GEMMA DI SOLE - by Walko

fiordineve
00martedì 24 luglio 2007 00:59
GEMMADISOLE


Mi è sempre piaciuto vivere la notte, aspettare il mattino senza troppa premura, saziarmi gli occhi di immagini, di buio e di stelle, assaporare sensazioni diverse da quelle del giorno, altre situazioni, altri colori. Così amo viaggiare per intero la notte, e riempirla di gesti e parole


La notte si incontrano persone che di giorno non esistono, o comunque sono molto diverse, e non è detto che siano migliori sotto il riflettore del sole (poi, si sa, gli stronzi si trovano dappertutto, persino in paradiso). Non parlo degli ubriachi che affidano al vento i loro discorsi e alla volontà il loro precario equilibrio, e nemmeno di chi semplicemente si diverte, perche questi preferiscono chiudersi in qualche locale; dico quelli che girano, gli sbandati, senza luogo per destino o per scelta, quelli che di notte vivono, e magari qualche volta anche rubano: tanta di questa gente ha ricevuto dalla vita solo calci in faccia, e mai un amore, non quello della famiglia, tanto meno l’affetto e il calore di una persona che ne condivida i giorni. Sono persone affidate al giudizio degli altri, i normali, alla loro condanna, perché questi non sanno che cosa significhi vivere senza mai essere amati.
Ma tra queste persone notturne puoi persino scoprire che cos’è l’amicizia: se li capisci, se li ami così come sono, ti diventano amici, son gli amici più veri. Per esempio c’è un tipo che chiamano “Sciangai”, che fulmina con gli occhi e storce la bocca se qualcuno lo saluta, usa il coltello come la leva del cambio e se un passante gli domanda l’ora, è capace di prenderlo per il collo e chiedergli trentamila lire per l’informazione, congedandolo infine con uno spintone, o se gli è particolarmente antipatico con un calcio nel culo. Ma se gli dico che le sigarette che fumo non si trovano in giro, se non in una certa tabaccheria di Bologna, lui pianta lì quel che stava facendo e va a Bologna a comprarmi le sigarette. Mi ricordo quando avevano rubato il motorino di un amico, dalla tecnica si capiva che non era stato un balordo di passaggio, ma uno del giro, e allora dissi a Sciangai che quel mio amico non aveva i soldi per comprarsene un altro, e gli serviva per girare alla ricerca di un lavoro e per andare a trovare la ragazza al paese e che insomma non era la persona giusta per giocargli un tiro come quello; lui rispose accigliato che se non l’avevano già smontato avrebbe visto se poteva fare qualcosa. Due sere dopo una voce mai sentita mi disse al telefono che chiamava da parte di Sciangai:
- Dì a quel tuo amico di andare ai giardini, sul piazzale davanti alle scuole, lì c’è il suo motorino pulito e lustrato, e col pieno di miscela.
Per la gente per bene, i normali, questi sono discorsi difficili da digerire, lo capisco, ma non voglio convincere qualcuno: io racconto e basta.
Qualche volta, la notte, succede l’imprevisto, come quando un amico, pressappoco alle due, trova una ragazza, combina, e ti molla per strada lì ad Alessandria, con molte scuse da parte sua, con la tua laica benedizione, ma intanto i bar chiudono, nessuno ti dà un passaggio a quell’ora, in tasca hai solo i soldi per una rapida telefonata a casa, “non rientro stanotte, dormo qui da un amico”.



