ATTO QUINTO
SCENA PRIMA - Il Palazzo di Teseo in Atene
(Entrano TESEO, IPPOLITA, FILOSTRATO, Cortigiani e Valletti
IPPOLITA: Strani casi, Teseo, narran costoro.
TESEO: Più strani che veraci. Non do fede a fole assurde, a magici trastulli.
Amanti e pazzi hanno fervida mente, fecondo immaginar, che concepisce più idee che la ragione non intenda.
L'insensato, l'amante ed il poeta son tutti fantasia. L'uno demoni in maggior copia vede che l'Averno immenso non ricinga; ed è il demente.
L'innamorato, ch'egli pur delira, scorge in un viso egizio la bellezza d'Elena argiva. L'occhio del poeta, volgendosi in sublime frenesia, mira di terra in ciel, di cielo in terra; e al modo che la mente va formando idee di cose ignote, el colla penna le configura, e la dimora e 'l nome conferisce ad un nulla evanescente.
Del forte immaginare è l'artifizio tal, che se gioia sogni, esso un datore di quella gioia tosto concepisce; e di notte, a un pensiero di spavento, può far sì che un cespuglio sembri un orso!
IPPOLITA: Ma questa storia di notturni casi, di sentimenti trasmutati a un tratto, attesta di non vane visioni; sostanza e corpo assume; benché resti tuttavia sorprendente ed ammiranda.
TESEO: Ecco gli amanti, pieni di letizia.
(Entrano LISANDRO, DEMETRIO, ERMIA ed ELENA)
Gioia, amici soavi, e giorni vividi d'amor vi seguan sempre!
LISANDRO: Più che noi Scortin le vostre vie, le mense e il letto!
TESEO: Suvvia; con quali spettacoli o danze consumeremo le tre ore (un lento secolo) tra la cena ed il riposo?
Dov'è l'ordinatore delle feste?
Quali svaghi son pronti? Non v'è dramma per alleviar quest'ora di tormento?
Qui Filostrato venga.
FILOSTRATO: Eccomi, sire.
TESEO: Che diletti offri tu per questa sera?
Musica? Uno spettacolo? Ingannare potremo il pigro tempo senza spassi?
FILOSTRATO: Ecco un elenco d'allestiti svaghi:
diteci, Altezza, qual volete prima.
(Porge un foglio)
TESEO (legge): "La guerra co' Centauri, cantata sull'arpa da un eunuco ateniese".
All'amor mio di già narrato ho il fatto, in onore del mio congiunto Alcide.
"Il gran tumulto delle Menadi ebbre che nel loro furor straziano Orfeo".
Vecchio tema; esso fu rappresentato quando tornai da Tebe vincitore.
"Le nove Muse in pianto per la morte del Sapere, defunto in indigenza".
Una satira è questa, aspra e severa, che non s'addice a nuzial ritrovo.
"Uggiosa e breve scena del bel Piramo e di Tisbi amor suo; tragico spasso".
Tragico spasso! Uggiosa brevità!
Sarebbe come dir ghiaccio scottante, e neve prodigiosa che fiammeggia.
Come trovare accordo in tal discordo?
FILOSTRATO: Sire, dieci parole è lungo il dramma; ch'io sappia, non n'esiste uno più breve; ma di troppo vi son dieci parole; il che lo rende uggioso: in tutto il dramma non v'è parola o attor che paia a posto.
E tragico, mio duca, esso è di certo; perché Piramo v'è che vi s'ammazza.
Piansi al veder la prova; ma più lieto pianto non versò mai riso sonoro.
TESEO: Chi son dunque, Filostrato, gli attori?
FILOSTRATO: Ruvidi artieri ateniesi tutti, che, alle fatiche del cervello nuovi, hanno sforzato la memoria incolta con questo dramma, per le vostre nozze.
TESEO: Udremo il dramma.
FILOSTRATO: No, mio nobil sire; non è degno di voi: tutto l'ho udito, e non val nulla, proprio nulla al mondo; a meno che per voi non sien di spasso l'ansia e gli sforzi di chi l'ha studiato, in vostro onore.
