ALDILA' DELLO SPECCHIO-

ceo1
00giovedì 15 febbraio 2007 16:13
ALDILA’ DELLO SPECCHIO


Parte I – Il Sindaco con gli occhi, uno, “guardillo” e l’altro, “dormillo” -


Non ricordo con precisione quando, ma, di certo, era già trascorsa l’estate dell’anno ottantacinque del secolo scorso.
A luglio, di quello stesso anno, ero stato elettto sindaco nel mio comune delle Quattro Rocche.
Un paesino del seicento, di quasi dodicimila anime, arrampicato su una dolce collina, ad un tiro di lupara dalla città di Trapani; famoso, ahimé, non certo per l’esclusiva produzione di una cucurbitacea, dolce e cristallina, conosciuta nei mercati più esigenti e raffinati “ come melone giallo d’inverno del tipo cartucciaro”, né per l’intenso ed ineguagliabile sapore “dell’aglio rosso” della frazione di Nubia, ma, a motivo della sua…… “alta, densità, mafiosa”.

Il mandato sindacale mi aveva tolto del tutto quel poco tempo di cui già disponevo; ed al lavoro, quello in ufficio, in famiglia e quello dei campi, avevo assommato quello di partito, di maggioranza, di giunta, di consiglio, di preconsiglio e di rappresentanza, col risultato di chiudere gli occhi, quasi subito, nei momenti in cui prendevo sedia, alternandoli però in modo che uno fosse sempre “guardillo,” e l’altro “dormillo”.


Parte II – La telefonata dell’Organo Inquirente-


Ero al lavoro quella sera quando da casa mi telefonarono per informarmi che avevano fornito il mio numero d’ufficio al Comando Provinciale dei Carabinieri di via Orlandini che avevano chiesto di me, segnalando l’urgenza di sentirmi quella stessa sera, e notizie della mia macchina, una Dyane 6 colore aragosta.
Col pensiero di essa, lasciai subito dopo l’ufficio, ma la ritrovai al solito posto, nel parcheggio dietro al vescovado, sotto l’attenta vigilanza di Manuele, un omone a cui avevo affibbiato l’etichetta di: “ultimo superstite di Waterloo,” per via del bastone che lo teneva in equilibrio nei movimenti incerti e danzanti della sua gamba di legno.
Manuele s’era sposato avanti negli anni, con una donna più giovane di lui, piccola e tonda, scorticata e mondata come un “carrateddu*.”
Lei lo tiranneggiava costringendolo a fare il posteggiatore abusivo per arrotondare la magra pensione, e lui, al bisogno, spostava le macchine a forza di spallate e di bastone , che usava, all’arma bianca, infilzando le carrozzerie.
Io, credo, che avrebbe fatto meglio a volgerne la punta contro il “carrateddu!”
A casa appresi che i carabinieri avevano chiamato altre due volte.
Cercai il loro numero sulla rubrica e li richiamai.
Mi fu risposto che il mio referente aveva lasciato l’ufficio.
Conclusi la serata con la cena e mi misi a letto.
Mi aspettava per il giorno dopo un intenso lavoro: avevo convocato il Consiglio per le diciotto.


