Grano e verdure in città

florentia89
00sabato 19 luglio 2008 13:33
Il bisogno fa fare tutto

Grano e verdure in città

Alcuni spot TV e cine recenti mostravano le piazze di alcune città colme di vegetazione, prati, fiori, grano.
Bene, gli ideatori e i tecnici che li realizzarono forse non sapevano di non aver inventato nulla. Ciò si era verificato, in tempi neppure remoti, quando il grano maturo ondeggiò in abbondanza fra basiliche, chiese, palazzi comunali, fontane, stazioni ferroviarie.
Parlerò cosi di questo fenomeno, quando l’Italia cittadina, bisognosa di tutto, anche di avere un’aria austera, si trasformò in agricola, con orti e campi di guerra dappertutto. Comincio con gli orti:
Col conflitto venne il momento che una discreta parte del popolo, impiegati, operai, artigiani, pensionati, si trasformò in pseudo agricoltori, con fini encomiabili si, ma risultati penosi, salvo limitate eccezioni. Giunse infatti l’invito delle Federazioni Fasciste ad avviare, ove possibile, orti di guerra, curati singolarmente o in gruppo dagli appassionati che se la sentivano di tentarne l’avventura, teoricamente semplice, in concreto con un mare di difficoltà.
Per quanto mi riguarda io e due balilla rimediammo un pugno di terreno sotto un terrapieno, vicino casa, sopra il quale si trovava un vero e grande orto-giardino, ben tenuto e coltivato, quello dell’Istituto di Suore prospiciente il nostro palazzo, curato dal papà di un mio amico, che viveva in un casale all’interno. Così provammo anche noi ad avviarne uno minuscolo, constatando subito quanto ci eravamo sbagliati per quella faticosa attività che offriva i suoi frutti solo dopo settimane o mesi, mentre noi ci aspettavamo qualcosa già all’indomani dall’aver piantato un seme, un tubero, una pianticella.
Qualche tentativo di zappa e vanga lo feci anch’io, finché la smisi e mi trasformai in apprezzato consulente per gli altri, sfruttando i suggerimenti che mi passavano sia mio padre, con la sua esperienza, sia l’ortolano delle suore. Così io consigliavo e gli altri piantavano qualcosa di veloce, insalate e ravanelli, per raccoglierne penose quantità, anche prematuramente rispetto il tempo dovuto.
Noi tre balilla però una cosa la facemmo. Utilizzando delle patate da semina che l’amico ortolano mi aveva regalate, ne piantammo una fila, fiduciosi in un bel raccolto finale. Non mi si chieda le epoche di piantagione e raccolto, non le rammento, né le mie conoscenze si sono poi sviluppate in campo agricolo. Fatto è che un giorno troviamo manomessa l’entrata dell’orto, con la modesta rete rialzata e le piante strappate, senza più i tuberi sottostanti. Qualcuno aveva provveduto a farlo, non noi. Non oso pensare ad uno degli amici di coltivazione o un pseudo-coltivatore accanto. L’unica soddisfazione ce la darà l’amico-ortolano il quale dirà che il furto era troppo anticipato, quindi i ladruncoli dovevano avere raccolto pressoché nulla.
Rimane però che fu l’ultimo mio tentativo di ricavare qualcosa dalla terra. C’è da dire in aggiunta che nell’orto ci seppellii il mio micio di cortile, morto di malattia e stenti, malgrado i miei aiuti e assistenza.
Poi le nostre madri pensarono loro a sostituirci, piantando solo fiori, erbette da odori e qualche pianta di insalata veloce.
Gli orti condotti dai padri e anziani andavano meglio dei nostri, anche se per loro i risultati non erano eclatanti per l’inesperienza e la cronica mancanza di acqua, che li costringeva a belle fatiche per portare quella recuperata dalla cucina o presa dalle cannelle di strada quando era possibile farlo. D’altronde allora era un bene prezioso e ce n’era in quantità scarsa. Questi orti di guerra dureranno sino al 1945 – 46, poi cominceranno a ridursi, sino a sparire del tutto, in quanto ubicati su aree fabbricabili che riprenderanno la funzione di dare un tetto alle famiglie romane. Ho parlato prima anche di una iniziativa GIL di orto e coltivazione di grano, cioè di quel grande Colcos o Kibbuz fascista nell’ambito della 54° legione balilla, creato dal comandante Volpi e suoi ragazzi. Anch’esso finirà dopo il 1943, pur se ebbe un esordio e un avvio più che promettenti. Rinvio all’inserto con foto del tempo, ove in una dovrei esserci io, ancora ragazzo.