Era una notte d’agosto, ed è anche peggio, perché d’inverno sei coperto, attrezzato, ma in quella stagione dopo un giorno di afa può seguire una sera zanzarosa e opprimente che precipita all’improvviso in un violento temporale: io avevo soltanto una camicia e pantaloni leggeri, e già il cielo si riempiva di lampi lontani, e saliva la brezza.
Cominciai a girare a vuoto, aspettando qualche ispirazione, un bar aperto, il ricordo di qualche ragazza da andare a trovare: macché, tutte sposate. Fossi stato altrove quella sera, qualche cosa trovavo, ad Alessandria solo porte chiuse; certo, a Ovada.....ma come ci andavo ad Ovada, a piedi? Senza méta, camminavo verso lo stadio, magari avrei trovato qualcuno;
Sciangai non lo conoscevo ancora a quel tempo, gli altri chissà dov’erano. Cominciavo a pensare alla stazione, forse ci sarei arrivato prima che si scatenasse il diluvio, nonostante il mio proverbiale passo lento; tutt’intorno un deserto, non un cane in giro, solo auto frettolose mi facevano aria, qualcuno lampeggiava, qualche clacson suonava, ma fermarsi neanche parlarne.


La prima apparizione di una figura umana, in discreta lontananza, fu quella di una ragazza appoggiata ad un muretto, illuminata in viso solo dai bagliori intermittenti di una sigaretta: evidentemente una prostituta, mai vista prima. Proseguendo le sarei passato davanti. Entrai in una cabina telefonica, mi sfiorò il pensiero di passarvi la notte, ipotesi immediatamente scartata, mi rimaneva giusto un gettone nel quale ponevo l’ultima speranza in un riparo notturno accettabile: mi ero ricordato di Sandro, non proprio un amico, ma un buon conoscente, non lo vedevo da un po’ di tempo, ma se me ne ricordavo il carattere mi avrebbe senz’altro ospitato volentieri, o si sarebbe potuti andare da qualche parte per il resto della notte. Me lo ricordavo come un tipo cordiale, facile alla risata e alla bevuta, e anche alla rissa, ma per divertimento; il suo numero di telefono era simile a quello della scuola che avevo frequentato, che ricordavo ancora, c’era un cambio di numero nel finale, o era l’uno o era l’altro, tutt’al più se avessi chiamato la scuola a quell’ora nessuno avrebbe risposto, avrei recuperato il gettone e composto l’altro numero, ma feci centro al primo tentativo; mi rispose la sorella di Sandro.
- Ciao Gina, Sandro è in casa?
- Chi parla?
- Ah già, scusa, sono Cesare, dormivi?
- No, sono appena rientrata, Sandro non c’è, è al mare.
Sandro al mare? In agosto? Fuori discussione, non era tipo da andare al mare.
- Ma sei Cesare chi?
- Di Valenza; ci siamo visti una volta o due, da amici, a casa di
Lorella, mi pare.
- Ho capito, il poeta. Come stai?
- Come vuoi che stia? Non al coperto...
- Mi dispiace, Sandro è via.
- Fino a quando? Cosa dice l’avvocato?
- Vai a cagare!
- Strano avvocato.
- Non c’entra niente l’avvocato, lo dicevo io a te. Buona notte.
Rideva, ma intanto mi staccò il telefono in faccia: anche l’ultima possibilità era sfumata. Non avevo più nemmeno un gettone, non un documento, quasi quasi speravo passasse una pattuglia di sbirri, in un modo o nell’altro mi avrebbero risolto il problema di dove passare la notte, sempre più fredda e minacciosa. Scartai l’ipotesi di andare direttamente da Gina, poteva non essere sola, poteva mandarmi a cagare una seconda volta, e tutto sommato una volta per notte basta. Sandro era un buon diavolo, abbastanza ingenuo da lasciarsi trascinare in qualche cazzata, tipo rubare auto per conto di un certo ferrovecchio dell’astigiano, tanto in galera ci finiva Sandro, quell’altro era una persona rispettabile. Ripresi il cammino, passai davanti alla prostituta: avrà avuto trentacinque anni, forse di più, non era nemmeno brutta, indossava un completino non molto vistoso, capelli biondi a caschetto, aveva un viso simpatico e due occhi lucenti. Stavo per salutarla, ma fu lei a precedermi.
- Ciao biondino.
- Ciao biondina, ti dico subito che non ho un soldo in tasca.
- Sigarette ne hai?
- Poche anche di quelle, neanche mezzo pacchetto.
- Lasciamene due o tre.