TESEO: Vo' udir questo dramma:
non è mai da spregiar quant'è compiuto per schietto zelo. Orsù, fa' entrar gli attori:
e voi, signore mie, prendete posto.
(Esce Filostrato)
IPPOLITA: Veder mi spiace l'imperizia oppressa, e lo zelo perir nel far servigio.
TESEO: Ma tu ciò non vedrai, dolcezza mia.
IPPOLITA: Gli attori (udisti) son de' buoni a nulla.
TESEO: Buon per noi ringraziarli di quel nulla, e intendere quel ch'essi fraintendono:
la nobil mente nel maldestro zelo osserva l'intenzione, non il merito.
Ovunque andai, di gran dottori vennero a farmi omaggio in meditate frasi; ed io li vidi impallidir, tremare troncar i detti a mezzo, soffocare per timidezza gli studiati accenti, alla perfine perder la favella, senz'aver proferito il benvenuto.
Credimi, cara, per me quel silenzio fu pari ad un saluto, e la modestia del pavido rispetto mi fu grata certo non men che la ciarliera lingua d'un eloquenza petulante e ardita.
Secondo me, zelo impacciato e amore, senza dir molto, san parlare al cuore.
(Rientra FILOSTRATO)
FILOSTRATO: Se piace a Vostra Grazia, è pronto il Prologo.
TESEO: Fa' che s'appressi. (Squilli di tromba)
(Entra ZEPPA per recitare il Prologo)
ZEPPA: "Se manchiamo, è col nostro buon volere.
Di non mancare non ci preme infine.
Se non mostrar le nostre arti sincere, ecco il principio ver del nostro fine.
Credete, qui veniam, ma per dispetto.
Non già, volendo compiacere voi, ci demmo briga. Per vostro diletto, qui non siamo. A far scontenti voi, gli attor son pronti: e dalla loro prova, imparerete cosa a voi non nuova".
TESEO: Costui non bada davvero alla punteggiatura.
LISANDRO: Ha fatto correre il suo prologo come un puledro bizzarro:
non conosce il freno. Se ne può ricavare un buon precetto, signor duca: parlar non vale, a chi non parla ammodo.
IPPOLITA: Davvero, ha recitato il suo prologo come un bambino suonerebbe il flauto: traendo voci senza norma.
TESEO: Il suo discorso pareva una catena aggrovigliata: nulla di guasto, e tutto in iscompiglio. Ma chi viene adesso?
(Entrano PIRAMO e TISBE, il MURO, il LUME-DI-LUNA e il LEONE)
ZEPPA: "Voi, dame e cavalier, forse stupite; stupite ancor, finché si spieghi il vero.
E' questi il giovin Piramo, capite; e questa bella dama è Tisbi, invero.
Quest'uom, di calce lordo, raffigura il Muro, il Muro vil che i due divide:
e quei meschini da una sua fessura godon di bisbigliare; al che niun ride.
L'uom con lanterna, can, rovi in fastello, Lume-di-Luna gli è, nel cui chiarore darsi convegno di Nino all'avello non stimano gli amanti un disonore.
Sì truce belva (ch'è Lion chiamata) Tisbi fedel, giunta prima in nottata, mette in fuga, impaurita, o spaventata.
Cade a lei, in corsa, il manto: e il Lion vile col muso il lorda, ch'è di sangue intriso.
Ecco Piramo giunge, alto e gentile, della sua Tisbi trova il manto ucciso:
prode, con lama sanguinaria e fella, si squarcia il sanguinoso e ardente seno:
d'un gelso all'ombra attende la sua bella, quel ferro tragge, e muor. La storia appieno diran Lume-di-Luna, ambo gli amanti, Lione e Muro, nel restar qui innanzi".
TESEO: Vorrei sapere se parlerà anche il Leone.
DEMETRIO: Non sarebbe da stupire: dove parlano tanti asini, sarà permesso a un leone di fare altrettanto.
(Escono Zeppa, Piramo, Tisbe, Leone e Lume-di-Luna)
MURO: "Nell'intermezzo nostro raffiguro io, di nome Cannello, un certo muro; muro provvisto d'un cretto, d'un fesso, traverso il quale bisbigliano spesso (badate di tenerlo bene a mente) Piramo e Tisbi assai segretamente.
