7 aprile 1944

ELIPIOVEX
00mercoledì 27 giugno 2007 17:37
7 aprile 1944

Anche quell’anno era arrivato il Venerdì Santo: un altro giorno di digiuno e astinenza. Quaresima o oppure no, di digiuni ne faceva parecchi Marinella: quasi quattro anni di guerra avevano ridotto alla miseria e alla fame un po’ tutti. Puntualmente giravano falsi profeti che annunciavano la fine del mondo, nonostante questa paura serpeggiasse tra tutti, bisognava comunque andare avanti, pensare a mangiare e a sfamare i propri cari ogni giorno ed era una lotta continua. Invidiava terribilmente quelli che vivevano in campagna e che sapevano arrabattarsi con il proprio lavoro, invidiava tutti coloro che alla domenica riuscivano a mettere nel piatto un pezzetto di carne o di lardo. Nella sua famiglia non succedeva da parecchio tempo, perfino l’arenga veniva solo annusata, appesa su un filo al soffitto e strofinata con una fettina di polenta. Il digiuno riusciva sempre bene dato che non c’era quasi mai da mangiare.
Sarebbe stata una Pasqua triste con il fidanzato chissà dove, si sentiva tremendamente sola, anche se era circondata dalla sua famiglia e dai parenti arrivati per festeggiare con loro le feste. Ancora non era riuscita a capire cosa c’era da festeggiare. L’unica nota positiva era la bella giornata di sole in cui faceva sorprendentemente caldo, visto che era solo la prima settimana di aprile.
In casa si sentiva soffocare, a tavola non ci si sarebbe seduta neppure quel giorno, pertanto era sgattaiolata via dal retro e, seguendo il lungo Sile, si era attardata in giro.
All’improvviso sentì chiaramente l’urlo agghiacciante della sirena. Uno, due... sei volte, era l’allarme.

- George... George, come on!
In realtà il suo vero nome era Giorgio, americanizzato da molti anni ormai, ma gli risultava ancora difficile sentirsi chiamare in quel modo.
Si era distratto per un istante e subito glielo avevano fatto notare. Il momento era importante: erano impegnati in una missione, non poteva rischiare di sbagliare. Un incarico delicato, rovinare la festa ad un gruppo di tedeschi in una riunione di alto livello. Doveva essere fiero di parteciparvi, in realtà era preoccupato: sembrava che la sorte si fosse presa gioco di lui.
Molti anni prima aveva seguito la sua famiglia per l’America e aveva lasciato tutto nella sua Treviso. Aveva giurato a sé stesso che prima o dopo sarebbe tornato, ma mai avrebbe potuto immaginare che questo sarebbe avvenuto in quelle condizioni: dentro ad un quadrimotore da bombardamento, pronto a lanciare delle bombe sopra i tetti delle case che l’avevano visto nascere.
Prese di nuovo posto in prua e ricontrollò i piani di volo. Secondo i suoi calcoli mancavano venti minuti al raggiungimento dell’obiettivo. Visibilità ottima: il sole, quasi accecante, creava degli strani giochi di luce con i finestrini squadrati della fusoliera. Tutti i presupposti erano a loro favore.


Il rifugio... doveva andare al rifugio. Le risuonavano ossessive le istruzioni inculcatele durante le esercitazioni: - Correre al rifugio... subito... non attendere gli spari.
Sbrigarsi. Doveva correre, immediatamente.
Aveva camminato persa nei suoi tristi pensieri e non si era accorta di quanto lontano era la città: il rifugio antiaereo più vicino era almeno a mezz’ora di cammino. Non avrebbe fatto a tempo.
Un’ansia improvvisa la prese... ma magari era solo un’esercitazione: tante volte era successo, però non si era mai trovata così lontano da casa, così lontano da luoghi familiari. Tutti affermavano che nessuno aveva interesse a bombardare la loro piccola città. Tutti lo dicevano anche se in pochi lo credevano, forse era solo un modo come un altro per esorcizzare la paura del nemico.
Forse quel giorno era veramente arrivato e l’eco di delle sirene glielo stava ripetendo.
Si mise allora a correre, con il cuore impazzito dalla paura di morire. Non si fermò neppure quando sentì il rumore di alcuni aerei sopra la testa. Erano arrivati, non avrebbe avuto scampo.