Ne avevo otto, facemmo a metà, ne infilò tre in un pacchetto vuoto che teneva in borsetta e una se l’accese subito, io le feci notare che l’aveva appena spenta.
- E allora? Sei il mio medico?
- No, ma così tra mezzora le hai finite di nuovo.
- Amen, passerà qualcun altro. Adesso magari ti puoi pure levare dai coglioni, ché già stasera non si combina un cazzo, non si ferma un cane.
- Per forza, con questo tempo! Bhé, buona serata, biondina.
- Ma sul serio non hai soldi?
- Se mi trovi addosso una lira è la tua, senza niente in cambio: perquisiscimi pure.
E così dicendo allargai le braccia, lei mi perquisì davvero, con cura, prima un po’ nervosa, poi piano piano lasciandosi andare ad un cauto sorriso.
- Non hai proprio niente, nemmeno un coltello: da queste parti a quest’ora ti potrebbe servire.
E da che avrei dovuto difendermi, cosa mai mi potevano rubare? Le raccontai, in poche parole e con molta ironia, la storia di quella sera, com’ero arrivato fin lì e le mie preoccupazioni riguardo il resto della notte, e finalmente la vidi sorridere limpida. Era una di quelle ragazze che quando sorridono sono molto più belle, ma non lo sanno, e stanno spesso imbronciate. Ho conosciuto ragazze che sono più belle quando restano serie, e quasi sempre queste ridono troppo: com’è fatto male questo mondo! Lo dissi anche a lei, e quando le consigliai di sorridere spesso perché era molto bella, lei sorrise di più: ancora una volta ero riuscito a far venire il buon umore a qualcuno e così potevo dire di aver fatto la mia piccola buona azione quotidiana. Salutai con la mano e mi apprestavo a traversare la strada, rassegnato a raggiungere la stazione, tra l’altro il tempo peggiorava, cominciava a gocciolare; ero già qualche passo lontano, quando lei mi chiamò.
- Ehi, senti… tu! Non mi hai detto come ti chiami.
- Cesare, e tu?
- Non è mica un bel nome, Cesare. Ti starebbe meglio...Rodolfo!
Si sciolse in una bella risata argentina, per nulla volgare.
- Non mi hai ancora detto come ti chiami tu.
- Mi chiamo Patrizia, Patty se preferisci.
- Preferisco Patrizia. Ciao, magari ci rivediamo.
- Aspetta… volevo dirti che se non sai dove andare, qui tra un po’ scoppia il finimondo, a me i tuoni fanno paura… insomma, se vuoi puoi venire a casa mia, sto al Cristo, così tu non ti bagni e mi fai compagnia. Parlo mai con nessuno.
- E il tuo uomo?
- E chi ce l’ha?
- Nemmeno...?
- Ah, quello? Se ne frega della mia vita privata, basta che gli dia il suo, è pure sposato.
Aveva la macchina dietro l’angolo; mi lanciò le chiavi e mi disse di aspettarla ancora un’ora o due, tanto per guadagnarsi la sera, ma dopo dieci minuti, oramai sotto l’acquazzone, mi raggiunse in auto.
- Andiamo a casa, tanto stasera non si batte chiodo. Guidi tu?
- Non ho la patente. L’avevo, ma non l’ho più rinnovata.
Accese la radio ad un volume spaventoso, tanto che non capii una parola di quel che disse durante il tragitto; cercai di spiegarglielo a gesti, lei sorrideva e continuava a dire chissà che cosa. Finalmente arrivammo a casa sua, un bell’appartamentino in un palazzo nuovo, arredato con gusto. Disse che a casa non lavorava, andò in bagno mentre io restai nella stanza d’ingresso, che era anche nello stesso tempo sala e soggiorno, a studiarmi una serie di piccoli posters che riempivano una parete, e raffiguravano paesaggi tropicali. Quando uscì dal bagno era avvolta in un accappatoio rosa, molto elegante nella sua semplicità; le chiesi se era stata in quei luoghi dei posters, lei rispose di no, ma con un filo di malinconia negli occhi disse che un giorno le sarebbe piaciuto andare ad abitare, per sempre, in una di quelle isole. Mangiò qualcosa, io non avevo fame, ma accettai volentieri un caffè. Aveva anche una buona scorta di sigarette in casa.
- E così dovrei chiamarmi Rodolfo? Se vuoi chiamami pure così, anche se come nome non è che mi piaccia granché.
- Conoscevo un ragazzo, parecchi anni fa, che si chiamava Rodolfo, ti somigliava un po’, mica tanto però, ma aveva gli occhi buoni, come i tuoi.
- Eri innamorata di lui?
- No, non mi pare, non mi ricordo. Forse non sono mai stata innamorata davvero, di nessuno.
