono scappati…”
“Bhè, noi ci difenderemo, vero don Pedro?” disse Louisito.
“Non possiamo ragazzi, dobbiamo lasciare il seminario. Toglietevi le tonache, preparate il minimo di bagagli. Useremo il camion di Estebàn. Andrò con lui in paese per cercare della benzina. Mi dovrete aspettare in cortile, con i bagagli pronti.”
Così avvenne. I ragazzi prepararono le loro cose nella camerata, come se stessero per andare in vacanza e ordinatamente scesero i grandi scaloni istoriati, ombrosi e silenziosi, per recarsi in cortile.
Chiacchieravano poco, guardando ogni tanto il portone del cortile, che era rimasto aperto, in attesa che tornasse don Pedro.
Louisito raccoglieva le nespole dalla pianta vicino al pozzo, alcune le mangiava voracemente, altre le metteva in tasca per il viaggio e le passava a Ramon, che stava sotto di lui.
Si sentì un rumore di macchina e alcuni ragazzi presero in mano i bagagli. Entrò il camion di Estebàn, con dietro altri due camion dipinti a macchie.
Sembrava una statua del Cristo, quella figura d’uomo legata sul cofano, ma era don Pedro, immobile, il capo reclinato.
Dai camion scesero una moltitudine di soldati con lunghi cappotti, armati. Parlavano una lingua incomprensibile. Alcuni non si reggevano in piedi, altri si passavano bottiglie e damigiane, ridendo e bevendo. Il tanfo di vino paesano e di sporcizia arrivò fino ai ragazzi.
Louisito sputò un seme di nespola e fu come un segnale.
I soldati cominciarono a inseguire i ragazzi.
Ramòn, con lo stomaco che bruciava e la lingua che diventava del gusto di ferro dolce per la paura, si calò istintivamente nel pozzo, mentre Louisito urlava “Aiutami a scendere Ramòn! Portami con te! Ramòn!” Ma Ramòn scivolava giù nel pozzo di pietra, sbucciandosi le ginocchia, scorticandosi le mani, scivolando sempre più giù, sempre più giù, fino ad arrivare all’acqua.
Con l’acqua fino al collo, mise la testa in una sorta di cavità, come a voler scomparire, fino a sentire i suoni esterni come ovattati.
Sentiva urla, spari, ancora urla, risate. Per quanto tempo…ma il tempo non aveva più senso, perché aveva cessato di esistere.
Era solo un eterno presente di dolore, di paura, di freddo.
Le urla diventavano sempre di meno, ma chi urlava lo faceva a lungo… perché i suoi compagni urlavano così tanto? Perché?
Ramòn chiudeva gli occhi, si mordeva le labbra fino a sanguinare, si tappava le orecchie, ma sentiva sempre, sempre…
Alla fine sentì il suo nome, che penetrava, rimbombava nel pozzo, fin dentro la sua anima, come un martello “ Ramoooooooon!!!”, la voce di Louisito.


La luce della sera era penetrata fino in fondo al pozzo e Ramòn, muovendosi dolorosamente, vedeva l’acqua intorno a lui macchiarsi del rivoletto di sangue che gli usciva dalle labbra morsicate e dal naso. Si perdeva a vedere il suo sangue contorcersi nell’acqua come un serpentello sinuoso, gli sembrava bello.
Le sue mani erano scavate come quelle di un vecchio, per la lunga permanenza in acqua. Sentì altri rumori. Qualcuno piangeva. Urlava e piangeva. Nella sua lingua.
Se piangevano…prese il secchio di metallo e cominciò a sbatterlo sulle pareti del pozzo, urlò.
Lo tirarono fuori. Era un battaglione di soldati nazionali in ritirata, che non aveva gettato le uniformi e le armi e aveva deciso di vendere cara la pelle, fino all’ultimo. Ma erano passati per caso e troppo tardi al seminario.
“Madre de Diòs!” urlava qualcuno, “Madre de Diòs!”
“Copritelo, che non veda!” gridava un altro, mentre adagiavano Ramòn su una barella di tela.
Ramòn fece in tempo a vedere i corpi dei suoi compagni accatastati in un angolo del cortile, seminudi, sanguinanti, alcuni con le bocche e gli occhi spalancati.
Fece in tempo a vedere il corpo di Louisito, inchiodato all’albero di nespolo, una pozza di sangue a terra.


Lo chiamavano padre Ramòn, ma non era un prete.
Stava sempre seduto in cortile, sotto un nespolo.
Nessuno lo aveva mai sentito parlare.
Si trovava in manicomio dalla fine della guerra.

ELIPIOVEX
00sabato 3 maggio 2008 21:03
Povero Ramon!
Molto peggio sopravvivere alla carneficina!
auroraageno
00domenica 4 maggio 2008 11:14

Ricordi terribili..!

Hai scritto questo racconto con vera maestria, sei molto bravo!

Sai descrivere luoghi, cose, fatti ed emozioni con grande finezza e sensibilità.

A rileggerti... [SM=x142887]

aurora
alberto_58
00domenica 4 maggio 2008 16:58
Grazie Eli, per il tuo commento.

Grazie Aurora, sei sempre molto gentile, mi fa piacere che apprezzi i miei racconti.

Alberto
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