George guardò l’orologio: erano le 13 passate, i militari impegnati nella ricognizione avrebbero dovuto essere sull’obiettivo. La radio gracchiò, come aveva previsto, tutto ok. Si poteva procedere.
Tutto era filato liscio. Non c’erano ostacoli. Nessuno si aspettava il loro arrivo.
Nemmeno lei se lo aspettava, ne era sicuro, e quel pensiero gli faceva male.
Nonostante fossero passati diversi anni se la ricordava ancora: le treccine bionde, il viso tondo e chiaro, talmente delicato e lentigginoso da arrossarsi sempre col sole d’estate. Lei era dolce, tanto carina. Nei loro giochi lui era il papà e lei la mamma. Tante volte si erano giurati per finta amore eterno. Lei si intestardiva sempre, le piaceva un sacco fingere di sposarsi. E lui se ne era sempre vergognato: diventava rosso come un peperone e non aveva il coraggio di ribellarsi. In fondo, in fondo, gli sarebbe piaciuto che quel sogno da bambini si fosse realizzato. Tutto però era miseramente scomparso quando aveva dovuto emigrare in America, mentre lei era rimasta lì, in quel quartiere. Nel frattempo doveva essere cresciuta, forse si era sposata e forse aveva pure avuto dei bambini anche se a sua insaputa.
Davanti a sé intravvide il profilo inconfondibile delle mura. Erano arrivati, il cuore gli si strinse ma dovette per forza fare finta di niente.


- Dove vai, sei impazzita?- Si sentì strattonare da una mano sconosciuta – Non puoi andare in città, fra poco inizierà l’inferno.
Non sapeva chi era, ma le intenzioni sembravano buone. Lo seguì docile sotto ai portici di una cascina poco lontano da lì. Arrivarono appena in tempo: dopo alcuni istanti sentirono dei tonfi e l’aria si fece via via più pesante. Il pavimento tremava tutto a causa dei fragori. Marinella nascose la testa tra le ginocchia e pregò sempre più insistentemente che tutto quell’orrore passasse presto.
Non seppe mai quanto tempo trascorse in quella posizione, probabilmente qualche minuto, ma sembrò interminabile. - Andatevene, vi prego, basta! - urlò ad un certo punto, tappandosi le orecchie con le mani. Ma dovette chinarsi di nuovo: una bomba era caduta vicinissimo, alzando un nuvolo di terra e calcinacci e costringendo tutti quanti a farsi scudo come meglio poterono.
Gli scoppi si susseguirono inesorabili, via via sempre più lontani, alla fine cessarono anche i rombi dei motori dei bolidi sopra alle loro teste.

Alle 13.07 avevano ricevuto l’ordine di sganciare, il suo lavoro era iniziato. Aveva programmato minuziosamente tutti gli obiettivi controllando quello che gli stava più a cuore: il quartiere dove era nato si trovava dall’altra parte della città e forse sarebbe stato risparmiato.
Non appena varcate le mura non aveva più saputo orientarsi con gli edifici che conosceva da bambino. Del resto era impossibile: prima vedeva tanti palazzi giganteschi e le strade gli erano famigliari perché conosciute e praticate dal basso. Su quell’aereo la città sembrava un tappeto di quadratini disseminati in un complicato disegno geometrico.
Venivano da sud ed era lì che vi erano i principali obiettivi da distruggere.
I granatieri nel suo stesso aereo aspettavano l’ordine direttamente da lui, non poteva causare dei ritardi. Sottovoce, in italiano per non farsi capire mormorò velocemente: - Perdonami Marinella – e diede il via.
Si sporse in avanti dal finestrino e vide le prime bombe cadere: quello spettacolo si era ripetuto tante volte negli ultimi mesi, ma quel giorno tutto aveva un sapore diverso. Cadevano sul suo suolo natìo. Stavano distruggendo le sue strade, la sua scuola, la chiese dove una volta andava a pregare, e con loro, tutti i ricordi di bambino. Per quanto si sforzasse di rimanere efficiente e distaccato, non poteva fare a meno di pensarci.


Silenzio. Improvvisamente si era fatto silenzio, ma nessuno aveva ancora il coraggio di muoversi. Se ne erano andati sul serio oppure era una finta? Si affacciò titubante: prima la testa e poi il resto del corpo. L’aria era diventata irrespirabile: un misto di fumo, polvere e terra la costrinsero a tossire. Si mise un fazzoletto sul naso e si sforzò di guardare dentro a quella fitta nebbia innaturale. Dalla città si vedevano alzarsi degli immensi falò, il fumo nascondeva ancora quello che era accaduto. Senza freni e vergogna si mise prima a singhiozzare e poi a piangere a dirotto, sorpresa dalla disperazione: avevano ucciso la sua città.
Senza dir niente a nessuno si incamminò verso casa con in testa un unico e ossessionante obiettivo: ritrovare i suoi cari. Per potersi sentire viva aveva necessità di sapere che anche loro erano sopravvissuti e potevano riabbracciarla. Troppa era l’emozione provata perché potesse tenersela tutta per sé. Mano a mano che si avvicinava al centro il puzzo diventava insopportabile. Si impregnava nei capelli, sui vestiti e non l’abbandonava più. Ad ogni passo si facevano via via sempre più alte e insistenti le grida della disperazione di chi aveva perso i propri cari.
Ne era consapevole: stava varcando la porta dell’inferno e non sarebbe più potuta ritornare indietro.