Parte III – Ordine di comparizione –


L’indomani mi ritrovai di buonora nella mia stanza di sindaco; un grande salone, di forma rettangolare, con diverse porte d’accesso dall’interno del palazzo, sul lato lungo dell’ambiente, ed infissi sull’intera parete del lato corto, che, contrapposti alla mia scrivania, consentivano che lo stanzone s’inondasse di luce ed anche di potersi affacciare accedendo al balcone posto al primo piano sulla via Amendola.
La costruzione era stata realizzata negli anni sessanta, in stile fiorentino, dopo la demolizione del vecchio municipio, progettato, senza alcun compenso,dall’ingegnere agronomo Auteri, zio della mia nonna paterna, agli inizi del novecento.
Non mi sono mai sporto da quel balcone, e non so ancora oggi se per la mia innata riservatezza o per una sorta di solidale rispetto per il mio antenato.
Certo però, un municipio in stile fiorentino, per quanto io ami Firenze ed i fiorentini, nel mio paese,
a vocazione rurale e con le coperture dei tetti delle case in tegole d’argilla e coppi, francamente non ce l’avrei visto!
Qualcuno potrebbe osservare che sono miope! Ed è vero, ma non fino a questo punto!
Mi sedetti alla mia scrivania, sulla sedia “gestatoria”; un po’ più su, alle mie spalle, la foto del Presidente della Repubblica campeggiava al centro della parete, alla sua ed alla mia destra il tricolore in compagnia delle stelle del drappo dell’UE, e in posizione mancina il labaro del comune con i perfili dorati ed al centro le cicare fra le strisce.
Dopo le rituali, quotidiane telefonate per conoscere dell’efficienza dei servizi, quasi perennemente votati alla deficienza, e soprattutto dell’afflusso di acqua potabile nel cisternone di distribuzione di contrada Porticalazzo, sfilai la prima proposta di delibera al consiglio dalla pila di quelle che già erano state in ostensione.
Frattanto, i cantonieri, aperte tutte le porte, si apprestavano a preparare i banchi per la seduta serale di consiglio.
Curvo sulla scrivania nella lettura, fui colpito dall’eco cupa e perentoria di una voce: “ E’ lei il signor…….(seguirono cognome e nome).”
Chi vive realtà difficili impara presto ad intuire e capire ogni pur minima espressione dell’ambiente, per prevenire pericoli o trovare le risposte più adeguate agl’improvvisi e disparati accadimenti.
Quella voce era una poltiglia di rabbia e di rancore, sparata, coi rimbombi, in quel salone, contro di me ed al mio bersaglio grosso.
Non mi cataminai d’un pelo, alzai solo gli occhi sopra le lenti.
La sua figura, di buona stazza,, si stagliò ai miei occhi, in controluce, dall’altro lato del salone, con il suo impermiabile grigio antracite come la cuccumella che portava in testa, con le tese calate a coprire gli occhi.
Venga, venga avanti, si accomodi, gli dissi. Ma mi arrivò lo sparo dell’altra canna: “ venga, venga piuttosto lei qui, qui da me.”
Stavo per eruttare: “ incivile pezzo d’idiota, io sono a casa mia….” Ma mi trattenni e riesumai il buon senso dall’antico adagio che così consiglia: “ quando l’estraneo è in casa, la mala cera non serve a niente.”
Così, lemme lemme, mi tirai su dalla sedia ed a passo deciso lo raggiunsi.
Lui aveva poggiato, intanto, la sua cartella su un banchetto e tirato fuori un incartamento che mi porse per la firma.
Sottoscrissi e ne staccò una copia per me. Se ne andò così come era venuto, senza salutare e con il fiele in corpo.
La relata di notifica prescriveva a mio carico l’obbligo di recarmi, quello stesso giorno alle ore sedici, presso il comando provinciale dei carabinieri per essere ascoltato a fini di giustizia e con l’avvertenza, se non l’avessi fatto, dei rigori della legge, secondo gli articoli…..
bla, bla, bla.


