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FIORI DI PENSIERO: poesie, racconti, riflessioni... Fiori di Pensiero è nato per permettere agli autori dilettanti di pubblicare le loro emozioni principalmente con la parola scritta, ma anche con immagini e suoni, usando il supporto più moderna che esista: Internet. La poesia è la principale rubrica del forum, ma trovano posto adeguato anche racconti, pensieri, riflessioni, dediche, lettere e tutto ciò che il cuore può dettare ed il pensiero esprimere.

Parole spezzate - I parte

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    Fiordipoesia
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    00 27/01/2005 22:55
    PAROLE SPEZZATE
    di Walko

    Sono parole spezzate
    di chi ha smarrito il filo del discorso,
    di chi ha perduto il filo della voce.
    Un crocevia di sillabe
    disgiunte e ricomposte
    che scrosciano dal cuore
    e inciampano sull'orlo delle labbra.
    Un dislivello cosciente
    tra l'immaginazione e il dire
    che non si può colmare;
    un intervallo esitante
    tra il suono e la cadenza,
    tra la vergogna e il rischio,
    tra la nota e il bemolle.
    Un intermezzo senza
    seria definizione,
    come lo spazio
    tra sopracciglia ed occhi,
    come voler descrivere
    con una sola frase
    la goccia di sudore
    che scende disegnandoti
    un rigagnolo sul braccio.
    Paròspezzàdamòchenonsodì:
    tesòlosàchevorredìrchetì.
    Sono proposizioni aggrovigliate,
    attorcigliate
    tra la lingua e i denti,
    che stentano a staccarsi dalle dita.
    E' come quando cerchi
    di volare,
    vorresti attraversare
    una finestra,
    nuotare nell'azzurro
    dell'immenso,
    e poi ti accorgi
    che stai rimbalzando
    tra le pareti bianche
    di una stanza.
    Sono momenti
    vuoti di espressione,
    visioni ed emozioni
    troppo intense,
    così che non diventano parole.
    E a volte
    basterebbe solamente
    una piccola frase,
    come dire
    che dopo un tempo
    spaventoso
    rale,
    appare l'arco
    proprio tu
    baleno.


    ...

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    Fiordipoesia
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    00 27/01/2005 22:57


    UN'ALBA DI QUESTE
    di Walko


    E finalmente,
    finalmente l'alba.
    Anche se è un'alba timida,
    impacciata,
    anche se un velo
    copre il nuovo sole,
    una di queste notti
    se n'è andata:
    una di queste notti
    senza sonno,
    una di queste notti,
    come tante,
    senza speranze,
    senza soluzioni,
    senza rimedi,
    senza una parola.
    E' andata via
    la notte del buffone
    che dà allegria
    a chi non può sapere
    come sia triste
    piangere di notte,
    ridere al sole
    e piangere alla luna.
    E finalmente,
    finalmente l'alba!
    La città, intorno,
    si stira, sbadiglia
    e si stroppiccia gli occhi
    di finestre,
    la folla si rovescia
    nelle strade,
    lo fa in punta di piedi,
    lentamente.
    L'unico suono,
    a parte una sirena,
    è quello del latrato
    solitario
    di un cane,
    taglia minima,
    ostinato.
    Alza insistito,
    altissimo,
    un lamento:
    più che abbaiare,
    cigola nel vento.


    ...



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    Fiordipoesia
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    00 27/01/2005 22:59

    MEIN EINZIG TRAUM
    di Walko


    Anche nell'imbrunire
    delle sere di fine stagione
    è assai raro che il cielo s'incendi.
    Uno strato sottile di piombo
    mette in maschera i giorni,
    le stagioni e i pensieri.
    Quella voce che incalza
    e che tuona
    spezza l'anima in due;
    chi lo sa se parlava
    di ragione o di terra?
    Già galoppano i cavalli di frisia
    sulla pista
    del circo d'Europa,
    volano alte le aquile
    sulle montagne,
    sulle città fumose
    e le campagne.

