Il problema dei 3 corpi: Attraverso continenti e decadi, cinque amici geniali fanno scoperte sconvolgenti mentre le leggi della scienza si sgretolano ed emerge una minaccia esistenziale. Vieni a parlarne su TopManga.
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GIACOMO LEOPARDI- ANTOLOGIA

Ultimo Aggiornamento: 26/08/2007 12:21
27/07/2007 23:52
 
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XXXII

PALINODIA AL MARCHESE GINO CAPPONI




Il sempre sospirar nulla rileva.

PETRARCA

Errai, candido Gino; assai gran tempo,

E di gran lunga errai. Misera e vana

Stimai la vita, e sovra l'altre insulsa

La stagion ch'or si volge. Intolleranda

Parve, e fu, la mia lingua alla beata

Prole mortal, se dir si dee mortale

L'uomo, o si può. Fra maraviglia e sdegno,

Dall'Eden odorato in cui soggiorna,

Rise l'alta progenie, e me negletto

Disse, o mal venturoso, e di piaceri

O incapace o inesperto, il proprio fato

Creder comune, e del mio mal consorte

L'umana specie. Alfin per entro il fumo

De' sigari onorato, al romorio

De' crepitanti pasticcini, al grido

Militar, di gelati e di bevande

Ordinator, fra le percosse tazze

E i branditi cucchiai, viva rifulse

Agli occhi miei la giornaliera luce

Delle gazzette. Riconobbi e vidi

La pubblica letizia, e le dolcezze

Del destino mortal. Vidi l'eccelso

Stato e il valor delle terrene cose,

E tutto fiori il corso umano, e vidi

Come nulla quaggiù dispiace e dura.

Né men conobbi ancor gli studi e l'opre

Stupende, e il senno, e le virtudi, e l'alto

Saver del secol mio. Né vidi meno

Da Marrocco al Catai, dall'Orse al Nilo,

E da Boston a Goa, correr dell'alma

Felicità su l'orme a gara ansando

Regni, imperi e ducati; e già tenerla

O per le chiome fluttuanti, o certo

Per l'estremo del boa. Così vedendo,

E meditando sovra i larghi fogli

Profondamente, del mio grave, antico

Errore, e di me stesso, ebbi vergogna.

Auro secolo omai volgono, o Gino,

I fusi delle Parche. Ogni giornale,

Gener vario di lingue e di colonne,

Da tutti i lidi lo promette al mondo

Concordemente. Universale amore,

Ferrate vie, moltiplici commerci,

Vapor, tipi e choléra i più divisi

Popoli e climi stringeranno insieme:

Né maraviglia fia se pino o quercia

Suderà latte e mele, o s'anco al suono

D'un walser danzerà. Tanto la possa

Infin qui de' lambicchi e delle storte,

E le macchine al cielo emulatrici

Crebbero, e tanto cresceranno al tempo

Che seguirà; poiché di meglio in meglio

Senza fin vola e volerà mai sempre

Di Sem, di Cam e di Giapeto il seme.

Ghiande non ciberà certo la terra

Però, se fame non la sforza: il duro

Ferro non deporrà. Ben molte volte

Argento ed or disprezzerà, contenta

A polizze di cambio. E già dal caro

Sangue de' suoi non asterrà la mano

La generosa stirpe: anzi coverte

Fien di stragi l'Europa e l'altra riva

Dell'atlantico mar, fresca nutrice

Di pura civiltà, sempre che spinga

Contrarie in campo le fraterne schiere

Di pepe o di cannella o d'altro aroma

Fatal cagione, o di melate canne,

O cagion qual si sia ch'ad auro torni.

Valor vero e virtù, modestia e fede

E di giustizia amor, sempre in qualunque

Pubblico stato, alieni in tutto e lungi

Da' comuni negozi, ovvero in tutto

Sfortunati saranno, afflitti e vinti;

Perché diè lor natura, in ogni tempo

Starsene in fondo. Ardir protervo e frode,

Con mediocrità, regneran sempre,

A galleggiar sortiti. Imperio e forze,

Quanto più vogli o cumulate o sparse,

Abuserà chiunque avralle, e sotto

Qualunque nome. Questa legge in pria

Scrisser natura e il fato in adamante;

E co' fulmini suoi Volta né Davy

Lei non cancellerà, non Anglia tutta

Con le macchine sue, né con un Gange

Di politici scritti il secol novo.

Sempre il buono in tristezza, il vile in festa

Sempre e il ribaldo: incontro all'alme eccelse

In arme tutti congiurati i mondi

Fieno in perpetuo: al vero onor seguaci

Calunnia, odio e livor: cibo de' forti

Il debole, cultor de' ricchi e servo

Il digiuno mendico, in ogni forma

Di comun reggimento, o presso o lungi

Sien l'eclittica o i poli, eternamente

Sarà, se al gener nostro il proprio albergo

E la face del dì non vengon meno.

Queste lievi reliquie e questi segni

Delle passate età, forza è che impressi

Porti quella che sorge età dell'oro:

Perché mille discordi e repugnanti

L'umana compagnia principii e parti

Ha per natura; e por quegli odii in pace

Non valser gl'intelletti e le possanze

Degli uomini giammai, dal dì che nacque

L'inclita schiatta, e non varrà, quantunque

Saggio sia né possente, al secol nostro

Patto alcuno o giornal. Ma nelle cose

Più gravi, intera, e non veduta innanzi,

Fia la mortal felicità. Più molli

Di giorno in giorno diverran le vesti

O di lana o di seta. I rozzi panni

Lasciando a prova agricoltori e fabbri,

Chiuderanno in coton la scabra pelle,

E di castoro copriran le schiene.