Parte IV – L’Attesa.-


Fui dietro il portone del comando provinciale dell’Arma fedele nei secoli che mancavano una manciata di minuti alle sedici.
Pigiai il campanello. Il piantone m’apri e m’introdusse in una stanza d’attesa arredata non con sedie ma con panche lungo le pareti.
Gli mostrai l’ordine di comparizione; telefonò per avvertire della mia presenza, poi ripose le cornetta e rivolto a me riferì scandendo le parole : “ deve attendere. “
L’invito all’attesa funzionò da pungolo per cercare di capire cosa potessero volere da me con tanta urgenza e tanto malcelato astio. E la macchina? Perché avevano chiesto della macchina?
Già la macchina! L’avevo trovata con lo sportello scassato e con tutto quanto c’era dentro in gran disordine quella notte, di qualche mese addietro, quando avevo tenuto il consiglio nell’aula magna dell’istituto della scuola media.
E qualche giorno dopo la bravata mi furono recapitati, strappati e sgualciti, il libretto e la patente di guida.
Dell’effrazione, comunque, ne avevo sporto regolare denuncia, consegnandola nelle mani del maresciallo Giannino della Polizia di Stato, amico mio d’infanzia, che era venuto in municipio a perorare i bisogni di una delle due bande che operavano nel comune.
Ma non bande per l’associazione mafiosa e a delinquere! Bensì bande musicali.
Fui distolto dalle mie elucubrazioni e supposizioni dalla voce del piantone: “ Sono quasi le cinque, il mio servizio per oggi è terminato.”
Lo pregai, prima che se ne andasse, di ricordare a chi di dovere che ero in attesa già da un’ora.
Alzò la cornetta e parlottò; poi, con aria soddisfatta ed enigmatica, profetizzò: “ La stanno venendo a prendere.”
Fui accompagnato al primo piano e lasciato solo in una stanza, con la reiterata prescrizione:” Deve attendere.”
La porta fu richiusa alle mie spalle. Ma quanti bei visi alle pareti! Ritratti in bianco e nero ed a colori! Ed in testa agli album ed in grassetto la scritta RICERCATI, trattino, ASSASSINI.
Mi abbandonai d’istinto sulla sedia davanti alla scrivania, corredata di abat-jour a braccio snodabile e macchina da scrivere.
Mi riebbi alla percezione della mia immagine amminchionita riflessa da uno specchio stretto e lungo quasi tutta la parete.
Dovevo aspettarmi, dunque, un interrogatorio; un interrogatorio in piena regola.
Mi sapevo in pace con la mia coscienza e ben consapevole però che negli accadimenti della vita non basta avere ragione, ma occorre, soprattutto, di saperla dimostrare ed in maniera convincente.
Inoltre, possedevo i mezzi e le qualità per farlo, benché aldilà dello specchio a scrutarmi ed a soppesare ogni mia parola sarebbero stati in tanti , due, tre o anche di più : i miei curiazzi!
Mi affidai al cielo con una orazione.


Parte V –L’interrogatorio.-

Erano quasi le diciotto quando la porta s’aprì. A quell’ora avrei dovuto essere in consiglio, ma, viste le circostanze in cui mi trovavo, era l’ultimo dei miei pensieri.
In abiti civili e un sorriso d’occasione, un uomo sulla quarantina si fece avanti. Con fare bonario m’invitò a rimanere seduto mentre lui prese posto all’altro lato della scrivania, appena sotto lo specchio.
Ora la scena era completa. Io, l’uomo e a sovrastarci, lui, lo specchio: chiaro, stretto, lungo ed infido come le rapide di un torrente nei pendii di montagna.
Un trillo del telefono, un paio di sì d’affermazione e consenso da parte dell’uomo dettero l’avvio alle danze.
U.- Bene sig.….(profferì solo il mio cognome) se lei è d’accordo verbalizzeremo questa nostra…..
….come dire…….amichevole discussione alla fine, se sarà necessario.
Ed io, di rimando e di fioretto : " Mi scusi, ma con chi ho il piacere di parlare?"
U- Sono il maresciallo Tal Dei Tali e mi scusi lei, piuttosto, per non essermi presentato prima.

( Guardai lo specchio. Vi scorsi il diavolo col viso ostentatamente bonario dell’uomo. Ed il diavolo
quando è remissivo, accondiscendente e quasi ammaliante, o ti ha in pugno e gioca con te come il gatto col topo, o vuole da te qualcosa che dovrai pagare a caro prezzo.)
-Non ho nulla in contrario che si verbalizzi eventualmente alla fine – risposi.
( Pronunciai quell’ eventualmente” scandendolo e sputando le sillabe contro lo specchio)

U- Ci risulta che lei è il proprietario di una Dyane 6, colore aragosta, targata……

(Perché insistevano sul colore aragosta? I colori e le aragoste non hanno mai fatto male ad alcuno!)

Accompagnai con l’avanti-indietro del capo il mio: “ Sì, ne sono io il proprietario. “
U- E...la sua macchina è marciante?

(Marciante! Eh già, pensai, per un militare marciare è basilare!)