    Non diresti che ha un cuore di fuoco
    a guardarlo negli occhi
    che conservano i sogni
    dietro a un velo di cristallo
    e di ghiaccio:
    certe volte il suo sguardo
    può congelare il sangue
    e mutare il respiro
    in singhiozzo.
    Forse soltanto lei
    riesce a cogliere
    in fondo al suo sguardo
    una storia, un silenzio,
    un segreto.
    Lei lo osserva e lo ascolta parlare
    con uguale piacere,
    anche se, ormai, da tempo
    ha imparato
    a non credere alle sue parole,
    anche quando è sincero,
    anche quando promette
    "morgen, vielleicht...
    ja... morgen..."
    Lui le dice che ama i suoi occhi,
    la sua bocca, i suoi fianchi,
    le sue gambe, il suo seno,
    e nient'altro.
    Lei a volte lo ama
    e altre volte lo odia,
    certi giorni vorrebbe scordarsi di lui,
    ma il suo cuore non regge il macigno
    della sua lontananza,
    e per lui è lo stesso.
    Non è certo una storia
    di teneri amanti,
    ma anche questa
    è una storia d'amore.
    Raramente confessa di amarla,
    non è tipo da romanticismi
    col suo cuore ingessato,
    con la sua aquila
    tatuata sul cuore;
    anche quando le parla d'amore
    il suo sguardo è distante,
    la sua voce è di pietra.
    Però a volte la chiama
    "mein einzig Traum".

    E' una storia perduta
    dal tempo
    che misura l'azione di un passo
    dal ciglio dell'abisso
    al precipizio,
    è una storia d'amore
    perduta nel tempo.
    Il futuro ha negato
    non soltanto la vita,
    ma anche il nome
    dei protagonisti.
    Forse lui si chiamava
    Richard,
    e faceva il garzone;
    forse lei si chiamava
    Marlene,
    e faceva la sarta.
    Cosa importa,
    se nei giorni seguenti
    forse lui si chiamava
    Richard,
    e faceva il soldato;
    forse lei si chiamava
    Marlene,
    e cuciva divise?

    Nel trentotto,
    a Berlino,
    a guardare le rose
    che donavano il maggio
    ai giardini,
    non lo avresti mai detto
    che sarebbe tornato l'inverno,
    che sarebbe
    venuta la morte.

    Certe volte la vita
    è un momento:
    il presente, il futuro,
    tutta l'eternità
    contenuta in un attimo appena.
    Richard fissa il suo sguardo
    di ghiaccio
    al vicino orizzonte,
    guarda un po' più lontano,
    e sussurra
    "Marlene,
    mein einzig Traum..."

    ...



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    Fiordipoesia
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    00 27/01/2005 23:01