Meglio fatti al bisogno, o più leggiadri

Certamente a veder, tappeti e coltri,

Seggiole, canapè, sgabelli e mense,

Letti, ed ogni altro arnese, adorneranno

Di lor menstrua beltà gli appartamenti;

E nove forme di paiuoli, e nove

Pentole ammirerà l'arsa cucina.

Da Parigi a Calais, di quivi a Londra,

Da Londra a Liverpool, rapido tanto

Sarà, quant'altri immaginar non osa,

Il cammino, anzi il volo: e sotto l'ampie

Vie del Tamigi fia dischiuso il varco,

Opra ardita, immortal, ch'esser dischiuso

Dovea, già son molt'anni. Illuminate

Meglio ch'or son, benché sicure al pari,

Nottetempo saran le vie men trite

Delle città sovrane, e talor forse

Di suddita città le vie maggiori.

Tali dolcezze e sì beata sorte

Alla prole vegnente il ciel destina.

Fortunati color che mentre io scrivo

Miagolanti in su le braccia accoglie

La levatrice! a cui veder s'aspetta

Quei sospirati dì, quando per lunghi

Studi fia noto, e imprenderà col latte

Dalla cara nutrice ogni fanciullo,

Quanto peso di sal, quanto di carni,

E quante moggia di farina inghiotta

Il patrio borgo in ciascun mese; e quanti

In ciascun anno partoriti e morti

Scriva il vecchio prior: quando, per opra

Di possente vapore, a milioni

Impresse in un secondo, il piano e il poggio,

E credo anco del mar gl'immensi tratti,

Come d'aeree gru stuol che repente

Alle late campagne il giorno involi,

Copriran le gazzette, anima e vita

Dell'universo, e di savere a questa

Ed alle età venture unica fonte!

Quale un fanciullo, con assidua cura,

Di fogliolini e di fuscelli, in forma

O di tempio o di torre o di palazzo,

Un edificio innalza; e come prima

Fornito il mira, ad atterrarlo è volto,

Perché gli stessi a lui fuscelli e fogli

Per novo lavorio son di mestieri;

Così natura ogni opra sua, quantunque

D'alto artificio a contemplar, non prima

Vede perfetta, ch'a disfarla imprende,

Le parti sciolte dispensando altrove.

E indarno a preservar se stesso ed altro

Dal gioco reo, la cui ragion gli è chiusa

Eternamente, il mortal seme accorre

Mille virtudi oprando in mille guise

Con dotta man: che, d'ogni sforzo in onta,

La natura crudel, fanciullo invitto,

Il suo capriccio adempie, e senza posa

Distruggendo e formando si trastulla.

Indi varia, infinita una famiglia

Di mali immedicabili e di pene

Preme il fragil mortale, a perir fatto

Irreparabilmente: indi una forza

Ostil, distruggitrice, e dentro il fere

E di fuor da ogni lato, assidua, intenta

Dal dì che nasce; e l'affatica e stanca,

Essa indefatigata; insin ch'ei giace

Alfin dall'empia madre oppresso e spento.

Queste, o spirto gentil, miserie estreme

Dello stato mortal; vecchiezza e morte,

Ch'han principio d'allor che il labbro infante

Preme il tenero sen che vita instilla;

Emendar, mi cred'io, non può la lieta

Nonadecima età più che potesse

La decima o la nona, e non potranno

Più di questa giammai l'età future.

Però, se nominar lice talvolta

Con proprio nome il ver, non altro in somma

Fuor che infelice, in qualsivoglia tempo,

E non pur ne' civili ordini e modi,

Ma della vita in tutte l'altre parti,

Per essenza insanabile, e per legge

Universal, che terra e cielo abbraccia,

Ogni nato sarà. Ma novo e quasi

Divin consiglio ritrovàr gli eccelsi

Spirti del secol mio: che, non potendo

Felice in terra far persona alcuna,

L'uomo obbliando, a ricercar si diero

Una comun felicitade; e quella

Trovata agevolmente, essi di molti

Tristi e miseri tutti, un popol fanno

Lieto e felice: e tal portento, ancora

Da pamphlets, da riviste e da gazzette

Non dichiarato, il civil gregge ammira.

Oh menti, oh senno, oh sovrumano acume

Dell'età ch'or si volge! E che sicuro

Filosofar, che sapienza, o Gino,

In più sublimi ancora e più riposti

Subbietti insegna ai secoli futuri

Il mio secolo e tuo! Con che costanza

Quel che ieri schernì, prosteso adora

Oggi, e domani abbatterà, per girne

Raccozzando i rottami, e per riporlo

Tra il fumo degl'incensi il dì vegnente!

Quanto estimar si dee, che fede inspira

Del secol che si volge, anzi dell'anno,

Il concorde sentir! con quanta cura

Convienci a quel dell'anno, al qual difforme

Fia quel dell'altro appresso, il sentir nostro

Comparando, fuggir che mai d'un punto

Non sien diversi! E di che tratto innanzi,

Se al moderno si opponga il tempo antico,

Filosofando il saper nostro è scorso!

