Parigi 1969
La ragazza russa e l'americana venivano da Woodstock con zaini tanto pesanti che a vederle sembrava dovessero perdere l'equilibrio da un momento all'altro. La russa dai capelli rossi e gli occhi azzurri come il cielo si chiamava Natasha, era bella ed estroversa. L'americana non era male, minuta ma carina, era seria e silenziosa.
Entrambe colavano di sudore sotto il terribile sole continentale dell'agosto parigino. Natasha, sfinita, stava in fila per l'assegnazione del posto nell’Ostello della Gioventù di Porte d’Italie, quando improvvisamente mi vide. Si avvicinò e s’inginocchiò vicino a me. Io portavo dei mocassini impolverati: erano di quel nero-lucido che prendono subito polvere, impossibile stare sempre lì a pulirli. Lei tirò fuori una spazzola e della cromatina nera e incominciò a pulirli. Rimasi secco (come direbbe il giovane Holden) non sapevo che dire o che fare: mentre mi toglieva la polvere, e lucidava le scarpe, ripeteva fra sé e sé “Jesus Cristus, Jesus Cristus...”.
Con lei fu bello iniziare a parlare seppur col mio scarso inglese; lei però conosceva cinque lingue e quando lo seppi continuammo col più agevole francese.
Natasha faceva la ballerina a Mosca ed era fuggita per andare alla tre giorni di pace, amore e musica di Woodstock. Con l’amica americana invece (psicologa) dovevo usare le tenaglie per cavar fuori qualche parola.
Natasha fece l’amore tre giorni e tre notti con un tipo di Milano, di quelli dritti, un certo Marco. Un sessantottino a fatti suoi: stettero rinchiusi nella stanza d’albergo che io e mio cugino fummo costretti a fittare perché erano finiti i tre giorni d’Ostello della Gioventù (è la regola, se c’è folla) e che “prestammo” a Marco il quale ci aveva implorati: in Ostello ci poteva ancora stare ma non poteva portare Natasha nella sua stanza. Lì si dormiva in sale separate (noi ci dovemmo sorbire un libico o un libanese che ogni notte urlava nel sonno “Al fuoco, al fuoco” in francese). Io e mio cugino dovemmo accettare in nome della solidarietà italiana e maschile, e facemmo compagnia all’amico di Marco che era rimasto solo di ritorno a una esperienza per lui insolita: era andato a finire in gattabuia perché girava per Parigi senza documenti (li aveva Marco che però si era chiuso con le valigie dentro la stanza con Natascia e non apriva, al ché annoiato l’amico se n’era andato in giro). Marco fu l’unico che fece l’amore senza nemmeno prendere precauzioni.
Dopo un po’ andammo a passeggio con una inglese, una certa Anne Wallace, bionda, paffutella, che come me accompagnava mio cugino per i strabilianti negozi di Parigi parlando (con me in inglese) di tutto senza fregarcene un fico secco – come me – di alcun negozio e di alcuna vetrina. Più tardi, insieme a un paio di tedesche, tre insignificanti ragazze svedesi, una coppia romana, e tre napoletani, ce ne andammo per le piazze di Parigi a cantare l’inno mondiale della pace “Blowin’ in the Wind” accompagnati dall’umile chitarra acustica del romano.
Alla fine della vacanza Natasha mi regalò un anello d’argento indiano (con due sonaglini che ciondolando suonavano) e un bacio sulla bocca. Quando tornai a Napoli portavo ancora le stesse scarpe, e le portai ancora: per una settimana non un granello di polvere si depositò su esse.