Alzai gli occhi allo specchio e con un sorriso in chiaroscuro ripetei: “ Marciante, marciante”
L’Uomo è sereno e deciso, sa dove vuole parare ed incalza: “ Chi, oltre lei, guida o ha guidato la macchina?”

(Porca miseria! Ed ora che dico? Confesso, o no? Era successo qualche tempo prima! Lei, giovane straniera, capelli corvini ed occhi nero liquido era stata trasferita da poco in città e non perdeva occasioni, che io comunque cercavo d’evitare facendo anche l’intordonito, per dimostrare quanto fosse brava nell’arte dell’a+++o. Quella sera però, mi fu fatale. Mi chiese di darle rudimenti per i suoi prossimi esami di guida. La portai nella pista, oramai in disuso ed in abbandono, dell’aeroporto di Kinisia. Non feci in tempo a cederle il posto che me la ritrovai di spalle sulle mie cosce, le mani al volante [...]*. Quella figlia di buona donna era una ottima guidatrice! Tutte le doppie curve, alternate a destra ed a sinistra, furono tutte nostre ed anche buche, fossi e saltarelli che, ai sobbalzi [...]*)

Non alzai gli occhi allo specchio, e risposi : “ io, io soltanto, guido la Dyane.”



- L’interrogatorio – continuo -Parte V

L’Uomo, non pago, insiste : “ non ricorda di averla imprestata a qualcuno? Di averla lasciata per riparazioni da un lattoniere, un verniciatore, un’autofficina?”

( Guardai lo specchio con occhi supplichevoli quasi per chiedere di porre fine a quello stillicidio di domande per me inconcludenti ed improprie. Ma le vie della giustizia sono, quasi sempre, imperscrutabili e fredde, molto di più di quello stesso specchio, che, algido e silenzioso, mi restituì la mia immagine senza un segno, una spiegazione, un conforto.)

Risposi ancora negativamente alla domanda e quasi per tranquillizzarmi raccontai di come quella notte d’estate, dopo la seduta di consiglio, avevo trovato la Dyane malridotta e con gli oggetti ed i carteggi vari in essa contenuti sparsi sui tappetini ed i sedili.
Conclusi precisando che dell’accadimento ne avevo sporto regolare denuncia, consegnata nelle mani del maresciallo Giannino della Polizia di Stato.
L’Uomo che fino a quel momento mi aveva lasciato raccontare senza interrompermi sembrò scuotersi e così esclamò: “ Ah, il maresciallo Giannino! Ma lo sa che è un caro amico mio? Anzi, sa che faccio? Lo chiamo.”
Compose il numero e poi: “ Ciao Giannino, di sicuro non sapresti immaginare con chi sto chiacchierando! Sono col Sindaco del tuo Paese……..”
Mi disinteressai della telefonata e tornai ai miei pensieri con lo sguardo, fisso ed intenso, rivolto al mio vero interlocutore.

(Sì, di fronte a me, indistinto, inesorabile e sconosciuto, stava lo specchio, il mio vero aguzzino, il mio giudice, l’arbitro del momento che teneva in pugno la mia libertà e la serenità mia personale e della mia famiglia. Ho sempre amato la trasparenza che nelle sue forme di lealtà e schiettezza appartiene ad un codice etico ai giorni nostri sempre più raro e sempre più in disuso. A stento frenai, perciò, l’impulso prorompente di gridargli contro: “ Fuori codardi ed imbelli! Venite fuori da quel miserabile riparo! Ch’io possa vedervi in viso e guardarvi negli occhi! Ch’io possa dire che la giustizia non opera come la mafia che si fa scudo e riparo del buio o di una pianta di ficodindia per fare esplodere la lupara! Ma lo specchio, muto, mi ritornò l’immagine del mio viso, stanco ed a labbra serrate, unitamente alla risposta non data alla mia domanda: “ Quale onore c’è in tutto questo e quale fondamento giuridico?)