- Il protagonista della Boheme si chiama Rodolfo, mi si adatta:
“Chi son, sono un poeta, che cosa faccio? Scrivo. E come vivo?
Vivo”.
Canticchiai quest’aria, facendola sorridere di gusto.
- La conosco, è la “Gelida manina”!
- Proprio quella, Puccini per me è il massimo, la sua musica a volte mi commuove fino alle lacrime.
- Mio padre ascoltava spesso la musica lirica, anche a me piaceva, non sempre, e non tutte le opere; sono anni che non la sento più. Ti piace Cindy Lauper?
- Non ricordo di averla ascoltata, è un’opera lirica?
- Ma nooo! E’ una cantante americana, io preferisco lei che Madonna, te la faccio ascoltare subito.
Mise su un disco, fortunatamente a volume non esagerato, cominciò a cantarci sopra, era molto intonata, e a muoversi al ritmo della musica con una grazia notevole. Lo stile musicale di quella cantante non mi piaceva molto, ma era sopportabile, poi mi piaceva vedere Patrizia cantare e ballare, disse che da un po’ di giorni ascoltava sempre quel disco, le risparmiai che negli ultimi tempi ascoltavo molto le sinfonie di Bruckner.
- Vuoi coricarti un pochino? Io non sono abituata a dormire a quest’ora, dormo al pomeriggio.
- No, grazie, non ho sonno per niente, se a quest’ora sono sveglio non dormo più. Continua a cantare e a ballare, era molto bello.
- Vuoi dirmi che ti piaccio un po’?
- Mi piaci molto, Patrizia, davvero.
- A casa non lavoro, cioè non mi faccio pagare. Se vuoi...
- Non sei ancora stufa?
Sorrise, un po’ malinconica.
- Qualche volta sì, ma un conto è il lavoro, come timbrare il cartellino: non lo si fa per divertimento, meno ancora per amore o anche simpatia. Quando non si lavora è un’altra cosa. Tu che lavoro fai?
- Saltuario, praticamente nulla. Scrivo, ma non pubblico; scrivo poesie, però non le ricordo.
- Che peccato, potevi dirmene una, mi piacciono le poesie, ma anch’io non le ricordo...sì, una me la ricordo, la vuoi sentire?
- Dài!
- Allora...
“ Luna cara, luna bella
che pendi su tetti e su nidi
ove dorme la rondinella perché mi guardi e sorridi? Perché mi guardi e mi baci?
...aspetta, non me la ricordo più...ah sì, ora risponde la luna:
Ti guardo perché mi piaci coi tuoi semplici occhi nuovi sorrido perché mi commuovi coi tuoi teneri occhi fidi coi tuoi limpidi occhi onesti:
ti bacio perché ti resti
un ricordo soave
quando il tempo verrà
che sarai uomo grave
e avrai persa la chiave
della Felicità. “
- Bella, una poesia tenera, con una punta di malinconia. L’hai scritta tu?
- No, è di un poeta che si chiamava....aspetta, mi pare Novaro.
- Mmh, sì: Angiolo Silvio Novaro, un poeta non molto conosciuto, scriveva soprattutto, o unicamente, poesie per l’infanzia.
- Infatti questa poesia me la leggeva mia madre quando ero piccola. Tu quanti anni hai?
- Ventinove.
- Credevo di più, io trentaquattro.
- Credevo di meno.
Mentivo, era bella, ma un poco sciupata e dimostrava qualche anno di più, specialmente vedendola in piena luce, eppure quelle piccole cicatrici del tempo, le rughe sottili tra gli occhi e le tempie, più visibili quando rideva, agli angoli della bocca e sul mento, in qualche modo che non saprei spiegare meglio, aumentavano, direi che nobilitavano la sua bellezza, tanto più che il suo corpo snello e proporzionato, i suoi modi e la sua voce, erano pieni di giovinezza.
- Cesare, ma tu non mi chiedi niente? Non vuoi sapere nemmeno come mai faccio questa vita?
- Se non me lo vuoi dire non te lo chiedo, se ne vuoi parlare ti ascolto volentieri, comunque per quanto mi riguarda ognuno fa quello che vuole, o che può, io non giudico mai. Nessuno.
- Sono scappata di casa a diciott’anni, mi sono messa con un lavativo che mi ha anche sposata, ma dopo poco tempo è sparito e si è fatto rivedere solo per chiedere dei soldi, poi ho trovato un altro peggio di lui e sono arrivata qui, dove sono adesso. Finita anche con lui, da un pezzo. Coi genitori non ho più rapporti, mi hanno tagliato. E’ venuto qui una volta mio fratello, mi ha letto la vita, mi ha dato anche due schiaffi, da allora non ho più né visto né sentito qualcuno di loro; meglio così, che vadano in malora!
- Magari, a modo loro, ti vogliono bene...

