Una cappa di fumo grigio restava sospesa a mezz’aria nello studio di Cristina. Appariva più vuota la stanza in cui prendevano forma i suoi reprobi sogni, le debolezze e le vergogne occultate, l’ombra serpentina dell’angoscia e ogni lacrima. Tutti i sentimenti, dal più scontato al più imbarazzante diventavano forme astratte e ritratti, acquerelli su fogli di carta. Cristina usava anche dipingere sulla tela, ma preferiva la debolezza della cellulosa. Trovava in quel materiale, così facile da squartare con forti pennellate, qualcosa di carnale, di umano, di vivo. Cristina usava un’energia misteriosa, che riusciva a dare corpo concreto e tangibile ai sentimenti. I suoi cieli diventavano di un colore rosso fuoco e venivano graffiati da pennellate nere sottilissime e contrastanti con lo sfondo, che rappresentavano alberi ingannati dalla forza distruttrice dell’autunno e ignari dell’energia rinnovatrice della primavera. In uno dei suoi disegni la nebbia era rappresentata con una tonalità di azzurro talmente profondo che dava l’impressione di essere un mosaico di cobalto. Usava sempre colori innaturali: il viola per il sole, il rosso per il cielo sereno, il nero per gli alberi e qualsiasi essere vivente e ancora il nero per disegnare qualsiasi oggetto fabbricato da mani umane. Cristina si era sempre chiesta da dove provenisse la sua arte. Forse portava in sé qualcosa di atavico, come se lo spirito di un pittore espressionista si fosse impossessato del suo corpo. Forse era solo tutto il peso dei giorni che riempiva inutilmente di vita, per aspettare il tramonto. O era colpa delle notti che viveva pienamente per trovare la sua ispirazione all’alba?
Poco prima, nell’ampio stanzone che faceva da studio per la giovane artista, facevano irruzione attraverso i finestroni, contornati da nodi di glicine, i raggi del sole estivo. Cristina sedeva in terra e davanti a lei era appoggiato sul pavimento di cotto un vassoio dai bordi alti circa quattro dita, pieno di acqua, sul fondo era intagliato nell’argento un airone cenerino intento a squadrare l’osservatore, le maniglie erano finemente decorate da delicatissime foglie dorate. Intorno a lei, sempre sul pavimento, c’erano dei fogli disegnati, sparsi per tutta la stanza, scheletri rotti di cavalletti scaraventati sul cotto e tele graffiate, sembravano opere di Fontana. Aveva in mano una candela accesa, non aveva espressione. Solo il respiro affannoso la rendeva un elemento vivo nello stanzone. Il battito del cuore la distingueva dal manichino buttato contro un grande armadio, ormai accasciato per terra con la posizione di un cadavere senza un braccio. Volse distrattamente la sua attenzione sui versi delle tortore nel giardino oltre ai finestroni. Gli uccelli sfioravano lo stagno col becco e subito dopo alzavano la testa a causa del suono prodotto dalla catena del cane poco distante. Ancora qualche attimo per calmarsi dallo scatto d’ira che aveva preso il sopravvento su di lei, non aveva versato una lacrima. Prese in mano uno dei fogli. Rappresentava un volto maschile, un ovale pallido senza dettagli. Si distingueva il nero profondo dei suoi occhi e la capigliatura folta, castana. Sorrideva. Dei sottili baffi stentavano a mascherare la luminosità di quel sorriso.
Il volto di Cristina non si lasciava tradire dalla rabbia che cresceva in lei, non una minima torsione della bocca. Avvicinò la candela ad un angolo inferiore del foglio ed esso prese fuoco lentamente. Non le dispiaceva vederlo bruciare, lasciò che le fiamme le sfiorassero le unghie, poi con estrema calma immerse il frammento di carta nell’acqua. L’airone era ancora lì, impassibile. Cristina lo immaginava materializzarsi e volare via nel cielo d’argento. Le sue orecchie parevano scorgere il fruscio delle foglie dorate agitate da una brezza liquida generata dalla sua mano. Afferrò il secondo disegno, questo rappresentava un vento forte e denso di colore che scuoteva gli alberi di una campagna deserta, la presenza dell’uomo era indiretta, resa visibile dalla presenza dei campi coltivati. Il fuoco cominciò a mangiarsi voracemente il disegno, quando la fiamma arrivò alle dita di Cristina lei lo lasciò cadere nell’acqua. Il ronzìo di un calabrone passò distratto davanti alla finestra, la sua ombra si proiettava sul pavimento e lo spostamento d’aria delle sue ali faceva dondolare una foglia di glicine. Smise per un attimo. Riprese. Di nuovo sembrava morire, poi si allontanò verso lo stagno. Il tetto di fumo cominciava a ristagnare a mezz’aria. Cristina si chiedeva cosa la spingesse a bruciare i suoi disegni. Il motivo era semplicissimo: non voleva mostrare la sua anima a se stessa. Quei dipinti erano come specchi che riflettevano in un’immagine complessa e ricca di simboli tutto il suo io nascosto dietro una maschera. Non si era mai sentita così viva mentre osservava una sua opera, non si sentiva morire mentre bruciava i martiri di carta. Sentiva invece una sensazione di sollievo. Aveva esternato i propri dubbi buttandoli sulla viva carta, adesso doveva liberarli da quelle gabbie di cellulosa. Non li fece tornare nel suo cuore, ma li trasformò in qualcosa di veramente astratto. Quello era il miglior modo per far sparire una lacrima o un brutto ricordo, o ancora qualcosa che la angosciava. Quando ebbe finito di bruciare tutto non rimase che il vuoto nello stanzone. Una pace e una quiete ritrovate dopo lungo tempo. Rimanevano solo le tele graffiate e i cavalletti dalle gambe spezzate, il manichino morto e l’anta sfondata dell’armadio. E l’acqua annerita nel vassoio, l’airone ricoperto dai depositi di cenere e un tramonto appena nato, che aveva negli occhi l’azzurro del cielo e nei capelli la luce arancione ancora indefinita.
[Modificato da mosquito4 19/02/2004 18.24]