Un già de' tuoi, lodato Gino; un franco

Di poetar maestro, anzi di tutte

Scienze ed arti e facoltadi umane,

E menti che fur mai, sono e saranno,

Dottore, emendator, lascia, mi disse,

I propri affetti tuoi. Di lor non cura

Questa virile età, volta ai severi

Economici studi, e intenta il ciglio

Nelle pubbliche cose. Il proprio petto

Esplorar che ti val? Materia al canto

Non cercar dentro te. Canta i bisogni

Del secol nostro, e la matura speme.

Memorande sentenze! ond'io solenni

Le risa alzai quando sonava il nome

Della speranza al mio profano orecchio

Quasi comica voce, o come un suono

Di lingua che dal latte si scompagni.

Or torno addietro, ed al passato un corso

Contrario imprendo, per non dubbi esempi

Chiaro oggimai ch'al secol proprio vuolsi,

Non contraddir, non repugnar, se lode

Cerchi e fama appo lui, ma fedelmente

Adulando ubbidir: così per breve

Ed agiato cammin vassi alle stelle.

Ond'io, degli astri desioso, al canto

Del secolo i bisogni omai non penso

Materia far; che a quelli, ognor crescendo,

Provveggono i mercati e le officine

Già largamente; ma la speme io certo

Dirò, la speme, onde visibil pegno

Già concedon gli Dei; già, della nova

Felicità principio, ostenta il labbro

De' giovani, e la guancia, enorme il pelo.

O salve, o segno salutare, o prima

Luce della famosa età che sorge.

Mira dinanzi a te come s'allegra

La terra e il ciel, come sfavilla il guardo

Delle donzelle, e per conviti e feste

Qual de' barbati eroi fama già vola.

Cresci, cresci alla patria, o maschia certo

Moderna prole. All'ombra de' tuoi velli

Italia crescerà, crescerà tutta

Dalle foci del Tago all'Ellesponto

Europa, e il mondo poserà sicuro.

E tu comincia a salutar col riso

Gl'ispidi genitori, o prole infante,

Eletta agli aurei dì: né ti spauri

L'innocuo nereggiar de' cari aspetti.

Ridi, o tenera prole: a te serbato

È di cotanto favellare il frutto;

Veder gioia regnar, cittadi e ville,

Vecchiezza e gioventù del par contente,

E le barbe ondeggiar lunghe due spanne.

XXXIII

IL TRAMONTO DELLA LUNA

Quale in notte solinga,

Sovra campagne inargentate ed acque,

Là 've zefiro aleggia,

E mille vaghi aspetti

E ingannevoli obbietti

Fingon l'ombre lontane

Infra l'onde tranquille

E rami e siepi e collinette e ville;

Giunta al confin del cielo,

Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno

Nell'infinito seno

Scende la luna; e si scolora il mondo;

Spariscon l'ombre, ed una

Oscurità la valle e il monte imbruna;

Orba la notte resta,

E cantando, con mesta melodia,

L'estremo albor della fuggente luce,

Che dianzi gli fu duce,

Saluta il carrettier dalla sua via;

Tal si dilegua, e tale

Lascia l'età mortale

La giovinezza. In fuga

Van l'ombre e le sembianze

Dei dilettosi inganni; e vengon meno

Le lontane speranze,

Ove s'appoggia la mortal natura.

Abbandonata, oscura

Resta la vita. In lei porgendo il guardo,

Cerca il confuso viatore invano

Del cammin lungo che avanzar si sente

Meta o ragione; e vede

Che a sé l'umana sede,

Esso a lei veramente è fatto estrano.

Troppo felice e lieta

Nostra misera sorte

Parve lassù, se il giovanile stato,

Dove ogni ben di mille pene è frutto,

Durasse tutto della vita il corso.

Troppo mite decreto

Quel che sentenzia ogni animale a morte,

S'anco mezza la via

Lor non si desse in pria

Della terribil morte assai più dura.

D'intelletti immortali

Degno trovato, estremo

Di tutti i mali, ritrovàr gli eterni

La vecchiezza, ove fosse

Incolume il desio, la speme estinta,

Secche le fonti del piacer, le pene

Maggiori sempre, e non più dato il bene.

Voi, collinette e piagge,

Caduto lo splendor che all'occidente

Inargentava della notte il velo,

Orfane ancor gran tempo

Non resterete; che dall'altra parte

Tosto vedrete il cielo

Imbiancar novamente, e sorger l'alba:

Alla qual poscia seguitando il sole,

E folgorando intorno

Con sue fiamme possenti,

Di lucidi torrenti

Inonderà con voi gli eterei campi.

Ma la vita mortal, poi che la bella

Giovinezza sparì, non si colora

D'altra luce giammai, né d'altra aurora.

Vedova è insino al fine; ed alla notte

Che l'altre etadi oscura,

Segno poser gli Dei la sepoltura.


27/07/2007 23:53
 
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XXXIII

IL TRAMONTO DELLA LUNA




Quale in notte solinga,

Sovra campagne inargentate ed acque,

Là 've zefiro aleggia,

E mille vaghi aspetti

E ingannevoli obbietti

Fingon l'ombre lontane

Infra l'onde tranquille

E rami e siepi e collinette e ville;

Giunta al confin del cielo,

Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno

Nell'infinito seno

Scende la luna; e si scolora il mondo;

Spariscon l'ombre, ed una

Oscurità la valle e il monte imbruna;

Orba la notte resta,

E cantando, con mesta melodia,

L'estremo albor della fuggente luce,

Che dianzi gli fu duce,

Saluta il carrettier dalla sua via;

Tal si dilegua, e tale

Lascia l'età mortale

La giovinezza. In fuga

Van l'ombre e le sembianze

Dei dilettosi inganni; e vengon meno

Le lontane speranze,

Ove s'appoggia la mortal natura.