Calce, intonaco e pietra, dan segnale ch'io son proprio quel muro; il vero è tale:
a destra e manca è il cretto, ove gli amanti dovranno bisbigliare trepidanti".
TESEO: Sarebbe possibile a un impasto di calce e pelo di parlar meglio?
DEMETRIO: E' lo spartito più assennato ch'io abbia mai udito ragionare, signor duca.
TESEO: Piramo s'appressa al muro: silenzio!
(Rientra PIRAMO)
PIRAMO: "O tetra notte! O notte d'ombra spessa!
notte presente ognor che il dì non è:
temo che Tisbi oblii la sua promessa!
Oh notte, notte! Ahimè, ahimè, ahimè!
E tu, muro, o leggiadro, o dolce muro, che sei confine tra suo padre e 'l mio; muro, muro, o leggiadro e dolce muro, mostrami il cretto ove col guardo spio!
(Il Muro porge le dita)
Buon muro, Giove in grazia sua ti tenga!
Ma che veggo? non v'è la mia diletta.
Vil muro, che 'l mio ben non mostri, venga tua pietra, che m'illuse, maledetta!" TESEO: Mi par che il muro, dotato com'è di sentimento, dovrebbe maledire a sua volta.
PIRAMO: No, davvero, signore: "Maledetta", è il richiamo di Tisbi: lei deve entrare in iscena adesso, e io la devo adocchiare attraverso il muro. Vedrete che succederà per l'appunto come v'ho detto io. Eccola che viene.
(Rientra TISBE)
TISBE: "Tu gemere odi spesso me tapina, muro, che celi l'amor mio così!
Spesso, colla mia bocca ciliegina, bacio i sassi che pelo e calce unì".
PIRAMO: "'Veggo' una voce: al cretto sull'istante, caso mai s''oda' di Tisbi l'aspetto.
Tisbi!".
TISBE: "L'amante mio! Se' tu, di', caro amante?" PIRAMO: "Ma sì, la grazia son del tuo diletto qual 'Limandro', leal mi fe' la sorte".
TISBE: "Qual Elena sarò fino alla morte".
PIRAMO: "Sì fido a 'Procro', 'Sciafal' non fu mai".
TISBE: "Me, qual 'Sciafalo' a 'Procro', fida avrai.
PIRAMO: "Dammi un bacio attraverso il muro vile!" TISBE: "Pietra bacio, non già labbro gentile".
PIRAMO: "Al tumul 'babbione' verrai meco?" TISBE: "Per la vita e la morte, là mi reco".
(Escono Piramo e Tisbe)
MURO: "Io, Muro, fatta ho già la parte mia; ed avendo finito, vado via".
(Esce)
TESEO: Crollato è il muro tra i due vicini.
DEMETRIO: E' un guaio, signor duca, quando i muri son così protervi da origliare alla chetichella.
IPPOLITA: E' la filastrocca più stolta che udissi mai.
TESEO: I migliori attori non son che larve; e gl'infimi non son ad essi inferiori, se la fantasia vi soccorra.
IPPOLITA: Dovrà dunque mettersi all'opera la fantasia vostra, non quella degli attori.
TESEO: Se non abbiamo di loro idea più trista di quella che ne hanno loro stessi, potranno anche passare per attori egregi. Ecco venire due nobili animali, un uomo ed un leone.
(Rientrano il LEONE e il LUME-DI-LUNA)
LEONE: "Tenere dame, cui sgomenta il cuore sconcio sorcio che strisci sul piantito, fremer, tremar qui potreste d'orrore, udendo d'un lion truce il ruggito.
Ma son io, Bietta stipettaio, un vello di lion, non pur madre a lion fello; ahimè per la mia vita, se a tenzone qui venissi in persona di lione!" TESEO: E' una bestia garbata e coscienziosa.
DEMETRIO: Il tipo più adatto per bestia ch'io vedessi mai, signor duca.
LISANDRO: Questo leone è una volpe davvero per la prodezza.
TESEO: Di certo; e un'oca per la prudenza.
DEMETRIO: Non direi, signor duca: perché la sua prodezza non può trascinare la sua prudenza; e la volpe, invece, trascina l'oca.
