Cosa sei bwana?

alberto_58
00sabato 12 luglio 2008 00:24
Giulio Cesare Nelson era già un uomo di quarantacinque anni, quando morì il suo unico figlio maschio, Catone Nelson, come lo aveva chiamato il suo padrone, bwana Alex Nelson.
Bwana Nelson, amava imporre personalmente il nome a tutti gli animali della sua immensa piantagione.
Amava andare in chiesa ogni domenica, per ringraziare il suo buon Dio di avergli dato tanta ricchezza e per non averlo fatto nascere negro.
Amava trattenersi fuori della chiesa, vestito di bianco, con un ampio cappello di paglia, il sorriso da benefattore sotto la barbetta grigia, parlare con il pastore e con i ricchi parrocchiani e le loro famiglie, quasi tutti proprietari di piantagioni di cotone come lui e ricchi commercianti.
Giulio Cesare aveva appena seppellito suo figlio, poco oltre la porcilaia, il cimitero dei negri, quando mama Orazia venne a dirgli che bwana voleva parlargli immediatamente.
Giulio Cesare si mise il cappello e andò nel giardino dove bwana stava facendo colazione con i suoi ospiti.
Il sole era cocente, bwana stava comodamente seduto su una poltrona di vimini, sotto una grande quercia, attorniato dalla sua famiglia e da alcuni amici. Giulio Cesare si fermò a debita distanza, tenendo il cappello in mano e badando bene di essere controvento, affinché la katinga, l’odore della sua pelle, non disturbasse i bianchi.
Rimase a testa china osservando a lungo la sua ombra, sentendo i discorsi dei padroni bianchi. Conosceva perfettamente la loro lingua, pur non dandolo a vedere oltre il necessario.
Parlavano di caccia.
“…al bersaglio grosso, miro sempre al bersaglio grosso…è un peccato rovinare la testa…!” diceva bwana Nelson.
“Condivido, condivido. Con i proiettili shrapnel la testa esplode e non è possibile imbalsamarla…” rispose bwana George Parker, proprietario della piantagione confinante.
“Ma caro…”
disse la signora Nelson sorseggiando il the con limone,
“sempre a parlare di caccia…non ti bastano tutte quelle teste di cervo nel salone?”
“Voi donne non capite niente di caccia.
Fosse per me tappezzerei tutta la casa…eh…eh…eh…”
“Anchio” intervenne bwana Majo Silver junior ridacchiando.
“Ma ho già la sala biliardo strapiena, oltre al salone principale, non saprei proprio dove metterle…”
“Non c’è più posto nel villino di caccia dove andate a prepararvi?
Alex ne parla sempre con entusiasmo di quella casa nella palude…”
I tre uomini si scambiarono un’occhiata all’osservazione della signora e bwana Nelson accavallò diverse volte le gambe tossendo.
“Ehm… ah! Ecco Giulio Cesare! Vieni… vieni…”
“Comanda, bwana.”
“Ho deciso di andare a caccia anche stanotte! Siete d’accordo signori?”
“Daccordissimo!”
“Perbacco!”
“Bene! Mi sento in forma! Presentati al signor Parker, che anche stanotte c’è da stare svegli e organizzare la battuta. Fatevi dare le torce e accompagnare lungo il tragitto. Dì al signor Parker che voglio che tutto funzioni come l’ultima volta! Capito bene? Ci siamo divertiti veramente…quel percorso in discesa dove ha mandato il cervo era fantastico! La sua fuga è stata senza scampo e il divertimento maggiore…vero amici?”
“Caspita!”
“Sublime!”
“Si, bwana.”