Abbandonata, oscura

Resta la vita. In lei porgendo il guardo,

Cerca il confuso viatore invano

Del cammin lungo che avanzar si sente

Meta o ragione; e vede

Che a sé l'umana sede,

Esso a lei veramente è fatto estrano.

Troppo felice e lieta

Nostra misera sorte

Parve lassù, se il giovanile stato,

Dove ogni ben di mille pene è frutto,

Durasse tutto della vita il corso.

Troppo mite decreto

Quel che sentenzia ogni animale a morte,

S'anco mezza la via

Lor non si desse in pria

Della terribil morte assai più dura.

D'intelletti immortali

Degno trovato, estremo

Di tutti i mali, ritrovàr gli eterni

La vecchiezza, ove fosse

Incolume il desio, la speme estinta,

Secche le fonti del piacer, le pene

Maggiori sempre, e non più dato il bene.

Voi, collinette e piagge,

Caduto lo splendor che all'occidente

Inargentava della notte il velo,

Orfane ancor gran tempo

Non resterete; che dall'altra parte

Tosto vedrete il cielo

Imbiancar novamente, e sorger l'alba:

Alla qual poscia seguitando il sole,

E folgorando intorno

Con sue fiamme possenti,

Di lucidi torrenti

Inonderà con voi gli eterei campi.

Ma la vita mortal, poi che la bella

Giovinezza sparì, non si colora

D'altra luce giammai, né d'altra aurora.

Vedova è insino al fine; ed alla notte

Che l'altre etadi oscura,

Segno poser gli Dei la sepoltura.












27/07/2007 23:56
 
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XXXIV

LA GINESTRA

O IL FIORE DEL DESERTO


E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.

Giovanni, III, 19

Qui su l'arida schiena

Del formidabil monte

Sterminator Vesevo,

La qual null'altro allegra arbor né fiore,

Tuoi cespi solitari intorno spargi,

Odorata ginestra,

Contenta dei deserti. Anco ti vidi

De' tuoi steli abbellir l'erme contrade

Che cingon la cittade

La qual fu donna de' mortali un tempo,

E del perduto impero

Par che col grave e taciturno aspetto

Faccian fede e ricordo al passeggero.

Or ti riveggo in questo suol, di tristi

Lochi e dal mondo abbandonati amante,

E d'afflitte fortune ognor compagna.

Questi campi cosparsi

Di ceneri infeconde, e ricoperti

Dell'impietrata lava,

Che sotto i passi al peregrin risona;

Dove s'annida e si contorce al sole

La serpe, e dove al noto

Cavernoso covil torna il coniglio;

Fur liete ville e colti,

E biondeggiàr di spiche, e risonaro

Di muggito d'armenti;

Fur giardini e palagi,

Agli ozi de' potenti

Gradito ospizio; e fur città famose

Che coi torrenti suoi l'altero monte

Dall'ignea bocca fulminando oppresse

Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno

Una ruina involve,

Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi

I danni altrui commiserando, al cielo

Di dolcissimo odor mandi un profumo,

Che il deserto consola. A queste piagge

Venga colui che d'esaltar con lode

Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto

È il gener nostro in cura

All'amante natura. E la possanza

Qui con giusta misura

Anco estimar potrà dell'uman seme,

Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,

Con lieve moto in un momento annulla

In parte, e può con moti

Poco men lievi ancor subitamente

Annichilare in tutto.

Dipinte in queste rive

Son dell'umana gente

Le magnifiche sorti e progressive .

Qui mira e qui ti specchia,

Secol superbo e sciocco,

Che il calle insino allora

Dal risorto pensier segnato innanti

Abbandonasti, e volti addietro i passi,

Del ritornar ti vanti,

E procedere il chiami.

Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,

Di cui lor sorte rea padre ti fece,

Vanno adulando, ancora

Ch'a ludibrio talora

T'abbian fra sé. Non io

Con tal vergogna scenderò sotterra;

Ma il disprezzo piuttosto che si serra

Di te nel petto mio,

Mostrato avrò quanto si possa aperto:

Ben ch'io sappia che obblio

Preme chi troppo all'età propria increbbe.

Di questo mal, che teco

Mi fia comune, assai finor mi rido.

Libertà vai sognando, e servo a un tempo

Vuoi di novo il pensiero,

Sol per cui risorgemmo

Della barbarie in parte, e per cui solo

Si cresce in civiltà, che sola in meglio

Guida i pubblici fati.

Così ti spiacque il vero

Dell'aspra sorte e del depresso loco

Che natura ci diè. Per questo il tergo

Vigliaccamente rivolgesti al lume

Che il fe' palese: e, fuggitivo, appelli

Vil chi lui segue, e solo

Magnanimo colui

Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,

Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

Uom di povero stato e membra inferme

Che sia dell'alma generoso ed alto,

Non chiama sé né stima

Ricco d'or né gagliardo,

E di splendida vita o di valente

Persona infra la gente

Non fa risibil mostra;

Ma sé di forza e di tesor mendico

Lascia parer senza vergogna, e noma

Parlando, apertamente, e di sue cose

Fa stima al vero uguale.