Avevano centrato l’obiettivo. Il segnale, un buffo manichino con una sottana posto sopra al tetto di un palazzo era servito allo scopo. Ancora si chiedeva come avevano fatto a costruire un manichino del genere, che si muoveva per fare loro il segnale: pure dall’alto ebbe l’impressione che fosse vivo. Passando aveva appena fatto in tempo a vedere l’edificio sbriciolarsi sotto ai suoi occhi. I loro occupanti, tedeschi secondo le loro fonti, dovevano essere tutti morti.
La felicità per aver centrato l’obiettivo fu oscurata per un momento quando vide anche il campanile di piazza dei Signori afflosciarsi: quello non era un obiettivo militare, ma perché l’avevano colpito? In molte delle città in cui avevano operato, aveva visto i monumenti crollare sotto il peso delle bombe, che non guardavano in faccia a nessuno. Non se ne era mai preoccupato, loro erano i liberatori e quindi era necessario anche il sacrificio di tutti, pure dei monumenti antichi
Ma quel giorno tutto aveva un sapore diverso, forse era il pensiero della dolce Marinella, spaventata dalle bombe parte delle quali stava facendo lanciare lui stesso. Spaventata, forse ferita o addirittura morta. No, non poteva essere morta, non se lo sarebbe perdonato. Mai.
Gli altri avieri si stavano rallegrando per la riuscita della missione: la contraerea aveva soltanto scalfito di striscio l’imponente stormo impiegato per l’operazione. Anzi loro non se ne erano nemmeno accorti. Invece gli obiettivi strategici erano stati tutti abbattuti con successo, a conferma avrebbero atteso l’ok del ricognitore.


Dopo un po’ la polvere si era faticosamente depositata sopra i mucchi di macerie: davanti a lei si apriva uno spettacolo desolante. La città era stata sfregiata orribilmente. Guardò esterrefatta dove doveva esserci il profilo netto e inconfondibile della chiesa di S. Martino: al suo posto c’era solo il nulla, era svanita, come inghiottita dalla terra. Col cuore in gola si diresse verso casa sua. Man mano che procedeva aumentava la paura di scoprire che loro, a differenza sua, non si erano salvati. Paura rafforzata dalle scene apocalittiche che le si presentavano davanti. Sangue, sangue e ancora sangue, dappertutto. E poi membra divelte: decisamente, se l’inferno esisteva, doveva proprio essere così.
L’urlo di una madre la raggelò: stava affannosamente scavando la terra con le mani nude e chiamando il nome dei suoi piccolini, soffocati come topi nel rifugio di casa.
Un’altra madre se ne stava ancora raggomitolata dietro ad un muro, miracolosamente rimasto in piedi. Aveva in mano un fagottino bianco e cercava in tutti i modi di tranquillizzarlo, ma non ci riusciva, in quanto era lei stessa ancora terrorizzata. Da ogni parte si girava vedeva sempre le stesse scene: sangue, dolore, pazzia, fumo e macerie. Quella non era più la sua Treviso, gli americani gliel’avevano portata via. Come avevano potuto essere così spietati? In quegli aerei c’era solo gente senza cuore, altrimenti non poteva spiegarsi un orrore simile.
Non poté continuare oltre. I tedeschi avevano bloccato il passaggio mettendo le camionette di traverso. Stavano scavando anche loro, nella speranza di ritrovare i propri compagni ancora vivi, se non ricordava male, in quel posto sorgeva l’hotel Stella. Che ci facevano lì quel giorno? Il pensiero le attraversò la mente solo per una frazione di secondo, il tempo di decidere quale altra strada percorrere.
Era molto più importante raggiungere casa sua. Anche se deserta, come in tutte le case che vedeva passando, avrebbe lasciato un biglietto, oppure avrebbe scritto direttamente sulla porta con del legno affumicato. - Sono viva – Solo questo era importante. Tutto il resto non contava.
Subito dopo si bloccò terrorizzata. Un fuggi fuggi generale le disse che stava accadendo qualcosa. Allora tese al massimo i suoi sensi e sentì nuovamente il rombo di un aereo che stava sorvolando la città. Il commento fu unanime: - Maledeti... i xe tornai.