C’erano poi i più seri “campi di guerra” e qui torno al tema del testo, cioè al grano fra cattedrali e monumenti Questa fu una iniziativa più impegnativa e concreta promossa dalle Federazioni Agricole.
Così, tanto per limitarmi a Roma, ma la stesso cosa nelle grandi città, Milano, Torino Firenze, Sud, isole, tutti gli spazi liberi urbani, centrali e periferici, purché di un minimo di ampiezza, già dedicati a parchi, giardini, campetti da gioco, o comunque incolti, vennero arati e seminati a grano. Così a Roma faceva uno strano effetto, nel 1941-42, vedere le immense aree prospicienti le basiliche del Laterano e Santa Croce biondeggiare di spighe mature, che fluttuavano al venticello serale e maturavano sotto il sole robusto. Le stesse aree si ripetevano in Via dell’Impero, in alcuni Lungotevere, in Piazza Risorgimento, Stazione Termini e così via, nonché nelle altre città medie e grandi che fossero, forse anche piccole, insomma dappertutto.
Infine in Piazza San Giovanni si effettuerà una vera mietitura, con il taglio del grano, la battitura, tanta pula, polvere, curiosi a osservare, pochi a dare una mano. Ovvio che una modesta parte del grano seminato sia stato “sottratto”, non dico rubato, da qualcuno bisognoso, pur se il controllo della forza pubblica, della gente, dei balilla, ne evitava il vero saccheggio. Il grano venne ricavato sempre in interessanti quantità e conferito agli ammassi agricoli similmente a quello prodotto nelle campagne.
Non so se a Roma i punti di trebbiatura fossero più di uno, penso di si. A quella del 1942 io e altri balilla aiutammo gli addetti a fare qualcosa. Mi sembrava di tornare ai tempi dell’anteguerra in Umbria, nella fattoria dei miei parenti agricoltori, squadristi e fascisti.
Identica iniziativa si svolse a Milano, in Piazza del Duomo. La Domenica del Corriere gli dedicò l’intera pagina di apertura a colori, su disegno di Beltrame, nonché più foto all’interno, che conservo nella mia biblioteca. Ho avuto modo di notare in un libro, per lo più fotografico, dedicato ai tempi del Duce, una bella immagine della trebbiatura milanese.
Fu’ così che fra i piccoli orti di guerra, iniziativa modestamente proficua, e i campi cittadini più organizzati, sorvegliati, coltivati da esperti, nonché accettabilmente produttivi, si cercò di sopperire, in parte modesta, alle carenze alimentari del popolo, nonché a svolgere una robusta propaganda politica, d’impegno collettivo e di partito.
Duce, l’iniziativa non fu male ma a parecchi fece pensare che, come si disse, stavamo arrampicandoci sugli specchi. L’appetito c’era ma trasformare città come Roma o Milano in distese di grano fece rifletterci che stavamo raschiando il fondo del barile.
Perché allora, escrementi e odore a parte, non portare in città buoi, vacche, pecore, capre, abbeverandole alle fontane e sistemandole nelle stalle d’una volta, ora trasformate in garage e magazzini, alimentandole con l’erba delle superfici non coperte dal grano?
Ricordo che il nostro professore di geografia economica ne prese spunto per parlarci circa l’immensità delle distese coltivate a grano in America del nord, del sud, in Canada, in Russia, in Bulgaria, sulle rese per ettaro, sulle qualità Amber e Taganrog, tanto per citarne due, sui prezzi infimi internazionali, con conclusioni che ci lasciarono interdetti. Allora eravamo produttori tanto minuscoli e insignificanti?
Comunque il ricordo degli orti e campi di guerra fra basiliche, monumenti, palazzi, colonne romane, permarrà simpatico e gratificante, indice se non altro della volontà di risolvere situazioni irrisolvibili, di dimostrare agli altri, ai tedeschi e ai nemici, la nostra forza, la volontà di superare le difficoltà e vincere la guerra.
Insomma c’era la volontà di fare e ciò era tanto, almeno mi sembra.

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