Il tambureggiare dell’Uomo con le dita di entrambe le mani sulla scrivania mi riportò alla realtà.
Lo guardai. Mi sembrò confuso ed impacciato e, comunque, palesemente incapace di continuare a porre domande. Aveva bisogno di attingere all’anima nera, lì, aldilà dello specchio.
Si alzò di scatto e, sfuggendo al mio sguardo, bofonchiò: “ Mi attenda per qualche minuto, torno subito.” Qualche passo e s’arrestò con la mano serrata alla maniglia della porta ed il battito netto dei tacchi delle sue scarpe, poi, in semi giravolta del corpo ed in tono leggero, mi partecipò la notizia: “ Ah, dimenticavo! Il maresciallo Giannino la saluta.”
La porta si richiuse alle sue spalle. Mi alzai per sgranchirmi anche nel tentativo di scaricare la tensione, o forse, verosimilmente, alla ricerca di prospettive ottiche diverse che potessero consentirmi di osservare cosa stessero confabulando, aldilà dello specchio, i miei curiazzi.

( Esistono frangenti nella vita in cui anche uno specchio perde la sua anima ed, inspiegabilmente, ogni cosa rimane come nei sogni, senza corpo, né autore, né un perché; come se anche la materia pagasse il suo peccato originale. E per quanto mi sforzassi, non solo non riuscivo a scrutare oltre quella fredda, insulsa materia, ma anche la mia corporeità e la mia immagine erano scomparse nel nulla: dissolte ed irriflesse!)

L’Uomo ritornò nella stanza sfregandosi le mani e raggiunta la sua postazione, come recipiente che trabocca d’acqua, gorgogliò: “ Bene, bene! Lei conosce il Sig..(seguirono none e cognome) ?
Stetti qualche attimo in pensoso raccoglimento, ma, per quanti sforzi facessi, a quel dato anagrafico non riuscivo a dargli un volto, il legame di un ricordo o di un accadimento. Stizzito guardai lo specchio.

( Vi vidi danzare tante maschere che sfuggivano ad una moltitudine di mani che goffamente s’aggrovigliavano nel tentativo vano di abbrancarle. All’improvviso scomparvero e rividi il mio viso, irriconoscibile, sperduto e cupo e molto più somigliante ad un pupo di Tripoli.)

Durante la mia vacazione, l’uomo era rimasto lì, paziente, ad aspettare. Infine, con le labbra arcuate in segno di dubbio e di diniego, gli risposi: “ Quel nome non mi dice nulla! “ Epperò escludo ch’io possa non conoscere un mio concittadino, magari per averlo incontrato in piazza, in un bar, fra comuni amici, o che so io…. in qualunque altro posto. Eppoi nel mio Paese ci si conosce soprattutto e di più con le ingiurie ed i soprannomi!”

( D’istinto guardai lo specchio e vi scorsi, nella sua gabbia, appesa sul muro a lato della parmigiana, il “ calannaruni**” delle sorelle Pisciarasolio. L’uccello alle molestie dei ragazzi si metteva a strepitare gridando forte “ picciriddu, picciriddu, picciriddu ” richiamando così l’attenzione delle proprietarie che, con le scope in mano, s’affacciavano, in un battibaleno, sulla porta, in suo soccorso. All’istante il “calannaruni” si trasfigurò e vidi le mie sembianze che risucchiate dallo specchio si rimpicciolivano a vista d’occhio, sempre di più, sempre di più, fino a scomparire e ricomparire. Ero io il “calannaruni” sul trespolo nella gabbia delle sorelle Pisciarasolio! Ed ero piccolo, indifeso e senza le loro scope a salvarmi!)

L’Uomo s’aprì ad un largo sorriso che accompagnò con allegria all’esclamazione: “ Oh, certo, certo! U Surciteddu…..u Surciteddu! Conosceva lei u Surciteddu?