Magnanimo animale

Non credo io già, ma stolto,

Quel che nato a perir, nutrito in pene,

Dice, a goder son fatto,

E di fetido orgoglio

Empie le carte, eccelsi fati e nove

Felicità, quali il ciel tutto ignora,

Non pur quest'orbe, promettendo in terra

A popoli che un'onda

Di mar commosso, un fiato

D'aura maligna, un sotterraneo crollo

Distrugge sì, che avanza

A gran pena di lor la rimembranza.

Nobil natura è quella

Che a sollevar s'ardisce

Gli occhi mortali incontra

Al comun fato, e che con franca lingua,

Nulla al ver detraendo,

Confessa il mal che ci fu dato in sorte,

E il basso stato e frale;

Quella che grande e forte

Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire

Fraterne, ancor più gravi

D'ogni altro danno, accresce

Alle miserie sue, l'uomo incolpando

Del suo dolor, ma dà la colpa a quella

Che veramente è rea, che de' mortali

Madre è di parto e di voler matrigna.

Costei chiama inimica; e incontro a questa

Congiunta esser pensando,

Siccome è il vero, ed ordinata in pria

L'umana compagnia,

Tutti fra sé confederati estima

Gli uomini, e tutti abbraccia

Con vero amor, porgendo

Valida e pronta ed aspettando aita

Negli alterni perigli e nelle angosce

Della guerra comune. Ed alle offese

Dell'uomo armar la destra, e laccio porre

Al vicino ed inciampo,

Stolto crede così qual fora in campo

Cinto d'oste contraria, in sul più vivo

Incalzar degli assalti,

Gl'inimici obbliando, acerbe gare

Imprender con gli amici,

E sparger fuga e fulminar col brando

Infra i propri guerrieri.

Così fatti pensieri

Quando fien, come fur, palesi al volgo,

E quell'orror che primo

Contra l'empia natura

Strinse i mortali in social catena,

Fia ricondotto in parte

Da verace saper, l'onesto e il retto

Conversar cittadino,

E giustizia e pietade, altra radice

Avranno allor che non superbe fole,

Ove fondata probità del volgo

Così star suole in piede

Quale star può quel ch'ha in error la sede.

Sovente in queste rive,

Che, desolate, a bruno

Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,

Seggo la notte; e su la mesta landa

In purissimo azzurro

Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,

Cui di lontan fa specchio

Il mare, e tutto di scintille in giro

Per lo vòto seren brillare il mondo.

E poi che gli occhi a quelle luci appunto,

Ch'a lor sembrano un punto,

E sono immense, in guisa

Che un punto a petto a lor son terra e mare

Veracemente; a cui

L'uomo non pur, ma questo

Globo ove l'uomo è nulla,

Sconosciuto è del tutto; e quando miro

Quegli ancor più senz'alcun fin remoti

Nodi quasi di stelle,

Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo

E non la terra sol, ma tutte in uno,

Del numero infinite e della mole,

Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle

O sono ignote, o così paion come

Essi alla terra, un punto

Di luce nebulosa; al pensier mio

Che sembri allora, o prole

Dell'uomo? E rimembrando

Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno

Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,

Che te signora e fine

Credi tu data al Tutto, e quante volte

Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro

Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,

Per tua cagion, dell'universe cose

Scender gli autori, e conversar sovente

Co' tuoi piacevolmente, e che i derisi

Sogni rinnovellando, ai saggi insulta

Fin la presente età, che in conoscenza

Ed in civil costume

Sembra tutte avanzar; qual moto allora,

Mortal prole infelice, o qual pensiero

Verso te finalmente il cor m'assale?

Non so se il riso o la pietà prevale.

Come d'arbor cadendo un picciol pomo,

Cui là nel tardo autunno

Maturità senz'altra forza atterra,

D'un popol di formiche i dolci alberghi,

Cavati in molle gleba

Con gran lavoro, e l'opre

E le ricchezze che adunate a prova

Con lungo affaticar l'assidua gente

Avea provvidamente al tempo estivo,

Schiaccia, diserta e copre

In un punto; così d'alto piombando,

Dall'utero tonante

Scagliata al ciel profondo,

Di ceneri e di pomici e di sassi

Notte e ruina, infusa

Di bollenti ruscelli

O pel montano fianco

Furiosa tra l'erba

Di liquefatti massi

E di metalli e d'infocata arena

Scendendo immensa piena,

Le cittadi che il mar là su l'estremo

Lido aspergea, confuse

E infranse e ricoperse

In pochi istanti: onde su quelle or pasce

La capra, e città nove

Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello

Son le sepolte, e le prostrate mura

L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.

Non ha natura al seme

Dell'uom più stima o cura

Che alla formica: e se più rara in quello

Che nell'altra è la strage,

Non avvien ciò d'altronde

Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.

Ben mille ed ottocento

Anni varcàr poi che spariro, oppressi

Dall'ignea forza, i popolati seggi,

E il villanello intento

Ai vigneti, che a stento in questi campi

Nutre la morta zolla e incenerita,

Ancor leva lo sguardo

Sospettoso alla vetta

Fatal, che nulla mai fatta più mite

Ancor siede tremenda, ancor minaccia

A lui strage ed ai figli ed agli averi

Lor poverelli. E spesso

Il meschino in sul tetto

Dell'ostel villereccio, alla vagante

Aura giacendo tutta notte insonne,

E balzando più volte, esplora il corso

Del temuto bollor, che si riversa

Dall'inesausto grembo

Su l'arenoso dorso, a cui riluce

Di Capri la marina

E di Napoli il porto e Mergellina.