    MELACERBA
    di Walko

    Non vi conviene
    credere ai romanzi,
    credere alle parole affascinanti
    di chi s'inventa
    una vita di carta.
    Io, per esempio,
    non sono rinsavito,
    come racconta il finale
    della storia:
    passato è il tempo,
    non so dire quanto,
    ma sono sempre
    lo stesso di allora,
    io sono sempre lo stesso
    di prima,
    io sono sempre lo stesso
    di sempre.
    Semplicemente,
    adesso sono solo,
    perché anche il mio scudiero
    mi ha lasciato,
    insieme alla speranza
    e al pentimento.
    Ora giro nei boschi,
    in mezzo ai campi,
    senza fermarmi mai,
    la notte e il giorno.
    Il mio cavallo è vecchio,
    cieco e zoppo,
    è monca della punta
    la mia spada,
    la mia lancia spaccata
    nel suo mezzo,
    il mio scudo affogato,
    sprofondato
    o trascinato via
    dalla corrente,
    varcando un fiume
    su un ponte di corde,
    portando il mio cavallo
    sulle spalle;
    il mio elmo
    l'ho dato a una ragazza
    che mi ha concesso
    un bacio sulla bocca
    e una succhiata
    dal suo seno caldo,
    profumato di rosa
    e melacerba.
    Altro non ho,
    né cerco, e neanche spero,
    ma nonostante tutto
    non mi arrendo;
    proseguo,
    non conosco la paura:
    non mi spaventa il vento,
    né la pioggia,
    non temo gelo,
    frastuono, silenzio,
    né tempeste di grandine
    o di sabbia,
    né bufere di sangue
    o di parole;
    sfido la morte
    in giochi di prestigio,
    d'acrobazia e vario altro talento
    e, non lo credereste,
    ho sempre vinto;
    non ho paura del buio,
    della luce,
    fisso negli occhi il sole,
    molto a lungo,
    sempre senza provare
    alcun dolore,
    e parlo con la luna,
    con le stelle,
    amo l'asfalto
    e odio la mia ombra:
    spesso la inseguo
    quando mi precede,
    spesso la fuggo
    quando mi rincorre.
    Ho fatto anche di peggio,
    ma, lo giuro,
    non m'importa più nulla
    della gloria,
    e giro al largo
    dai mulini a vento.
    Mi chiamano
    Chisciotte de la Mancha,
    ed è quello che sono,
    solo questo,
    ma avrei potuto essere
    ben altro,
    avrei dovuto essere
    tutt'altro.
    Avrei voluto essere
    un eroe,
    uno dei tanti:
    Achille, Ajace, Ulisse;
    avrei voluto,
    avrei potuto avere
    la forza, la bellezza,
    la ricchezza,
    anche più d'Ercole,
    d'Apollo e Mida;
    avrei potuto avere
    la maestà
    ed il segreto
    della conoscenza,
    anche più di re Artù
    e di Merlino.
    Non potendo trovarmi
    fra le mani
    queste virtù,
    sono quello che sono,
    perché un punto intermedio
    non esiste:
    fra tutto e niente
    non c'è via di mezzo.
    E forse, in fondo,
    questo è il mio segreto:
    avrei voluto essere soltanto
    giusto quello che sono,
    o ancora meglio,
    quello che sono diventato adesso,
    senza mulini a vento
    da attaccare,
    senza, con me,
    la stupida saggezza
    del benpensante Sancho
    che mi affianca,
    con quel suo ragionevole bagaglio
    di lenti dubbi
    e di vigliaccheria
    che, nel confronto,
    esalta il mio coraggio.
    Ebbene sì, lo ammetto,
    lo confesso:
    tutto quello che sono
    io l'ho scelto,
    anche se a volte piango,
    a volte urlo
    il mio risentimento
    e il mio rimpianto,
    mi specchio
    su pozzanghere di ghiaccio
    e sputo sull'immagine riflessa.
    Eppure,
    nonostante tutto questo,
    sono quello che sono
    e me ne vanto;
    quanto ai rimorsi,
    è un altro discorso.
    Non cerco Dulcinea,
    non la rincorro
    sulle strade che sceglie
    per sfuggirmi;
    spesso la sua presenza,
    o il suo miraggio,
    mi riempie l'orizzonte
    del pensiero,
    della stessa mia vista
    e del ricordo,
    però non la amo più,
    non ne ho più voglia,
    forse nemmeno fosse lei,
    un giorno,
    a venire a cercarmi,
    ad inseguirmi,
    come ho fatto con lei
    per molte strade,
    come ho fatto con lei
    per troppo tempo.
    Non tento neanche più
    di sostituirla,
    son quasi pronto
    per un nuovo amore,
    sebbene non lo cerchi
    e non mi manchi.
    Proseguo il mio cammino
    d'ogni giorno,
    senza voltarmi
    e alzando alto nel vento
    il mio stendardo
    e la sua nuova insegna:
    una clessidra,
    simbolo del tempo
    che passa sul mio viso,
    sul mio corpo,
    lasciandolo coperto
    di ferite,
    che passa sui pensieri,
    sul mio cuore,
    lasciandomelo intatto,
    sempre uguale,
    immacolato nella giovinezza.
    Altro non chiedo
    al tempo ed alla vita:
    come non cerco
    stima e compassione,
    non cerco l'immortalità
    di un gesto,
    non cerco lo stupore
    degli sguardi,
    non cerco il mito, il sogno,
    la fortuna,
    così non cerco più
    neanche un amore.
    Per il momento
    può bastarmi un bacio,
    una vetrina spalancata d'occhi,
    una cascata di capelli sciolti,
    l'ebrezza di una voce
    e di un sorriso,
    un profumo di rosa
    e melacerba.


    ...