- Se lo tengano il loro bene! Adesso sono sola, bene che sto! Non mi metto più con nessuno, nemmeno uno ricco. Ogni tanto trovo qualche povero scemo che vorrebbe sposarmi, dico tra i clienti, vuole che cambi vita e mi promette mari e monti. Li mando a quel paese, tutti! Ogni tanto c’è qualcuno che mi da i suoi consigli, per il mio bene: preti, brave persone, tutti sembrano interessarsi di me, della mia vita, possibile non abbiano niente di meglio da fare? Tu almeno non mi dici niente.
- La vita è la tua. Non dico non ci sia niente di meglio da fare, ma se a te piace così....
- Non è che mi piace....è così. Meglio non ho trovato, poi magari, chissà, qualche giorno mi innamoro di qualcuno, dico innamorarsi per davvero, non per mettermi a posto, non per i soldi o per farmi una famiglia o cazzate simili, non dico nemmeno che smetterei di fare la vita, dipende. Certo che più passano gli anni e più è dura, dovrò smettere per forza una volta o l’altra, ma chi se ne frega! Del futuro non me ne frega niente, adesso sono qui e stop. E tu, ci pensi al futuro?
- Non so nemmeno cosa farò fra un quarto d’ora, figurati se penso al futuro. A volte vorrei che non ci fosse per niente: sinceramente non trovo buone ragioni per continuare a vivere, ma anche per ammazzarsi bisogna avere una buona ragione.
- Per esempio?
- Per esempio a causa di un grande amore che non si riesce a realizzare, un amore grandissimo, indescrivibile, che venga respinto, magari ridicolizzato: ecco un buon motivo per spararsi. Disgraziatamente sinora le storie che ho avuto si sono sempre realizzate, qualche volta senza neppure averle troppo cercate, e si sono sempre concluse, anche con dolore, ma non abbastanza.
- Anche tu non sei innamorato?
- Al contrario, lo sono quasi sempre, ma non è mai l’amore che intendo io. Anche in questo periodo ho una ragazza, non so come definirla, un’amica, un’amante. Ci si vede ogni tanto, a volte spesso, per qualche giorno, si va in giro, ci si diverte un po’, altre volte si piange assieme, qualche tenerezza, un po’ di sesso, magari per due mesi non ci si telefona neppure, e un giorno o l’altro, credo presto, finirà tutto, forse con una litigata, recriminazioni, scenate, strascichi, forse senza niente di tutto questo, tranquillamente.
- Ma vorresti trovare un amore vero?
- Non l’ho trovato per ora, probabilmente non l’ho mai neppure cercato, ma sono certo che un giorno lo troverò all’improvviso, senza capirne la ragione: sarà un amore travolgente, ma di sicuro lei fraintenderà i miei sentimenti, resterà fredda e insensibile al mio affetto, non le piacerò per niente, e infine mi dirà di non seccarla. E finalmente avrò trovato una buona ragione per ammazzarmi.
- Per una donna così?
- Questo è l’amore, questa è la vita, ma poi perché sto a raccontarti i fatti miei e le mie idee? Te ne frega qualcosa?
- Ma sì, per conoscerci un po’, te l’ho detto che non parlo mai con nessuno, a volte non ne ho proprio voglia, a volte però è dura. Guarda, è rimasta una sigaretta delle tue, ce la fumiamo a turno, o ti da fastidio?
- Ma cosa dici? Io mastico anche i chewing-gum già masticati, come si fa a provare schifo per un altro essere umano? Non ne sono capace.
Mi guardava con gli occhi spalancati, le si poteva leggere in viso quel che stava pensando: “ma guarda che strano tipo sono andata a incontrare stanotte!”


