Non riesco a comprendere i duri commenti di Dolf e di Fiordineve, perché sinceramente non trovo il nesso tra la causa e l'effetto, cioè tra quanto ho scritto nel mio commento e la reazione che ha provocato nei due suddetti amici, a differenza invece dei rilievi di Cri che trovo pertinenti, nonostante la persistente differenza di opinione su un determinato punto, il che peraltro non costituisce certo un dramma: se la pensassimo tutti allo stesso modo su tutto saremmo pronti per il Grande Fratello (non quello televisivo, quello descritto da Orwell nel suo "1984").
Se qualcuno saltasse quel che ho scritto e leggesse i commenti di Dolf e di Fiordi si farebbe l'idea che io l'abbia grossolanamente "buttata in politica", attribuendo la colpa di tutto a Berlusconi, e abbia perorato la causa dell'assassino come se fossi il suo avvocato, invocando per lui indulgenza e attenuanti. Evidentemente non sono riuscito a spiegarmi e allora mi vedo costretto a cercare di farlo ora, sinteticamente.
Non ho voluto entrare nel merito dell'episodio perché mi sembrava superfluo farlo; ho preferito scrivere le riflessioni che il post di Fiordineve mi aveva suscitato, evitando di soffermarmi su tutto ciò che sento diverso e lontano (il delitto, l'ambito, il contesto, il mostro), e indirizzando riflessioni e commento su quanto mi è più familiare e comprensibile, cioè su di noi, noi persone "normali", noi che certi delitti non riusciremmo nemmeno ad immaginarli, noi che quando la cronaca ci propone questi delitti rimaniamo atterriti, sconvolti, nauseati e travolti dalla rabbia e dal desiderio di giustizia e di vendetta. E lì mi si è presentato il problema, cioè il dubbio che forse persino la nostra coscienza individuale non è più libera, ma è diventata facilmente manipolabile ed omologabile entro ua sorta di contenitore delle coscienze, dove tutto ciò che attiene all'individuo si scioglie nel collettivo. Da questo deriva il nostro (mio, tuo, suo) risveglio della coscienza "a comando", quando la cronaca propone un evento di particolare risonanza e gravità, coscienza che rimane assopita e indifferente di fronte ad altre immani tragedie di cui pure si conosce l'esistenza, ma la cui risonanza viene mediata e stemperata dall'abitudine e soprattutto dalla mancanza di clamore. Per fare un esempio: allo stadio, durante una partita molto importante un ragazzo viene accoltellato e muore; la reazione è immensa con tutto il suo contorno di commenti e temi di riflessione: l'assurdità di morire per una partita di calcio, la bestialità degli accoltellatori, l'intervento dei genitori, di sociologi, psicologi, commentatori, la proposta di chiudere gli stadi, sospendere i campionati di calcio; una fiammata di orrore e di sdegno percorre il Paese per due o tre settimane, poi si tornerà a parlarne ad ogni anniversario. Intanto ogni giorno qualcuno muore sul lavoro: un trafiletto in cronaca locale, operaio soffocato in un pozzo, travolto da un macchinario, schiacciato da una pressa, disintegrato dall'esplosione di una caldaia, avvelenato da esalazioni di gas o fumo di scarico, precipitato da un'impalcatura. L'Italia è il Paese con la più alta incidenza di morti e infortuni sul lavoro in Europa ed è stata più volte richiamata dalla C.E. per la sua inadeguatezza legislativa in merito, per di più le normative già carenti non vengono quasi mai rispettate, al di fuori di ogni serio controllo; eppure non si verifica, non si è verificato mai alcun episodio di sdegno popolare, tacciono tecnici, sociologi e opinionisti, nessuna fiammata di orrore e di sdegno percorre il Paese e nessuno paga.
Vedete, non c'entra la politica! Non è nemmeno il voler tacere certe cose per interesse di qualcuno. Ci sarà anche questo, ma è solo una componente, il nocciolo della questione è un altro. E' come quando a Milano, Roma, Napoli o Torino si rovescia un pulmino scolastico e muore un bambino: la notizia balza in testa ai titoli di apertura del Tg; magari a Kiev o a Montevideo si rovescia un altro pulmino e muoiono trenta bambini, ma la notizia è già fuori dai titoli, tra le varie notizie minori: il matrimonio di un cantante, il furto di un'opera d'arte poco nota, un ciclone abbattutosi sulle coste della Florida. E' una questione di audience.
Sia chiaro: non butto croci addosso a nessuno! Ho anche fatto il giornalista, lo so come l'è dura certe volte, e che bocconi amari e spinosi bisogna mandar giù! E' il sistema che gira così!
Tornando a noi, il centro delle mie riflessioni era tutto lì, inerente l'argomento della violenza: l'episodio eclatante ci infervora, mentre la violenza quotidiana ci scorre sotto gli occhi e sulla coscienza come acqua sul marmo levigato, eppure se c'è il frutto marcio dell'esplosione di violenza e brutalità vuol dire che c'è un terreno fertile intorno, e questo terreno fertile io lo vedo nel permissivismo sfrenato che viene spacciato per libertà, per progresso. Dici: non è giusto ed è immorale che un ragazzo di 16 anni o poco oltre esca di sabato alle 11 di sera e rientri alle 6 di domenica mattina spinellato a dovere; e subito senti qualcuno che ti risponde "euh, ma sei rimasto all'età della pietra!". Questo per dirne una terra terra.