E se appressar lo vede, o se nel cupo

Del domestico pozzo ode mai l'acqua

Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,

Desta la moglie in fretta, e via, con quanto

Di lor cose rapir posson, fuggendo,

Vede lontan l'usato

Suo nido, e il picciol campo,

Che gli fu dalla fame unico schermo,

Preda al flutto rovente,

Che crepitando giunge, e inesorato

Durabilmente sovra quei si spiega.

Torna al celeste raggio

Dopo l'antica obblivion l'estinta

Pompei, come sepolto

Scheletro, cui di terra

Avarizia o pietà rende all'aperto;

E dal deserto foro

Diritto infra le file

Dei mozzi colonnati il peregrino

Lunge contempla il bipartito giogo

E la cresta fumante,

Che alla sparsa ruina ancor minaccia.

E nell'orror della secreta notte

Per li vacui teatri,

Per li templi deformi e per le rotte

Case, ove i parti il pipistrello asconde,

Come sinistra face

Che per vòti palagi atra s'aggiri,

Corre il baglior della funerea lava,

Che di lontan per l'ombre

Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.

Così, dell'uomo ignara e dell'etadi

Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno

Dopo gli avi i nepoti,

Sta natura ognor verde, anzi procede

Per sì lungo cammino

Che sembra star. Caggiono i regni intanto,

Passan genti e linguaggi: ella nol vede:

E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.

E tu, lenta ginestra,

Che di selve odorate

Queste campagne dispogliate adorni,

Anche tu presto alla crudel possanza

Soccomberai del sotterraneo foco,

Che ritornando al loco

Già noto, stenderà l'avaro lembo

Su tue molli foreste. E piegherai

Sotto il fascio mortal non renitente

Il tuo capo innocente:

Ma non piegato insino allora indarno

Codardamente supplicando innanzi

Al futuro oppressor; ma non eretto

Con forsennato orgoglio inver le stelle,

Né sul deserto, dove

E la sede e i natali

Non per voler ma per fortuna avesti;

Ma più saggia, ma tanto

Meno inferma dell'uom, quanto le frali

Tue stirpi non credesti

O dal fato o da te fatte immortali.


28/07/2007 00:06
 
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XXXV

IMITAZIONE




Lungi dal proprio ramo,

Povera foglia frale,

Dove vai tu? - Dal faggio

Là dov'io nacqui, mi divise il vento.

Esso, tornando, a volo

Dal bosco alla campagna,

Dalla valle mi porta alla montagna.

Seco perpetuamente

Vo pellegrina, e tutto l'altro ignoro.

Vo dove ogni altra cosa,

Dove naturalmente

Va la foglia di rosa,

E la foglia d'alloro.


28/07/2007 00:08
 
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XXXVI

SCHERZO




Quando fanciullo io venni

A pormi con le Muse in disciplina,

L'una di quelle mi pigliò per mano;

E poi tutto quel giorno

La mi condusse intorno

A veder l'officina.

Mostrommi a parte a parte

Gli strumenti dell'arte,

E i servigi diversi

A che ciascun di loro

S'adopra nel lavoro

Delle prose e de' versi.

Io mirava, e chiedea:

Musa, la lima ov'è? Disse la Dea:

La lima è consumata; or facciam senza.

Ed io, ma di rifarla

Non vi cal, soggiungea, quand'ella è stanca?

Rispose: hassi a rifar, ma il tempo manca.


28/07/2007 00:11
 
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XXXVII

FRAMMENTO

ALCETA




Odi, Melisso: io vo' contarti un sogno

Di questa notte, che mi torna a mente

In riveder la luna. Io me ne stava

Alla finestra che risponde al prato,

Guardando in alto: ed ecco all'improvviso

Distaccasi la luna; e mi parea

Che quanto nel cader s'approssimava,

Tanto crescesse al guardo; infin che venne

A dar di colpo in mezzo al prato; ed era

Grande quanto una secchia, e di scintille

Vomitava una nebbia, che stridea

Sì forte come quando un carbon vivo

Nell'acqua immergi e spegni. Anzi a quel modo

La luna, come ho detto, in mezzo al prato

Si spegneva annerando a poco a poco,

E ne fumavan l'erbe intorno intorno.

Allor mirando in ciel, vidi rimaso

Come un barlume, o un'orma, anzi una nicchia,

Ond'ella fosse svelta; in cotal guisa,

Ch'io n'agghiacciava; e ancor non m'assicuro.

MELISSO

E ben hai che temer, che agevol cosa

Fora cader la luna in sul tuo campo.

ALCETA

Chi sa? non veggiam noi spesso di state

Cader le stelle?

MELISSO

Egli ci ha tante stelle,

Che picciol danno è cader l'una o l'altra

Di loro, e mille rimaner. Ma sola

Ha questa luna in ciel, che da nessuno

Cader fu vista mai se non in sogno.

XXXVIII

FRAMMENTO

Io qui vagando al limitare intorno,

Invan la pioggia invoco e la tempesta,

Acciò che la ritenga al mio soggiorno.

Pure il vento muggìa nella foresta,

E muggìa tra le nubi il tuono errante,

Pria che l'aurora in ciel fosse ridesta.