( U Surciteddu era stato il capintazza di una manata di perciapagliai scansafatiche, che, dopo aver ucciso il lavoro, avevano fatto la scelta obbligata di vivere d’espedienti, usando le intimidazioni e la violenza. In tal modo, il Nostro, era riuscito, quella stessa estate, a guadagnarsi le prime pagine dei quotidiani,quando fu ritrovato cadavere, in un casolare di campagna nelle immediate vicinanze del Paese. L’avevano ucciso a colpi di pietra nel tentativo, non riuscito, di rimodellargli la testa.
Un ruggito profondo di felino mi echeggiò nelle orecchie e m’indusse ad alzare gli occhi allo specchio. Vi vidi, in cinemascope, il leone della Metro Goldwin Mayer e subito dopo i titoli di testa cominciò il filmato con le riprese del palazzo municipale, nella sua architettura fiorentina. E c’erano le gazzelle al portone d’ingresso e tante, tante teste di cuoio mischiate a cineoperatori, paparazzi e giornalisti, mentre, a sfiorare la torre merlata, volteggiavano un nugolo di elicotteri. Serrato da ogni lato, sbucai, ai ceppi, dal portone. Dettero tutto il tempo ai media per le riprese, poi,al comando di qualcuno, mi ficcarono, brutalmente, in una gazzella e a sirene spiegate e con il codazzo il corteo s’avviò.)

Guardai l’Uomo diritto nelle pale degli occhi ed ebbi la certezza di averlo scorto, qualche attimo prima, fra i protagonisti del cortometraggio della Mayer, a conferma che è sempre “ amica “ la mano che taglia il bosco!
Mi limitai a commentare: “ U Surciteddu, u Surciteddu….. bella pezza di matapollo!

(Lo specchio era ora la steppa siberiana candida e innevata. Sentii l’ululato famelico del lupo e scorsi nelle fenditure dei suoi occhi neri, spietati e predatori la fiamma della sua selvaggia natura. Capii che era venuto il mio momento)
.
L’U: “ continui, si spieghi. Cosa vuol rappresentare?
Io – Non voglio rappresentare nulla che non sia la realtà dei fatti e degli accadimenti. Poco fa, le ho raccontato d’aver trovato la mia Dyane, nella notte, dopo una seduta del consiglio comunale, forzata nello sportello e violata all’interno. Ma, né lei ora, né chi ricevette la denuncia allora dette alcun seguito alla cosa.

L’U: “ E che cosa pretendeva? Quale seguito avremmo dovuto dare?

(Aveva pronunciato con strisciante ironia ed in modo spocchioso i suoi interrogativi. Ma lo specchio, come un bigliettino di ringraziamento dopo le esequie, stava di fronte a me listato a lutto e tagliato trasversalmente con una bella fascia nera.)

Replicai: “ Accertare, semplicemente, se ci fosse una qualche correlazione fra l’atto intimidatorio che ho subito e la mia carica istituzionale!

L’Uomo con una battuta da ebete: “ perché ce n’era?
Esclamai con forza: “ Certo che ce n’era e riguardava proprio “ u Surciteddu “ e la sua combriccola!”
L’Uomo sbiancò in viso, poi, come colpito a morte, con un filo di voce, mi rivolse l’invito: “ Esponga, esponga tutto quello che ha da dire.”

Io: “ Con la mia investitura a sindaco, sin dalle prime riunioni di giunta, m’ero ritrovato all’ordine del giorno una montagna di richieste di sussidi e fra queste quella del “ Surciteddu “ e degli accoliti della sua congrega. Solo dopo ampia ed approfondita discussione, feci verbalizzare nel registro delle sedute di giunta che l’Organo esecutivo, all’unanimità, aveva deliberato che non sarebbero state concesse sovvenzioni ad alcuno, se non in casi eccezionali di comprovato, effettivo bisogno.
Dopo qualche settimana dovetti suggerire all’Assessore alla solidarietà sociale, che s’era ritrovato i gaglioffi davanti casa nei momenti più impensati e che perciò temeva per sé e la sua famiglia, di riferire, che non Lui ma il sindaco era contrario all’erogazioni dei contributi. Così dovetti fronteggiare un tentativo di occupazione permanente della mia stanza, che sventai prendendoli per fame e dichiarandomi disposto, io davanti e loro al seguito, a tentare la richiesta di un onesto lavoro che li potesse occupare. Ma di sussidi, neanche a parlarne! Quella sera in cui trovai l’auto danneggiata, erano schierati nella prima fila riservata al pubblico, a braccia conserte ed in atteggiamento provocatorio e di sfida. Queste e null’altro le mie vicissitudini in questa storia con “ u Surciteddu. “

Il trillo del telefono scosse l’Uomo che abbrancò la cornetta. Io volsi lo sguardo allo specchio.