La notte era calda e parzialmente illuminata dalla luna crescente.
I tre amici si godevano il panorama in sella ai loro cavalli, sorseggiando rum dalle loro fiaschette d’argento.
“Diavolo d’un Parker! Perché non si presenta a rapporto?”
“Ha fatto tutto come hai ordinato, bwana.”
Disse Giulio Cesare, attorniato da un gruppo di schiavi con le torce in mano mentre i vari guardiani si passavano la voce cercando Parker, che era il loro capo.
“Che ne sai tu?”
Giulio Cesare si mise il cappello in mano
“Riferisco con rispetto che mi ha detto di dirti che ha fatto tutto come l’ultima volta. Ti aspetta sotto la grande sequoia al termine della discesa, dove ucciderai la preda, bwana.”
“Oh! Ma bene! Adesso anche i sovrintendenti prendono iniziative! Ma dove và il mondo? Mi sentirà…”
In quel momento, dal bosco salì come un lamento, un canto, unito al rullio di tamburi e al dipanarsi di un cordone semicircolare di torce che si intravedevano in mezzo alla vegetazione.
“I battitori si sono mossi. Forza Giulio Cesare! Vai anche tu con i tuoi negri! Muovetevi pelandroni!”
Bwana Nelson scartò con il cavallo verso i negri, che si dileguarono immediatamente nella notte.
I tre amici scesero lungo un costone, attraversarono un tratto di pianura delimitato da un ruscello e penetrarono nel bosco, avanzando lentamente verso il suono dei battitori.
I cani urlavano all’impazzata.
Il chiarore della luna si alternava alla luce fugace e cangiante delle torce che illuminava tratti di vegetazione nera e contorta diradandosi mano a mano che il bosco cedeva il passo a una vallata declinante a imbuto, tappezzata d’erba alta fino alla cintola di un uomo.
Tutto terreno di Nelson.
Non tardarono a scorgere, muovendosi all’impazzata nell’erba, una figuretta snella, correre senza una direzione fissa, arretrare, fermarsi, cadere e rialzarsi. A tratti sembrava scivolare, andando comunque sempre in discesa, verso la grande sequoia.
“E bravo Parker. In fondo il suo lavoro lo sa fare bene.”
“Certo!”
“Bravissimo!”
Cominciarono a scendere senza fretta, sparando ogni tanto un colpo in aria, giusto per terrorizzare l’animale, che non aveva scampo in quella specie di discesa a imbuto.
I battitori formavano un muro alle sue spalle e incalzavano con i tamburi e i canti. I cani latravano rabbiosi, tenuti al guinzaglio.
Raramente venivano sguinzagliati, perché, avevano sperimentato, raggiungevano e uccidevano la preda prima dei loro padroni, togliendo loro il gusto.
“Strano, non è veloce come gli altri, sembra che faccia fatica.”
Disse Majo Silver junior
“Effettivamente” fece eco George Parker, trangugiando una sorsata di rum.
“Non capisco. Corre come se non avesse mai visto l’erba. E cade.”
I tre si divisero a ventaglio e cominciarono a sparare nei pressi del bersaglio, per farlo deviare, in attesa che uscisse dall’erba alta
verso uno stretto pianoro, costretto da un’ala di battitori distaccata allo scopo, quella di Giulio Cesare.
Quando avvenne, la preda fu allo scoperto, ombreggiata dai declivi pietrosi della spianata che le impedivano la fuga se non davanti.
E dietro aveva i battitori e i cacciatori.
Era come fare il tiro al bersaglio. Regolarono con gusto le tacche di mira alla lunga distanza.
Nelson sapeva che la preda era sua. Gli amici non gli facevano mai lo sgarbo di colpirla per primi, anche perché era lui che organizzava la caccia e procurava le prede.
Loro erano lì per eccitarsi, fare un po di movimento, congratularsi vicendevolmente e riunirsi a cena nel villino di caccia, dopo aver staccato la testa della preda per l’imbalsamazione.
Nelson mirò, trattenne il fiato, premette in due sequenze il grilletto rilasciando il respiro, per non far rinculare prima del previsto.
La preda cadde rotolando.
Ci misero del tempo a raggiungerla, perché i cavalli procedevano circospetti nella discesa. Nel frattempo intorno alla preda si erano radunati i primi battitori e i sorveglianti.
La figura esile del ragazzo giaceva in mezzo a loro, faccia a terra. Indossava pantaloni rappezzati e una camicia scura.
I capelli, lunghi, bianchi e sporchi erano sparpagliati sull’erba.
Nelson scese da cavallo.
“Cosa ha in testa?” disse
“Sono i suoi capelli, bwana.” Rispose Giulio Cesare.
Un sorvegliante correva trafelato “Signor Nelson! Signor Nelson!
Hanno trovato Parker fatto a pezzi sotto la sequoia!”
Nelson si voltò appena alla notizia, guardava il ragazzo a terra, guardava i suoi amici, che reggevano le briglia dei cavalli, guardava i sorveglianti, che evitavano il suo sguardo…guardava i negri. Giulio Cesare era davanti a tutti, con il cappello in mano e una bisaccia unta al fianco.
“Voltatelo!” disse Nelson.
“Voltalo tu bwana. E’ un tuo diritto. Lo hai ucciso tu.”
Nelson ficcò la punta dello stivale sotto il petto del ragazzo e lo voltò di scatto.
La faccia di Stefan, il figlio di sedici anni di Nelson, sembrava dormire, nonostante le lacrime avessero rigato la sua faccia cosparsa di carbone, le labbra screpolate da urla che nessuno aveva sentito, bagnate da un rivolo di sangue. Nell’esile petto, lo shrapnel in uscita aveva aperto un foro come un pugno, che si andava allargando di rosso, il cuore centrato in pieno.
L’urlo di Nelson riecheggiò nel vallone, facendo ululare i cani e scartare i cavalli. Cadde in ginocchio, stravolto, inebetito.
“E’ stato un buon tiro, bwana. E’ morto subito. Mio figlio era ancora vivo quando gli avete tagliato la testa per portarla al villino di caccia.”
Tirò fuori dalla bisaccia una testa, tenendola per la nuca.
“Non è bello eh? Mio figlio era bellissimo e aveva l’età del tuo, bwana. E gli volevo molto bene, bwana.
Giulio Cesare si avvicinò a Nelson, che emetteva un rantolo dalla gola, come un animale, gli occhi vitrei.
Mise la testa del figlio accanto a quella di Stefan.
“Io provo dolore: è un sentimento umano, bwana.
Io provo odio. Anche l’odio è un sentimento umano, bwana.
Se io quindi sono un uomo e non una bestia, tu cosa sei, bwana?”






ELIPIOVEX
00domenica 13 luglio 2008 16:12
E' un racconto forte intriso di tutta l'ipocrisia dei "bwana" che si credono superuomini col diritto di vita e di morte sugli altri.
Lo ripeto, sei molto bravo.
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