O care nubi, o cielo, o terra, o piante,

Parte la donna mia: pietà, se trova

Pietà nel mondo un infelice amante.

O turbine, or ti sveglia, or fate prova

Di sommergermi, o nembi, insino a tanto

Che il sole ad altre terre il dì rinnova.

S'apre il ciel, cade il soffio, in ogni canto

Posan l'erbe e le frondi, e m'abbarbaglia

Le luci il crudo Sol pregne di pianto.

XXXIX

FRAMMENTO

Spento il diurno raggio in occidente,

E queto il fumo delle ville, e queta

De' cani era la voce e della gente;

Quand'ella, volta all'amorosa meta,

Si ritrovò nel mezzo ad una landa

Quanto foss'altra mai vezzosa e lieta.

Spandeva il suo chiaror per ogni banda

La sorella del sole, e fea d'argento

Gli arbori ch'a quel loco eran ghirlanda.

I ramoscelli ivan cantando al vento,

E in un con l'usignol che sempre piagne

Fra i tronchi un rivo fea dolce lamento.

Limpido il mar da lungi, e le campagne

E le foreste, e tutte ad una ad una

Le cime si scoprian delle montagne.

In queta ombra giacea la valle bruna,

E i collicelli intorno rivestia

Del suo candor la rugiadosa luna.

Sola tenea la taciturna via

La donna, e il vento che gli odori spande,

Molle passar sul volto si sentia.

Se lieta fosse, è van che tu dimande:

Piacer prendea di quella vista, e il bene

Che il cor le prometteva era più grande.

Come fuggiste, o belle ore serene!

Dilettevol quaggiù null'altro dura,

Né si ferma giammai, se non la spene.

Ecco turbar la notte, e farsi oscura

La sembianza del ciel, ch'era sì bella,

E il piacere in colei farsi paura.

Un nugol torbo, padre di procella,

Sorgea di dietro ai monti, e crescea tanto,

Che più non si scopria luna né stella.

Spiegarsi ella il vedea per ogni canto,

E salir su per l'aria a poco a poco,

E far sovra il suo capo a quella ammanto.

Veniva il poco lume ognor più fioco;

E intanto al bosco si destava il vento,

Al bosco là del dilettoso loco.

E si fea più gagliardo ogni momento,

Tal che a forza era desto e svolazzava

Tra le frondi ogni augel per lo spavento.

E la nube, crescendo, in giù calava

Ver la marina sì, che l'un suo lembo

Toccava i monti, e l'altro il mar toccava.

Già tutto a cieca oscuritade in grembo,

S'incominciava udir fremer la pioggia,

E il suon cresceva all'appressar del nembo.

Dentro le nubi in paurosa foggia

Guizzavan lampi, e la fean batter gli occhi;

E n'era il terren tristo, e l'aria roggia.

Discior sentia la misera i ginocchi;

E già muggiva il tuon simile al metro

Di torrente che d'alto in giù trabocchi.

Talvolta ella ristava, e l'aer tetro

Guardava sbigottita, e poi correa,

Sì che i panni e le chiome ivano addietro.

E il duro vento col petto rompea,

Che gocce fredde giù per l'aria nera

In sul volto soffiando le spingea.

E il tuon veniale incontro come fera,

Rugghiando orribilmente e senza posa;

E cresceva la pioggia e la bufera.

E d'ogn'intorno era terribil cosa

Il volar polve e frondi e rami e sassi,

E il suon che immaginar l'alma non osa.

Ella dal lampo affaticati e lassi

Coprendo gli occhi, e stretti i panni al seno,

Già pur tra il nembo accelerando i passi.

Ma nella vista ancor l'era il baleno

Ardendo sì, ch'alfin dallo spavento

Fermò l'andare, e il cor le venne meno.

E si rivolse indietro. E in quel momento

Si spense il lampo, e tornò buio l'etra,

Ed acchetossi il tuono, e stette il vento.

Taceva il tutto; ed ella era di pietra.


28/07/2007 00:15
 
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XXXVIII

FRAMMENTO



Io qui vagando al limitare intorno,

Invan la pioggia invoco e la tempesta,

Acciò che la ritenga al mio soggiorno.

Pure il vento muggìa nella foresta,

E muggìa tra le nubi il tuono errante,

Pria che l'aurora in ciel fosse ridesta.

O care nubi, o cielo, o terra, o piante,

Parte la donna mia: pietà, se trova

Pietà nel mondo un infelice amante.

O turbine, or ti sveglia, or fate prova

Di sommergermi, o nembi, insino a tanto

Che il sole ad altre terre il dì rinnova.

S'apre il ciel, cade il soffio, in ogni canto

Posan l'erbe e le frondi, e m'abbarbaglia

Le luci il crudo Sol pregne di pianto.


28/07/2007 00:17
 
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XXXIX

FRAMMENTO




Spento il diurno raggio in occidente,

E queto il fumo delle ville, e queta

De' cani era la voce e della gente;

Quand'ella, volta all'amorosa meta,

Si ritrovò nel mezzo ad una landa

Quanto foss'altra mai vezzosa e lieta.

Spandeva il suo chiaror per ogni banda

La sorella del sole, e fea d'argento

Gli arbori ch'a quel loco eran ghirlanda.

I ramoscelli ivan cantando al vento,

E in un con l'usignol che sempre piagne

Fra i tronchi un rivo fea dolce lamento.