Poi parlammo davvero di tutto, dei pensieri che scappano, le speranze che muoiono, dei sogni che si fanno, e qualcuno era uguale. Ad un certo momento lei non aveva più nulla da raccontare, e allora fu il mio turno di parlarle di me, i vagabondaggi giovanili, l’anarchismo politico ed esistenziale, un figlio lontano e praticamente sconosciuto, il piano bar, il rock an’ roll, un incidente in moto, il bisogno di scrivere, le solite cose di sempre. Capitò un po’ di ridere e anche un po’ di commuoversi, e poi, come sempre, mi lasciai trascinare dal turbine delle parole, sinché a un certo momento mi accorsi che da più di mezzora parlavo solo io. Mi fermai. Lo sguardo di Patrizia era stanco, ma presente; si stirò le spalle allargando le braccia, strizzò gli occhi e sorrise.
- Quante cose sai, Cesare.
- Colpa della mia curiosità, ma il fatto è che me le ricordo tutte. Ma se uno si ferma un attimo a pensare, chiunque, si accorge di sapere molte più cose di quanto non immagini, solo che non ci fa caso. Anche tu, dovresti provare.
- Io non so niente.
- Ad esempio non ricordavi di sapere una poesia, e invece la sai, me l’hai detta prima! Scommetto che non ci avevi mai pensato.
- E’ vero!
- E chissà quante altre cose che non credi di sapere e invece...ascolta: c’è un gioco che facevo sempre da ragazzo, si tira a sorte una lettera dell’alfabeto e poi, a turno, si deve dire una cosa stabilita all’inizio: fiori, oggetti, città, attori, scrittori, cantanti, animali, qualunque cosa, che comincia con quella lettera.
- Mi piace.
- Benissimo, vedrai quante cose ti verranno in mente, cominciamo da...da che cosa?
- Dai nomi di cantanti...no, di città, però solo città italiane.
- Comincia tu: il nome di una città italiana che inizia con la lettera...
Puntai il dito sulla pagina di una rivista e la lettera estratta fu la “ p “: lei disse subito Pavia, velocemente seguirono Piacenza, Potenza, Padova, Parma, Pescara, qualche altra città con una pausa più lunga, sinché lei dopo un certo silenzio, mentre io minacciavo di contare fino a cinque e se lei non avesse in quel mentre trovato un’altra città di assegnarmi un punto di vantaggio, si sbatté ridendo la mano sulla fronte e quasi gridò:
- Ma che scema che sono: Prasco!
- Prasco? E che cos’è?
- Come che cos’è?!? E’ il mio paese!
- E dove si trova?
- Vicino ad Acqui, non l’hai davvero mai sentito?
- Vedi che non so poi tante cose come dici tu? Tra l’altro hai vinto la prima partita, con la P non mi viene proprio più in mente niente.
Prese un foglio di quaderno, tirò una riga in mezzo, da una parte scrisse “Patrizia” e dall’altra “Cesare”, quindi segnò un punto dalla sua parte, dicendo che avrebbe vinto chi arrivava per primo a dieci punti. Dopo qualche manche sulle città passammo ai fiori, estrasse lei la lettera “ g “ e io cominciai con “Giglio”, lei rispose “Grisantemo”.
- Eh no, si dice Crisantemo, con la “ c “!
- Davvero? Allora...gi...gi...Girasole!
- Ah, volevo dirlo io! Dunque...gi...ge...Geranio.
- Geranio? E io dico... dico.....Gemmadisole!
- Che fiore è? Non l’ho mai sentito.
- E’ il fiore più bello che esiste, il più raro, il più profumato, il più delicato...
- Ma com’è? Che colore ha?
- La Gemmadisole è....non lo so, l’ho inventata io adesso, non esiste sul serio. Hai vinto tu questa partita.
- No invece, è così bello questo nome! Magari esiste veramente: sì, ho deciso che la Gemmadisole esiste veramente.
- E che colore ha?
- Rosso, no, giallo....arancione, ecco! Ed è il fiore più bello che esiste, come hai detto tu, e vedrai che qualche giorno te ne porterò uno, magari per il tuo compleanno. Adesso però cambiamo gioco: tu pensi a una cosa, qualsiasi cosa, io ho sei domande a disposizione alle quali tu devi rispondere con sincerità, dopo la sesta domanda dovrò indovinare cosa avevi pensato.
- Che cosa ci giochiamo? Non dico soldi o cose materiali, ma un premio per chi vince, o una penitenza per chi perde, ci vuole per rendere il gioco più interessante.
- Sì, hai ragione, facciamo così: se indovino che cosa hai pensato ti do un bacio.
- E se non indovini?
- Se non indovino mi dai un bacio.
Non indovinai, aveva pensato alla parola “Felicità” e io avevo completamente sbagliato strada, chiedendole se era un essere umano, un animale o un minerale, se fosse una cosa commestibile, liquida o gassosa, lei rideva di gusto, come forse mai le era capitato nella vita, io alla fine buttai lì:
- Hai pensato a una Gemmadisole?
Baciarsi ridendo non sarà appassionante, ma è bellissimo. Seguì un lampo, andò via la corrente, e nel buio improvviso l’esplosione di un tuono la fece gridare per lo spavento e per la sorpresa. La abbracciai forte, tremava, ora stava piangendo, ma non era soltanto paura, ed allora la strinsi più forte, e in silenzio, senza farmi scoprire, anch’io piansi con lei. Quando tornò la luce ci fu ancora tempo per giocare, ricordare, scherzare, scoprii che soffriva il solletico, e fu un’altra occasione per vederla ridere sino alle lacrime. Eravamo seduti di fronte, lei ripiegò con cura i fogli che aveva usato per segnare i punti, come fosse qualcosa da conservare, poi il suo sguardo e il suo calmo sorriso mi apparvero stanchi, appoggiò la testa sul tavolo e chiuse gli occhi.
- Hai sonno?
- Un pochino, a quest’ora mi capita sempre. Faccio un altro caffè?
- Lascia stare, è tardissimo, saran quasi le sette. Sarà meglio che vada.
- Dove vai?
- Vado a casa, mi aspettano. Vado al ponte a fare l’autostop, a quest’ora trovo gente che lavora a Valenza, parecchi li conosco, mi danno un passaggio di sicuro.
- Ti porto a casa io...
- No, riposati, poi ti tocca tornare indietro, quelli invece ci restano. Magari un’altra volta.
- Non mi divertivo così da tanto tempo.
- Qualche sera ci rivediamo, ti porto le mie poesie, però non sono tanto allegre, magari giochiamo a qualcos’altro, andiamo a cena da qualche parte, insomma ci divertiamo!
- Io alla sera sono sempre là, dove mi hai trovato.
- Poi so dove abiti.
- Già, lo sai.
- Ora è tempo che vada, tu riposa; mi raccomando, ricorda di sorridere più che puoi, te l’ho detto che quando sorridi sei molto bella, dunque sorridi sempre, non farti prendere dalla tristezza, per nessun motivo, e...ciao Patrizia, ciao biondina.
- Ciao biondino.
Era la prima frase che mi aveva rivolto, e fu identica all’ultima, perché da quel momento non la rividi più. Ripassai molte volte dalla strada dove l’avevo incontrata, a volte solo per caso, mai da solo, sempre in auto con qualche amico, ma non era mai lì: forse era un’ora sbagliata, forse era in giro con qualche cliente. Una sera, casualmente, mi trovai sotto casa sua, mi fermai, il suo nome non c’era e il cognome non l’ho mai conosciuto, suonai a caso due o tre campanelli sperando di trovarla, o eventualmente per chiedere informazioni a qualche vicino, ma nessuno rispose e alla fine rinunciai. Poi passò un po’ di tempo, forse un anno, anche due, era ormai quasi uscita anche dal mio ricordo.