La radio gracchiò un’altra volta. Era il collega, stava facendo le foto di ricognizione. Il lavoro era stato ben fatto. Potevano tornarsene felicemente a casa.
Già, felicemente. Non riusciva a smettere di pensare a quelle treccine bionde. Dov’era in quel momento? Si augurò che fosse entrata in tempo nel rifugio. Se fosse stata sorpresa in strada avrebbe avuto poche possibilità di scampo. Nonostante gli obiettivi fossero stati chiaramente individuati, proprio per non lasciare niente al caso, i suoi superiori avevano ordinato il consueto bombardamento a tappeto. Avevano sganciato migliaia di bombe. Nessuno poteva sopravvivere sotto a una simile concentrazione di fuoco. E se non morivano per le bombe, ci pensavano le schegge e i mattoni alzati in volo dallo spostamento d’aria a fare piazza pulita dei malcapitati.
Ma il dubbio era forte, anzi fortissimo. Quel giorno, quel 7 aprile del 44 giurò a sé stesso che a guerra terminata sarebbe andato a controllare personalmente, a verificare che con le sue bombe Marinella non fosse caduta per mano sua. Non avrebbe potuto vivere con un peso simile.


7 aprile 1994
A cinquant’anni dal bombardamento, durante la cerimonia di commemorazione, ho rivisto Giorgio, o George, come adesso si fa chiamare da tutti. Mi ha sconvolto sapere che c’era anche lui quello sciagurato Venerdì Santo. E’ venuto per accertarsi che fossi ancora viva. Perché non poteva vivere col rimorso di aver contribuito ad ammazzarmi.
Lodevole: - Ma gli altri 1600 morti che hai sterminato, di quelli non hai rimorso? - gli chiesi, anche se non c’era più traccia di rancore in me. Erano passati troppi anni per poter ancora provare rancore.
- Furono necessari – mi rispose semplicemente. Ma non ebbe il coraggio di guardarmi in faccia mentre me lo diceva. Non sapeva e non lo avrebbe mai saputo che io mi salvai proprio perché non raggiunsi quel rifugio. Tutti, non solo quegli sciagurati bambini, tutti quelli che andarono a nascondersi nei paraschegge morirono soffocati, sepolti dal crollo dalle strutture fatiscenti che quelli dell’UNPA si ostinavano a chiamare rifugi.
Poi, allora, gli feci la domanda che da sempre ci ossessionò tutti: - Perché?. - Ma nemmeno a questo seppe o ebbe il coraggio di rispondermi. Ormai era diventato un vecchio, da anni era cambiato, diverso da quel bambino che giocava con me nei quartieri della mia Treviso. Non era cambiato solo fisicamente, era diventato uno di loro, infatti non era venuto a piangere i nostri morti, ma solo a mettersi apposto la coscienza.
Lo salutai allora, cosciente che non l’avrei mai più rivisto.

[Modificato da ELIPIOVEX 28/06/2007 14.18]

sari.
00giovedì 28 giugno 2007 09:33
Un ricordo di guerra
Una guerra per noi solo raccontata, ma che spaventa.

Sai narrare bene, Eli, brava.
Che poteva fare quel povero George? Non poteva fare altro che ubbidire... è stato anche lui vittima.
La tragedia si pone ai nostri occhi in tutta la sua drammaticità solo quando c'è di mezzo il sentimento... infatti George pensa a Marinella e non ai suoi tanti compaesani.

Ciao Eli. Sari


un@ltrame
00giovedì 28 giugno 2007 09:50
commovente e ben scritto.
davvero brava [SM=x142892]

ha ragione sari: non si soffre altrettanto profondamente per centinaia di persone come si riesce a farlo per una soltanto.
forse fanno eccezione le stragi in cui le vittime sono bambini.
forse è una forma di difesa.
grazie

ELIPIOVEX
00giovedì 28 giugno 2007 14:24
I due personaggi sono di fantasia ma il racconto è una storia vera. Avevo preso spunto da alcuni brani letti e narrati da chi è sopravvissuto, tra cui anche la storia di un aviatore trevigiano che quel giorno era su un aereo a bombardare la città.
Mi piaceva l'idea di continuare a ricordare quell'evento anche se sono passati tanti anni. La città ha ancora le ferite di quei giorni ma molte persone se lo sono scordato.
Quest'anno il 7 aprile alle 13.00 le campane hanno suonato in ricordo dei tanti morti, ma niente più. Alle commemorazioni degli anni scorsi si sono presentate solo poche persone.

gibaforum
00sabato 8 settembre 2007 12:31
Sopravvissi

Bambino, sopravvissi. Le tue parole, di te che non vedesti ma sapesti cogliere i racconti, fanno tornare alla mente Amleto: "...succedono più cose al mondo, Oreste, di quante non ne contempli la tua filosofia."