Mi agganciavo a questo parlando di Silvestri, che a mio parere si rivestito del ruolo di cattivo maestro. In questo contesto, rispondendo a Cri, ho citato come pessimi esempi due uomini molto in vista e molto potenti, due uomini che hanno rivestito e ricoprono importanti cariche pubbliche, non a caso prendendone uno per opposto schieramento, proprio per sottolineare che la politica non c'entrava un fico secco in quel discorso. Davvero trovo incomprensibile la reazione di Dolf: quando e dove mai ho veicolato il discorso su Berlusconi e ho fatto "d'ogni erba un fascio"?
L'altra questione è quella del "perdono". Dove ho scritto qualcosa di simile ad una richiesta di perdono per l'assassino? Non vorrei si fosse ingenerato un equivoco sul mio rilievo alla frase di Fiordineve, che a mio parere è un luogo comune, riguardo il fato che l'uomo sarebbe peggiore degli animali. Ho semplicemente voluto precisare che in realtà l'uomo ha gli strumenti necessari per essere migliore, in quanto superiore agli istinti della legge naturale, cui pure è sottoposto, grazie alla ragione e alla morale che gli permette di avere coscienza del bene e del male, al di là dell'immediata convenienza e degli stessi desideri che l'istinto naturale gli propone, sapendo discernere il "lecito" dall' "illecito" nella misura in cui si percepisce che la soddisfazione di un determinato desiderio implica insoddisfazione, sottomissione, dolore, morte per uno o diversi propri simili. Proprio per questo l'uomo deve essere sottoposto ad un giudizio più severo, per cui rifacendomi all'esempio che già citavo: il leone che uccide i cuccioli di una leonessa per potervisi accoppiare non può essere condannato in base alla nostra morale, che non possiede, ma dovrà essere assolto a causa dell'istinto naturale al quale è interamente sottoposto; l'uomo che uccide il marito e i figli di una donna per potersi unire a lei senza ostacoli non può essere giudicato alla stregua di un animale che ha seguito il suo istinto, perché ha in possesso una morale e il suo codice che gli permette di discernere il bene dal male, e proprio per questo deve essere condannato come un criminale, senza alcuna attenuante.
Rimane aperta la questione della ridotta o del tutto cancellata responsabilità del crimine in ordine alla comprovata menomazione intellettiva del soggetto che lo commette. Mi sembra ovvio che ad un demente totale che non ha la minima percezione di sé e del mondo circostante, quindi nessun controllo delle proprie azioni, non si possa attribuire colpa e tanto meno premeditazione, con conseguente condanna; in quel caso andrebbero giudicati e condannati duramente gli specialisti che hanno ritenuto non fosse il caso di mettere preventivamente quell'infelice nella condizione di non nuocere ai suoi simili e a se stesso. Non è questo certamente il caso intorno al quale stiamo dibattendo: l'assassino risulta persona in grado di intendere e volere, si tratta di uno stimato imprenditore. Non è affatto detto che chi compie certi atti bestiali sia infermo di mente, tanto più in una società permissiva come la nostra, dove la distinzione tra bene e male risulta vieppiù sfumata, compromessa e discussa, dove un teologo potrebbe senza tema d'errore affermare che "si è svuotato o perduto il senso del peccato"; ma questo non rappresenta un'attenuante per il reo, che ha deliberatamente accettato questo assai comodo e soddisfacente "nuovo corso" della morale. Quanto al "raptus", se questo vi è effettivamente stato a causa dell'uso di una sostanza stupefacente, come nel caso presente per cui si è parlato di cocaina, anche se l'assunzione della sostanza (peraltro pacificamente volontaria e cosciente) riduce la capacità di intendere e di volere del soggetto, a mio parere ciò non costituisce un'attenuante, ma semmai dovrebbe costituire un'aggravante sul piano penale.
Ultimo argomento: il perdono.
Io ritengo che su questo non vi sia nulla da discutere. Il perdono è prerogativa esclusiva della vittima, se ne ha l'opportunità, e delle persone vicine, direttamente colpite dal suo dolore e, quando avviene come in questo caso, dalla sua morte, cioè dalle persone che la amano o che l'amavano: congiunti, parenti, amici, colleghi. Il perdono degli altri non ha alcun senso né logica, quello collettivo o addirittura istituzionale è pura astrazione, follia giuridica, bestemmia morale. Solo io posso perdonare o no chi mi fa del male e giudicare se sia lecito e sensato il mio perdono o meno. Nel contempo io non ho alcun titolo per perdonare chi fa del male ad altri e nemmeno di giudicare la scelta di perdonare o no compiuta dalla vittima.
Sicuramente non darò mai del cretino a chi ha voluto e si è sentito di perdonare chi gli ha fatto del male.