Una sera, in un bar, discorrendo per caso con un tizio che conosce tutte le storie dell’ambiente, ho saputo che si era poi messa con un ragazzo che conoscevo appena, ci avevo parlato due o tre volte in circostanze che neppure ricordo. Dunque aveva trovato l’amore.
Lui era di due anni più giovane di lei, un ragazzo buono come un pezzo di pane e mesto come un concerto di Pietro Locatelli, da dieci anni era tossicodipendente. Si erano trasferiti in un paesino dell’entroterra ligure, forse nell’Ovadese o in Val Scrivia, lui aveva provato ad uscire dall’inferno del buco, ma non ci era riuscito, ed allora anche lei, per amore di lui, perché non fosse solo nella sua sofferenza, era entrata nello stesso suo inferno.
Ed infine era morta, forse per incidente, overdose, omicidio, forse perché stremata da quella vita, forse per scelta, forse consumata da qualche malattia che non perdona, non l’ho mai saputo, non lo voglio neppure sapere. Vorrei solo che sulla sua tomba, dovunque essa sia, ogni giorno qualcuno posasse una Gemmadisole.
Nessun tuono, per quanto violento, le farà più paura. Forse, in qualche posto che sfugge alla nostra comprensione e persino all’immaginazione, avrà trovato l’isola dove avrebbe voluto abitare, non importa se non è nei Caraibi, e nemmeno su questo pianeta, così bello, così triste.
Certamente sarà in qualche luogo di questo o di altri universi, dove regnano il gioco e l’amore, ed esiste soltanto il sorriso.