TESEO: Son certo che la sua prudenza non può trascinare la sua prodezza, così come l'oca non può trascinar la volpe. Basta:
rimettiamo la questione alla sua prudenza e ascoltiamo la luna.
LUNA: "Bicorne luna è 'l mio fanal di corno...".
DEMETRIO: Costui avrebbe dovuto portar le corna sulla testa.
TESEO: Ma no: non è una luna crescente, e le corna si confondono colla circonferenza.
LUNA: "Bicorne luna è 'l mio fanal di corno e sembrare degg'io l'uom-nella-luna".
TESEO: Questo sproposito è il più grosso fra quanti ne abbiamo uditi:
bisognava mettere colui nel suo fanal di corno. Come altrimenti può essere l'uom-nella-lona?
DEMETRIO: Non s'arrischia d'entrarci per via della candela; vedete, ha già i fumi.
IPPOLITA: Questa luna mi tedia; vorrei mutasse un po'!
TESEO: Il suo fioco lume di ragione dimostrerebbe ch'è in sul calare; e d'altronde, per cortesia, e per discrezione, conviene attendere che compia la sua fase.
LISANDRO: Tira avanti, luna.
LUNA: Tutto quello che ho da dire è dire che la lanterna è la luna; io, l'uom-nella-luna; questo fastello di spine, il mio fastello dl spine; e questo cane, il mio cane.
DEMETRIO: Però cotesta roba dovrebbe star nella lanterna; perché è roba che sta nella luna. Ma silenzio! ecco Tisbe.
(Rientra TISBE)
TISBE: "Ecco l'avel 'babbione'. Ov'è il mio caro?".
LEONE (ruggendo): "Oh!".
(Tisbe fugge)
DEMETRIO: Bel ruggito, Leone.
TESEO: Bella corsa, Tisbe.
IPPOLITA: Bel chiarore, Luna. Questa luna splende proprio con grazia.
(Il leone scrolla il manto di Tisbe)
TESEO: Bella scrollata, Leone.
(Esce il Leone)
LISANDRO: E il leone è sparito.
DEMETRIO: Ed ecco Piramo.
(Rientra PIRAMO)
PIRAMO: "Grazie, luna, pel raggio solatio; grazie, luna, pel chiaro tuo splendore; mercé il barlume tuo dorato e pio, godrò la vista del mio fido amore.
Ferma: oh dispetto!
Ve' poveretto!
Quale sventura fella Vegg'io davvero?
Esser può vero?
Tu cara! Tu anatrella!
Sul tuo bel manto il sangue è spanto?
Furie fiere, accorrete!
Parche, tagliate Fil, penerate!
Colpite, distruggete!.
Or muoio, muoio, oh, lasso!".
(Muore)
DEMETRIO: Non lasso: asso, piuttosto, essendo rimasto solo.
LISANDRO: Men che asso, amico: ora ch'è morto, non è più nulla.
TESEO: Coll'aiuto del cerusico, potrebbe riaversi ancora, e mettersi a far l'asino.
IPPOLITA: Come mai la luna se n'è andata innanzi che Tisbe torni a ritrovar l'amante?
TESEO: Lo ritroverà al lume delle stelle. Eccola; il suo lamento porrà fine al dramma.
(Rientra TISBE)
IPPOLITA: Mi pare ch'ella non dovrebbe sprecare un lungo lamento per un tal Piramo: spero che sia concisa.
DEMETRIO: Un bruscolo basterebbe a far pencolare la bilancia del merito dalla parte di Piramo, dalla parte di Tisbe: lui, come uomo, Dio ci guardi; lei, come donna, Dio ci liberi.
LISANDRO: Tisbe, col suo tenero sguardo, ha già visto l'amico.
DEMETRIO: Ed ora esporrà la sua doglienza, cioè...
TISBE: "Tu dormi ancor?
Morto? no, amor!
Sorgi, parla, son io!
Sì muto? Oh, lasso!
Moristi? Un sasso dee coprir l'occhio pio.
Labbro di giglio, naso vermiglio, guance fiorite d'oro, più non son, più.