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    00 27/01/2005 23:02


    TORQUEMADA
    di Walko

    Del male non ne ho fatto,
    deliberatamente,
    almeno non ricordo.
    Anzi, sinceramente,
    davvero non mi pare
    d'aver mai fatto male.
    Ma sì, ho bruciato i piedi
    a qualche centinaio
    di eretici e di streghe,
    forse ho strappato gli occhi
    con le mie proprie mani
    a un paio di blasfemi
    che avevan bestemmiato
    la santa madre chiesa,
    ma, giuro, non l'ho fatto
    con astio e cattiveria,
    non ho provato affatto
    soddisfazione o gioia,
    ma, per primo, ho sofferto
    di fronte a tanta pena.
    Voi non mi crederete,
    ma tutto quel che ho fatto,
    comprese le torture
    e i roghi, e le garrote
    sovente comminate,
    l'ho fatto con amore,
    l'ho fatto per amore.
    Quelle anime traviate,
    povere peccatrici,
    non le ho forse salvate
    con certe pene atroci
    dal fuoco dell'inferno?
    E allora, ho fatto male?
    In fondo ho rispettato,
    e fatto rispettare,
    la volontà divina
    per cui, per guadagnare
    l'eternità beata,
    occorre assai penare.
    Pensate a quanto amore
    muoveva la mia frusta,
    quando battevo il dorso,
    fino a levar la pelle,
    del prossimo che amo,
    nel nome del precetto,
    quanto e più di me stesso!
    Sapeste che sollievo
    per l'anima mia, pura,
    e per la mia coscienza,
    negli ultimi momenti
    pensare a quanta gente,
    spegnendole il sorriso,
    ho spalancato l'uscio
    del dolce paradiso!



    ...



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    IL CARNEVALE MACABRO
    di Walko