“ Se non diverrete come fanciulli
non entrerete nel regno dei cieli “



w a l k o







fiordineve
00martedì 24 luglio 2007 01:03


Era il mio racconto preferito.

Rileggendolo, stanotte, ho co,preso quanto di autobiografico Walko vi avesse messo.


Per molto tempo mi sono chiamata Gemmadisole.....


http://freeforumzone.leonardo.it/viewmessaggi.aspx?f=12984&idd=8559


ELIPIOVEX
00martedì 24 luglio 2007 14:48
Devo avertelo già scritto: fai bene a ripescare nella memoria queste chicche.
I racconti di Walko lasciano sempre qualcosa dentro. Ti costringono a pensare, non puoi restare indifferente.
Il personaggio di Gemmadisole è veramente toccante, ha la capacità di farsi amare subito.
fiordineve
00mercoledì 25 luglio 2007 01:25
Re:

Scritto da: ELIPIOVEX 24/07/2007 14.48
Devo avertelo già scritto: fai bene a ripescare nella memoria queste chicche.
I racconti di Walko lasciano sempre qualcosa dentro. Ti costringono a pensare, non puoi restare indifferente.
Il personaggio di Gemmadisole è veramente toccante, ha la capacità di farsi amare subito.





e di non farsi dimenticare.


Ho imparato moltissimo da Walko, ma non la capacità di dcrivere come lui. [SM=x142833] [SM=x142887]
Questa è la versione 'lo-fi' del Forum Per visualizzare la versione completa clicca qui
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 15:21.
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com