Limpido il mar da lungi, e le campagne

E le foreste, e tutte ad una ad una

Le cime si scoprian delle montagne.

In queta ombra giacea la valle bruna,

E i collicelli intorno rivestia

Del suo candor la rugiadosa luna.

Sola tenea la taciturna via

La donna, e il vento che gli odori spande,

Molle passar sul volto si sentia.

Se lieta fosse, è van che tu dimande:

Piacer prendea di quella vista, e il bene

Che il cor le prometteva era più grande.

Come fuggiste, o belle ore serene!

Dilettevol quaggiù null'altro dura,

Né si ferma giammai, se non la spene.

Ecco turbar la notte, e farsi oscura

La sembianza del ciel, ch'era sì bella,

E il piacere in colei farsi paura.

Un nugol torbo, padre di procella,

Sorgea di dietro ai monti, e crescea tanto,

Che più non si scopria luna né stella.

Spiegarsi ella il vedea per ogni canto,

E salir su per l'aria a poco a poco,

E far sovra il suo capo a quella ammanto.

Veniva il poco lume ognor più fioco;

E intanto al bosco si destava il vento,

Al bosco là del dilettoso loco.

E si fea più gagliardo ogni momento,

Tal che a forza era desto e svolazzava

Tra le frondi ogni augel per lo spavento.

E la nube, crescendo, in giù calava

Ver la marina sì, che l'un suo lembo

Toccava i monti, e l'altro il mar toccava.

Già tutto a cieca oscuritade in grembo,

S'incominciava udir fremer la pioggia,

E il suon cresceva all'appressar del nembo.

Dentro le nubi in paurosa foggia

Guizzavan lampi, e la fean batter gli occhi;

E n'era il terren tristo, e l'aria roggia.

Discior sentia la misera i ginocchi;

E già muggiva il tuon simile al metro

Di torrente che d'alto in giù trabocchi.

Talvolta ella ristava, e l'aer tetro

Guardava sbigottita, e poi correa,

Sì che i panni e le chiome ivano addietro.

E il duro vento col petto rompea,

Che gocce fredde giù per l'aria nera

In sul volto soffiando le spingea.

E il tuon veniale incontro come fera,

Rugghiando orribilmente e senza posa;

E cresceva la pioggia e la bufera.

E d'ogn'intorno era terribil cosa

Il volar polve e frondi e rami e sassi,

E il suon che immaginar l'alma non osa.

Ella dal lampo affaticati e lassi

Coprendo gli occhi, e stretti i panni al seno,

Già pur tra il nembo accelerando i passi.

Ma nella vista ancor l'era il baleno

Ardendo sì, ch'alfin dallo spavento

Fermò l'andare, e il cor le venne meno.

E si rivolse indietro. E in quel momento

Si spense il lampo, e tornò buio l'etra,

Ed acchetossi il tuono, e stette il vento.

Taceva il tutto; ed ella era di pietra.


28/07/2007 00:18
 
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XL

FRAMMENTO DAL GRECO DI SIMONIDE




Ogni mondano evento

È di Giove in poter, di Giove, o figlio,

Che giusta suo talento

Ogni cosa dispone.

Ma di lunga stagione

Nostro cieco pensier s'affanna e cura,

Benché l'umana etate,

Come destina il ciel nostra ventura,

Di giorno in giorno dura.

La bella speme tutti ci nutrica

Di sembianze beate,

Onde ciascuno indarno s'affatica:

Altri l'aurora amica,

Altri l'etade aspetta;

E nullo in terra vive

Cui nell'anno avvenir facili e pii

Con Pluto gli altri iddii

La mente non prometta.

Ecco pria che la speme in porto arrive,

Qual da vecchiezza è giunto

E qual da morbi al bruno Lete addutto;

Questo il rigido Marte, e quello il flutto

Del pelago rapisce; altri consunto

Da negre cure, o tristo nodo al collo

Circondando, sotterra si rifugge.

Così di mille mali

I miseri mortali

Volgo fiero e diverso agita e strugge.

Ma per sentenza mia,

Uom saggio e sciolto dal comune errore,

Patir non sosterria,

Né porrebbe al dolore

Ed al mal proprio suo cotanto amore.


28/07/2007 00:19
 
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XLI

FRAMMENTO DELLO STESSO





Umana cosa picciol tempo dura,

E certissimo detto

Disse il veglio di Chio,

Conforme ebber natura

Le foglie e l'uman seme.

Ma questa voce in petto

Raccolgon pochi. All'inquieta speme,

Figlia di giovin core,

Tutti prestiam ricetto.

Mentre è vermiglio il fiore

Di nostra etade acerba,

L'alma vota e superba

Cento dolci pensieri educa invano,

Né morte aspetta né vecchiezza; e nulla

Cura di morbi ha l'uom gagliardo e sano.

Ma stolto è chi non vede

La giovanezza come ha ratte l'ale,

E siccome alla culla

Poco il rogo è lontano.

Tu presso a porre il piede

In sul varco fatale

Della plutonia sede,

Ai presenti diletti

La breve età commetti.









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Grazie, Fiordineve, per aver dato spazio in questo forum ad uno dei maestri della poesia che ha veramente tracciato il sentiero dietro di se.

Un abbraccio

Giancarlo


...

- L'anima non la devi dare a nessuno. Il cuore sì, ma a quello è permesso di sbagliare... e sbaglia. (Cobite) -
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