(Vi scorsi la scena dei pifferi di montagna scesi a valle per suonarle e ritornati alle loro case in rotta e suonati. Vidi le luci della ribalta spegnersi e provai un senso di liberazione e benessere. Lo specchio ustore aveva perso tutta la sua forza, la sua energia, la sua tracotante baldanza.)

Ritornai ad interessarmi dell’Uomo ora intento sulla tastiera della macchina da scrivere.

U- Faccio in un attimo. Una pura formalità. Lei è libero, libero di andare.
Ed io con flemma: “ La ringrazio, ma credo che mi sia dovuta una qualche spiegazione!”
U- Avevamo raccolto la testimonianza di un tizio che aveva visto aggirarsi nel giorno dell’uccisione “ du Surciteddu “ nei pressi del casolare di campagna dove fu ritrovato cadavere una Dyane colore aragosta. Poi fra le cose requisite alla famiglia dell’ucciso abbiamo trovato un’agenda con annotato un numero corrispondente a quello della targa dell’auto che appartiene a lei.”
Io: “ E…. vi siete girati il filmino!

L’uomo tacque, si alzò, mi tese la mano. La raccolsi con una stretta poderosa nella mia, mi girai ed uscii per le scale. In macchina, nel breve tragitto che da Trapani porta al mio Paese, ancora in preda al turbinio degli accadimenti, non degnai d’uno sguardo gli specchietti retrovisori, né quello centrale né quello laterale. Convenni con me stesso che erano sicuramente forti, precisi e concordanti gl’indizi di cui disponeva l’Organo inquirente, tanto da farmi supporre, per il modo che mi era stato riservato, che solo per il rifiuto del Magistrato di firmare l’ordine d’arresto, avevo evitato la mia “via crucis” dell’arena mediatica , del disonore e del pubblico ludibrio. Di una cosa però non avrò mai la certezza: se quel Magistrato era uno di quelli per i quali, già da anni, io prestavo il mio ausilio ed il mio lavoro. Amo pensare e credere che non lo fosse!
Spuntai nell’aula consiliare dal lato dell’uditorio, dov’era assiepata la gente. Il Vicesindaco, che in mia assenza stava conducendo i lavori, mi vide e s’alzò ed a imitarlo tutti gli altri consiglieri. Attraversai il salone e sedetti al mio posto. Nessuno, nessuno di loro poteva immaginare, né lontanamente supporre, che quel consiglio si stesse svolgendo per un puro caso del destino!



* “carrateddu”: botte, che, dalle mie parti, ha una capienza di 436 litri.

** calannaruni: Calandra, uccello canoro dell’ordine dei passeracei -

[...]* Omesso - Cobite







[Modificato da Cobite 18/02/2007 11.44]

ELIPIOVEX
00giovedì 15 febbraio 2007 17:05
Questo racconto riflette molto il carattere di una terra a me lontana e per questo mi è molto piaciuto. Anche lo stile asciutto e molte volte ironico, mi piace.
Avrei evitato le parentesi negli incisi, col salto di paragrafo si sarebbe capito comunque. Ma sono solo particolari...
Cobite
00domenica 18 febbraio 2007 13:37


Sempre un pizzico d'ironia fa da sfondo ai tuoi racconti.
Questo però un po' diverso lo è e fa riflettere.

Complimenti Vincenzo, bravo sempre. [SM=x142874]

Giancarlo


P.S. [SM=x142849] Poesie di sale è il siro di ceo1 [SM=x142891]

[Modificato da Cobite 18/02/2007 13.38]

fiordineve
00domenica 18 febbraio 2007 18:01
re

Musica divina. [SM=x142876] [SM=x142874]
Ironico e riflessivo, scritto con mano esperta mi ha fatto divertire e penasare a come sia vera la storia raccontata da te.

Mi rimane il dubbio: non sarà stato il sindaco ad uccidere davvero u Surciteddu? [SM=x142880] [SM=x142856] [SM=x142887]
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