Dal Diario di Hellen M.

Araminta
00sabato 25 agosto 2007 14:15
Pag. 65: PENSIERI DI UN’ANIMA PERDUTA IN UN TRENO

“Biglietto sola andata per Firenze”

“Scelta del posto?”

“Posto finestrino, qualunque esso sia”

“Ok.”

Il posto finestrino è basilare nei miei viaggi, mi basta appoggiare la testa a quel freddo pezzo di vetro per pensare, per parlare con me stessa, per ricordare, e per tentare di dimenticare.

Guardare quei paesaggi che scorrono veloci, al ritmo dei flashback che hanno tratteggiato le linee fondamentali della mia vita, fino a portare a questo viaggio sola andata.

Sono stata appena sconfitta, ho lottato a lungo contro le mie emozioni, la mia anima ha impugnato la sua spada con la stretta più forte che poteva. Ma quando le è venuto a mancare il nutrimento è stata sopraffatta.

Ed ora sono qui, su di un treno senza meta.

Sembrano le parole di una canzone, ma effettivamente è così.

La scelta che mi porta a Firenze è puramente casuale; sono morta, devo tentare di rinascere prima che abbandoni il mio corpo; non importa come, non importa dove, conta solo l’importanza del doverlo fare.

Vorrei essere un po’ Donnie Darko, col suo Io, la sua intelligenza, che gli permettono di conoscere parte di un grande disegno, un’intelligenza creduta follia, così elevata da poter sfiorare ciò da cui l’uomo fugge per timore e per viltà: il vasto disegno di Dio, da quale tutti dipendiamo e vorremmo poter controllare, e, non potendolo fare, cerchiamo di spiegare la metafisica con scienze finalizzate a rispondere a domande puramente terrene.

Kant definiva la metafisica una realtà in conoscibile, Hegel aveva invece la presunzione di affermare di conoscerla perfettamente; l’unico vero filosofo era il modesto Socrate: non convinto di sapere, ma curioso di scoprire.

Io ero convinta di molte cose una volta, ora non credo più in nulla, la vita ai miei occhi è solo un grosso e grasso punto interrogativo, che cresce fiero quando vede crollare quelle che sono le piccole certezze di un piccolo uomo.

Non sopporto chi mi dice “Reagisci, la vita è bella, che sarà mai?”, la vedo come una mancanza di rispetto nei confronti del mio dolore. Lasciatemi soffrire in silenzio. Vorrei solo una pacca sulla spalla, un abbraccio sincero, ma veramente sincero, ed una birra rossa doppio malto in una brocca molto capiente.

Odio essere compatita, odio quando si prova pietà di me. La provano le persone che non hanno mai assaggiato, per loro grande fortuna, un cucchiaio di amara sofferenza, non gliel’auguro mai, spero solo che ringrazino la vita ogni singolo giorno per ciò che gli ha dato e per ciò che non gli ha tolto, senza provare pena per chi ha le palle di soffrire.

Quando ho accolto qualcuno fra le mie cosce, l’ho sempre e solo fatto per amore e passione, ho sempre goduto ogni singola goccia dei miei umori che scorreva tremante sui loro corpi, appagati dai miei respiri affannati, e dalle piccole grida che trattenevano per non far sentire la loro passione.

Insomma: sono sempre stata un mare di emozioni, ora da mare sono divenuta vortice, perché ora quelle emozioni non hanno direzioni né mete, non sanno dove andare, sono perse in quella ristretta immensità che è il mio essere. Mi sono spenta piano piano, è stata una lenta agonia, dolorosa, straziante, che mi ha portata alla morte.

L’essere, il nulla, il divenire.

Io:

il nulla.

Chissà se esiste questo divenire, ma un divenire senza una base che lo faccia maturare, non può essere. E’ tutto un giro insomma, un brutto giro.
E’ facile parlare di emozioni come se fossero starnuti, banali raffreddori. Dire “non lo provo più” quando fino a prima si crede di nuotare in un incontenibile oceano.

L’anima non è un’automobile che si ferma per un’avaria al motore.

E ad ogni sosta del treno mi fermo in un punto preciso del mio passato. E non riesco a sorridere. Mi viene voglia di piangere. Piango, chiudo gli occhi, li riapro, e il treno è già ripartito.
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