Si gema orsù!
Gli occhi qual porri foro.
Sorelle tre, venite a me; nel mio sangue intridete le man di latte, poi che disfatte seriche trame avete.
Non più querele!
Spada fedele, arrossa il petto mio.
(Si trafigge)
Amici, si, Tisbi finì:
addio, addio; addio".
(Muore)
(Rientrano il LUME-DI-LUNA e il LEONE)
TESEO: Il Lume-di-Luna e il Leone restano in vita per seppellire i morti.
(Rientra il MURO)
DEMETRIO: Sì, ed anche il Muro.
LEONE: V'assicuro di no; crollato è il muro che separava i padri degli amanti. Ora vi garberebbe di più "vedere" l'epilogo, o udire una bergamasca danzata da due attori della compagnia?
TESEO: Omettiamo l'epilogo, di grazia; il vostro dramma non vuole scuse. Le scuse son fuor di luogo; perché quando gli attori son morti tutti, non v'è più da censurarne alcuno. Di certo, se colui che ha scritto queste scene avesse fatto la parte di Piramo, appiccandosi colla legaccia dl Tisbe, avremmo assistito a una bella tragedia e davvero lo spettacolo è stato ottimo; e rappresentato egregiamente. Ma vediamo la vostra bergamasca: e lasciamo andare l'epilogo.
(Danza)
Ferrea lingua rintocca mezzanotte:
a letto, amanti; è tempo ormai da fate.
Temo che dormiremo domattina per quanto qui stanotte abbiam vegliato.
Dissimular poté la rozza scena dell'ore il tardo incesso. A letto, amici.
Per sette e sette dì dee durar questa solennità con veglie e varia festa.
(Escono)
(Entra il FOLLETTO)
FOLLETTO: Il leon rugge bramoso, va de' lupi urlando il branco; dopo un giorno faticoso, il villano russa stanco.
Il tizzone ormai rosseggia, e, se mai chi giace in duolo strider oda coccoveggia, pensa al funebre lenzuolo.
A quest'ora, aperte e sgombre son per tutti i cimiteri fosse e tombe, e vagan l'ombre del sagrato pei sentieri.
E noi spirti che, bramando come un sogno il buio, e 'l cocchio della trivia dea scortando evitiam di Febo l'occhio, esultiamo: il topolino non s'attenti qui vicino alla casa consacrata, ove porto la granata mia, venendovi a mondare dalla polve il limitare.
(Entrano OBERONE e TITANIA col loro Seguito)
OBERONE: Fate lume per le stanze ove spengonsi i camini; elfi e fate, in lievi danze, salterelli da uccellini, volteggiate; e meco intanto modulate questo canto.
TITANIA: Ripassate la carola, s'abbia un trillo ogni parola.
Per le mani, ecco, allacciate, con la grazia delle fate, su cantiamo, e questo tetto da noi venga benedetto.
(Canto e danza)
OBERONE: Finché spunti il nuovo giorno, pel palazzo andremo attorno.
Prima il talamo ducale affrancar vorrem dal male, e far sì che prole eletta ivi nasca a' Dèi diletta.
Le tre coppie s'amin sempre con amor d'uguali tempre.
Non infligga mai Natura alla lor progenitura labbro fesso, cicatrice, turpe segno che infelice render possa uman destino della vita in sul mattino.
Movan gli elfi, che sacrata guazza recan dalle prata, e, di sala in sala, pace benedicano verace; ché il signor della dimora star securo deve ognora.
Presto andate; non sostate; sull'albore a me tornate.
(Escono Oberone, Titania e il loro Seguito)
FOLLETTO: Se quest'ombre v'han noiato, dite (e tutto è rimediato) che, in un sonno pien di larve, tal visione qui v'apparve.
E del tema ozioso e frale, che non più d'un sogno vale, niun, signori, ci riprenda.
Noi farem, scusati, ammenda:
se scampiamo indegnamente dalla lingua del serpente, giuro, da folletto onesto, che faremo ammenda presto; o a me dite villania.
Buona notte, compagnia.
M'applaudite, e merto poi renderà Bertino a voi.
(Esce)
http://www.readme.it/libri/3/3055040.shtml