    Notte di luna piena, mezza estate.
    Come per una strana sensazione,
    forse un messaggio che non ha bisogno
    né di parole, né di sguardi, o d'altro,
    gli uomini sono nascosti nelle case:
    persino un vagabondo, o un ubriaco,
    anche a pagarlo, non lo trovereste
    su una panchina, o al ciglio di una strada,
    in questa notte, nel suo carnevale
    fuori stagione e fuori ogni misura.
    Chi vive ancora resta nel suo nido,
    non si avvicina neanche a una finestra,
    ha provveduto a sprangare la porta.
    Nessuno ne ha parlato, lo ha annunciato,
    ma i vivi hanno saputo, hanno capito
    che questa notte appartiene ai morti.
    Nel cimitero, dietro la collina,
    a mezzanotte in punto, lentamente,
    una pietra tombale si rimuove
    sino a scoprire del tutto una fossa;
    da questa esce uno scheletro, elegante,
    si spolvera le ossa dal terriccio,
    si guarda un poco intorno e poi comincia
    il suo discorso, con certo vigore:
    "Fratelli miei non so quanto lo foste
    quando di carne ancora era l'aspetto
    e il sangue vi pulsava nelle vene,
    ma, certo, adesso mi siete fratelli,
    congiunti nel ricordo e nel silenzio.
    Noi tutti, qui, che qualche cosa fummo,
    stanotte ancor saremo, ché ci è dato
    per questa notte sola. Io l'ho chiesto,
    me l'han concesso, e dunque si cominci
    il grande carnevale dei defunti!"
    A questo punto, tutte le altre tombe
    si muovono, si aprono le fosse
    e vi escono, un po' attonite, sorprese,
    figure ricomposte e rianimate
    di chi da tempo non ha carni addosso.
    Colui che primo uscì, con poche frasi,
    spiega ai presenti quella circostanza
    e in breve tempo la festa comincia,
    e lui, che ha organizzato il carnevale,
    mentre dirige il tutto, si diverte
    a raccontare al cielo ed alla luna
    la cronaca di questa unica, assurda,
    parata di mondanità notturna.
    "Quando io vissi, e caspita se vissi,
    quando io vissi fui detto gaudente,
    amavo la bellezza e l'eleganza,
    e amai non so più quante belle donne,
    non paventai timori, né riguardi
    e non conobbi mai rimorsi o dubbi.
    Il secolo mi disse Don Giovanni.
    Ora son qui, tra voi, cerimoniere,
    e a questo punto do il via alle danze!
    Colui che sulle corde del violino
    preme, sublime, le sue dita d'ossa,
    in vita sua fu detto Paganini,
    di tutti i violinisti fu il più grande.
    All'organo è Landino, detto il cieco,
    anche se adesso gli è dato vedere
    non perde punto la sua antica arte.
    Ai quattro pianoforti che sentite
    si alternano i più grandi tra i maestri
    che la divina musa ha dato al mondo:
    gli scheletri, lucenti al chiar di luna,
    di Ludwig Van Beethoven, Peter Schubert,
    Frydryk Chopin, e Mendelssohn, e Schumann,
    e Richard Strauss, Brahms, Haydn, e Puccini,
    e poi ancora Liszt, e Gustav Mahler,
    e Mozart, che conosco molto bene.
    Verdi dirige, da par suo, l'orchestra
    di scheletri virtuosi e assai valenti;
    fiati ed ottoni son lasciati a Bruckner,
    e Richard Wagner presto gli si affianca;
    Berlioz dirige il coro: una bellezza!
    Cura gli archi Vivaldi, il prete rosso;
    v'è infine al cembalo, ben temperato,
    lo scheletro di Johann Sebastian Bach.
    Pensate alla disdetta, voi che, vivi,
    non siete qui presenti ad ascoltare
    tanta beltà in un unico concerto!
    Voi vi affannate ancora, per il mondo,
    alla ricerca delle vane cose,
    fatui piaceri e gioie provvisorie,
    fuggendo inorriditi la figura
    della Signora che regge la falce;
    schiavi del gelo, come dell'arsura,
    piegati dalla fame e dai bisogni,
    soggetti alla fatica e alla stanchezza,
    sconvolti dal dolore e dal rimpianto.
    Poteste voi, avendone il coraggio
    e l'opportunità, trovarvi qui
    stanotte, sotto questa luna immensa,
    avreste l'occasione di potere
    assistere al trionfo della morte.
    Perché così è, signori: questa morte,
    che tanto vi spaventa, è una gran festa!
    Ecco, si avanzano gli innamorati:
    Paolo e Francesca, nuovamente uniti,
    lontani dalle fiamme dell'inferno
    cui li costrinse Dante nel poema,
    anche lui, Dante, qui tra noi, contento
    di rivedere la sua Beatrice.
    Ci sono anche gli amanti di Verona,
    Romeo e Giulietta, senza più veleni.
    Desdemona accarezza il cranio liscio
    di Otello che, davanti a lei, in ginocchio,
    chiede perdono e giura eterno amore.
    Lo scricchiolio di ossa che si avverte
    proviene dall'abbraccio appassionato
    tra il musicante Orfeo e la sua Euridice.
    Ma tutto intorno è un dolce ritrovarsi
    di amori mai finiti, allontanati
    da reciproca antica vedovanza.
    Ma infine, morte amore non disgiunge,
    anzi, riunisce nell'eterno adesso.
    Perché così è: romantica è la morte,
    l'apoteosi è d'ogni sentimento!
    E allora, non rallentino le danze,
    chi vuol ballare balli, e chi si apparta
    con il suo amore, goda sino in fondo!
    Io stesso ho ritrovato molte amanti.
    Ma non c'è solo musica ed amore,
    c'è tutto questo, ma non basta ancora.
    Qui c'è il congresso dell'uman sapere
    che non si vide mai, prima di adesso:
    Copernico, Leonardo, Galileo,
    tutte le scuole di filosofia;
    i grandi esploratori, gli inventori;
    Omero, Shakespeare, Goethe, Leopardi,
    né può mancarvi Tirso de Molina;
    Palladio, Michelangelo, Bernini
    e tutti gli altri immensi luminari
    dell'arte, del pensiero e dell'ingegno.
    Perché così è la morte: il solo scrigno
    con i tesori dell'intelligenza!
    Che dire ancora, che altro può mancare
    a questa festa, che ho sin qui taciuto?
    Immagino che cosa chiedereste,
    e vi rispondo subito: sì, c'è.
    E' qui tra noi, stanotte, il Convitato,
    col suo abbagliante scheletro di pietra:
    passando tra la folla dei festanti
    con passo lento e greve, mi ha raggiunto
    nel mezzo del mio brindisi trionfante,
    e non ha urlato "Pentiti!" stavolta,
    ma ha sussurrato "Guardati." soltanto.
    Non so se è stato il suo tono dimesso,
    lo stato della nuova fratellanza,
    ma non gli ho reso il "No!" come risposta
    e, quasi senza rendermene conto,
    quello che mi diceva io l'ho fatto.
    Vuole il destino, per mia buona sorte,
    che non abbia uno specchio tra le mani,
    così che io non veda la mia faccia,
    o quel che resta della sua rovina.
    Mi basta lo spettacolo tremendo
    del resto devastato del mio corpo.
    Del nettare inebriante che ho bevuto
    non ho sentito gusto, né profumo:
    non ho palato, lingua, e neanche naso!
    Lo stesso liquido che ho deglutito
    mi è scivolato giù, lungo il costato,
    sui femori, giù giù, sino a formare,
    intorno a quel che resta dei miei piedi,
    una stupida pozza spumeggiante:
    non ho più stomaco per trattenere
    dolci bevande, né gustoso cibo!
    E tu, fanciulla che mi sei accanto,
    dove hai lasciato i tuoi capelli biondi?
    Perché non hai più cielo nei tuoi occhi,
    ma mostri solamente, in questa notte,
    come caverne, le orbite tue, vuote?
    Non hai più pelle liscia, non hai carne,
    ed io, per quanta volontà ci metta,
    non riuscirei a baciarti sulle ossa!
    E poi, misero me, come potrei
    baciarti adesso, se non ho più labbra?
    Non posso neanche amarti, come vedi,
    perché, accidenti, non ho neanche il cuore!
    Non ho più peli addosso, onor del mento,
    né cosce, né bicipiti e polpacci,
    non ho più glutei, non ho deretano!
    Orrore! Non ho neanche, tra le gambe,
    parvenza di testicoli, né vedo
    il mio caro strumento di piacere!
    Che fine ha fatto il mio nobile cazzo?
    La morte è questa? Dov'è il suo trionfo?
    E voi, viventi, perché costruite
    discariche di resti di defunti
    che dite cimiteri o camposanti?
    Ma ditemi: vi sembra cosa giusta
    lasciare a decomporre nella terra,
    o tra fredde pareti di cemento,
    quel che natura diede ai nostri corpi?
    Se voi vedeste adesso quel che resta
    della fanciulla che piange al mio fianco!
    L'aveste vista il giorno in cui la morte
    la rapì al mondo e alla sua giovinezza!
    Ma come può apparirvi cosa umana
    aver lasciato che la sua bellezza
    marcisse nella terra, poco a poco,
    sinché di lei restarono le ossa?
    Ma non sarebbe meglio, da defunti,
    sparire in cenere o, anche meglio, in fumo?
    Voi uomini del secolo più ricco
    di esperimenti e di tecnologia,
    perché non inventate uno strumento
    con cui disintegrare chi trapassa,
    risparmiandogli l'onta, almeno quella,
    della dissoluzione putrescente?
    Già sottostiamo a tante umiliazioni,
    fino all'estrema, all'ultima: la morte.
    Perché così è, signori, date ascolto:
    la morte è una solenne fregatura!"
    Da quella notte è ormai passato un anno.
    Lanciato al vento quell'ultimo grido,
    il primo che era uscito dalla tomba,
    come se l'incantesimo notturno
    si fosse rotto per quelle parole,
    per primo cadde a pezzi su se stesso,
    e tutti gli altri, ormai disanimati,
    si sgretolarono allo stesso modo,
    lasciando trasformato il cimitero
    in un immenso ossario desolato
    di resti sparsi senza alcuna forma,
    né ordine, né nome, né più storia.
    La luna, che assistette a quella scena,
    s'arrese al raccapriccio, e da quel giorno
    percorse il cielo, notte dopo notte,
    sempre nascosta dietro ad una nube,
    per non dover vedere lo sfacelo
    del carnevale macabro, lasciato
    dagli uomini, impauriti, tale e quale:
    le ossa sparse, fuori dalle tombe,
    per mesi e mesi, quasi per un anno,
    senza che alcuno osasse avvicinarsi.
    Finché qualcuno, negli ultimi tempi,
    riportò l'ordine nel cimitero,
    ricomponendo le ossa, finalmente,
    depositandole dentro la fossa,
    e richiudendo questa con la pietra.
    Gli uomini han pregato che la luna
    ricomparisse in cielo come prima,
    come se nulla fosse mai successo:
    hanno pregato, hanno implorato e pianto,
    specialmente i poeti, i musicisti,
    i sognatori e gli innamorati.
    Infine, dopo giorni di lamenti
    e di occhi lucidi puntati al cielo,
    forse per la pietà, forse per caso,
    la nuvola si è sciolta lentamente:
    e nella notte, alto e luminoso,
    in cielo è apparso il teschio della luna.



    ...


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