Tu racconto come se ci fossi stata. Brava e breve, un racconto che dovrebbe dispiegarsi in romanzo, Giuliano
Cobite
00sabato 8 settembre 2007 16:40
Bravissima Michela, hai saputo prima creare l'ambiente e poi far rinascere quello che è stato provato il quel giorno. Mi ha toccato.

Un giorno ho trovato in internet l'elenco dei morti della seconda guerra mondiale.
E poi dicono che i numeri sono sterili, a leggerli mi veniva da piangere non solo perchè erano morti tanti soldati, ma perchè i morti civili erano almeno il doppio.
Il personaggio di questa storia si chiede il perchè di tanti morti. Secondo me quello è stato uno dei tanti atti terroristici calcolati per uccidere madri, padri e bambini e demoralizzare così le truppe. Strategia di guerra lo chiamano i vincitori, terrorismo lo chiamano io
Nagasaki Hiroshima sono i due atti terroristici più ricordati per via delle bombe atomiche, ma peggio ancora è stata la distruzione totale di una città d'arte tedesca dichiaratamente priva di obbiettivi militari di cui poco si parla: Dresda. La città fu bombardata dal 13 e il 15 febbraio 1945 con una quantità di fuoco da superare la bomba atomica. Li i morti civili furono dai 65.000 ai 130.000, forse quanto le due città giapponesi assieme. Neppure chi potesse contarli era sopravissuto! Gli americani sapevano che non avrebbero trovato alcuna resistenza e ne approfittarono per ammazzarli tutti.
E' stato quello il più grande atto criminale terroristico che la storia ricordi ed è ancora impunito.

Scusate se ho deviato.

Giancarlo


ELIPIOVEX
00sabato 8 settembre 2007 20:54
Assolutamente nessuna deviazione: parliamo di guerra [SM=g27811]
Io adoro la storia. Sono sempre stata affascinata dagli autori che parlano della storia in tutti i suoi lati umani.
Io mio è stato un piccolissimo omaggio ad un grande autore trevigiano: Giuseppe Berto e il suo Il cielo è rosso. L'ho letto molte volte cercando di cogliere tra le rovine che lui descriveva i dettagli della mia città.

Infine Giancarlo e Giuliano: siete voi che avete commosso me!
Grazie
Cobite
00domenica 9 settembre 2007 16:47
Gentilissima, ti passo alcune pagine interessanti:

-qui trovi un sito abbastanza documentato sulla guerra 1939-1945 che fa pensare cronologia.leonardo.it/storia/a1945.htm

-qui trovi il sunto delle vittime cronologia.leonardo.it/storia/a1945f.htm

Ciao

Giancarlo
ELIPIOVEX
00domenica 9 settembre 2007 21:36
Ogni tanto ci passo a leggere. Grazie mille!

A chi interessa per qualsiasi motivo sapere di più del bombardamento di Treviso. Questo è il link dell'associazione 7 aprile 1944.

www.treviso7aprile1944.org/eventi.html

Sono particolarmente legata alla nascita di questa associazione. Nell'anno in cui avevano deciso di costituirsi erano andati casa per casa a raccogliere informazioni, oggetti e foto e la nonna di mio marito aveva orgogliosamente contribuito con moltissimo materiale.
Quella volta ci trascinò quasi a forza a vedere la mostra.
Nel racconto ci sono molti riferimenti a lei. Una grandissima donna che ricordo ancora con nostalgia.

Cobite
00lunedì 10 settembre 2007 00:30

Ho letto il sito ed ho visto che Treviso non ha dimenticato i morti di Dresda, la città tedesca di cui parlavo.

Grazie Michela

[SM=x142887] [SM=x142887] [SM=x142887]

[SM=x142838] Giancarlo

suleika73
00domenica 23 settembre 2007 17:13
...
Un racconto duro...ma la tua prosa mi piace moltissimo!!!!!!Brava eli!!!!!!!!!! [SM=x142873]
ELIPIOVEX
00domenica 23 settembre 2007 21:28
grazie troppo buona
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