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Sessant'anni

Ultimo Aggiornamento: 25/02/2016 13:30
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Che valore ha la felicità, se intorno muore il mondo? (Sonora)

Così Helena aveva compiuto sessant’anni. Che bella la vita, pensò. Ora era sola in casa, ma udiva ancora l’eco allegra ed il vocio dei nipotini, due adorabili bimbi che le avevano scritto un biglietto d’auguri con parole così affettuose da commuoverla. Il marito, Thomas, era uscito con il figlio e la nuora: Thomas sarebbe restato ad accudire i piccoli, poiché il babbo e la mamma avevano deciso di uscire per cena con alcuni colleghi.

Helena era sola in casa: l’avevano aiutata a sparecchiare ed a rigovernare la cucina. Era tutto in ordine ed ella rimirava i doni per il suo genetliaco. Seduta di fronte alla finestra, contemplò i vasi con le piante aromatiche sul davanzale: il basilico con le sue foglie lucide, la maggiorana, la santoreggia con i fiori delicati. Le piante erano avvolte in un alone dorato: il sole, ormai prossimo al tramonto, sgranava faville sul prato innanzi casa e proiettava coni luminosi fra le tende.

Che bella la vita! Avere sessant’anni e sentire l’entusiasmo e l’energia di una ventenne. Era stata fortunata: Daniel era un figlio assennato, un architetto di successo. Il suo rapporto con la nuora, maestra in una scuola d’infanzia, sfatava i soliti luoghi comuni sull’incompatibilità tra suocera e nuora: Kimberly era una donna minuta, volitiva e, nel contempo, dolcissima, una madre perfetta per Kevin e Sidney. Helena amava il marito Thomas di un amore sincero ed intenso, come quando era una giovane liceale invaghitasi di quel ragazzo timido dagli occhi profondi.

Era una privilegiata: la felicità, simile ad un’onda azzurra di cielo, permeava ogni fibra della sua anima. Nonostante quello che affermano alcuni, della felicità non ci si stanca mai: essa dona luce agli oggetti, risonanze alle parole, colora la natura, accende le stelle nella notte. E’ melodia che fa vibrare le corde della speranza e del ricordo. La felicità è gratificazione, è la tenerezza di un sorriso, la giocondità dei giorni normali, il conforto di care abitudini. E’ la gaiezza in un mattino di primavera, persino la carezzevole malinconia che ti sfiora mentre, in un giorno d’autunno, guardi la pioggia fuori dalla finestra con tutti quei fili giocosi che si intrecciano fra i rami e scherzano sulle grondaie.

Certo, i problemi non erano mancati, ma si erano sempre risolti. Le sofferenze e la sfide, inevitabili nella vita, non erano mai state tali da annientare il desiderio di vivere, da prostrarla e gettarla nel baratro della costernazione. Le sembrava che un fortuito e fortunato concorso di circostanze l’avessero preservata dai patimenti più feroci e dagli strali avvelenati del destino. Le pareva di aver camminato su una corda tesa sul vuoto, ma con naturalezza e quasi noncuranza per l’abisso al di sotto di lei.

Le tornarono in mente i celebri versi di Omero, là dove il poeta narra di Priamo che, umilicorde, si reca, portando con sé ricchi doni, dal fiero Achille per chiedergli il corpo dell’adorato Ettore. Il Pelide, rispondendo alle accorate preghiere del re troiano, gli ricorda: “Già lo sai, nella sala di Zeus si trovano i due vasi dei doni che egli dà ai mortali: uno è pieno di mali, l’altro di beni. La persona a cui Zeus fulminatore li offre mescolati, ora incontra sventura ora felicità; ma se a uno porge solo guai, lo rende un miserabile ed una fame malvagia lo caccia per il mondo e se ne va errando tra il disprezzo degli uomini e degli dèi”.

Con lei Zeus era stato generoso, anzi prodigo: le aveva elargito moltissimi beni, appena mescolati a qualche amarezza. Perché? Quale merito aveva o quale demerito avevano gli sciagurati? Era una donna come tante altre, non era una santa: aveva commesso errori e persino qualche azione sconveniente, sebbene non misfatti. La buona sorte comunque non dipende dalla condotta, anzi spesso si vedono uomini malvagi favoriti dal fato e persone degnissime, invece, precipitate nell’inferno più nero. Fato? No, non era destino, bensì un caso cieco che acceca chi colpisce con i suoi micidiali fendenti. In che modo e grazie a chi era stata protetta dalla furia mortale, dalla pazzia della sorte?

Stava riflettendo sulla felicità: la felicità è anche egoismo, concluse. Qualcuno vive in un’oasi di quiete, mentre tutto intorno si agita l’oceano sterminato dei patimenti dove annaspano ed annegano, dopo lunga agonia, gli sventurati. Per lei e pochi altri il miele; per altri il fiele, solo fiele. Perché?

- A più tardi, tesoro – Il marito l’aveva salutata, dandole un bacio sulla guancia. Ancora sentiva il calore del bacio.
- A domani! - Ancora rivedeva gli occhi vispi di Kevin, le movenze graziose ed un po’ civettuole di Sydney.

La felicità è anche egocentrismo: infatti nella villa di fronte viveva (viveva?) l’anziana signora Smashtruth. La donna, costretta su una sedia a rotelle, a causa di un’annosa malattia neurodegenerativa, era ridotta ormai ad una larva. Ci si salva con qualche preghiera, andando a messa la domenica. Libera nos a malo. Ogni volta in cui era possibile, la figlia portava la madre inferma nel portico a prendere il sole, mentre le leggeva qualche pagina di un romanzo. Anche Helena, quando era libera da impegni, andava a trovare la signora Smashtruth: le portava delle torte, dei fiori o restava con lei una mezz’ora a conversare. La donna rispondeva a monosillabi, assorta nel labirinto della sua disperazione.

- Buona serata!
- Buona serata, mamma. A domani. La nuora la chiamava mamma, ma senza alcuna affettazione, con limpida sincerità, con genuino attaccamento.

La felicità è egomania: ogni sera, da donna devota, Helena ringraziava Dio per le benedizioni di cui l’Altissimo aveva sommerso la sua famiglia. Infine, prima di addormentarsi, rivolgeva un’orazione per tutti coloro che soffrono, per tutti i derelitti, senza neppure dimenticare i più piccoli fra le creature del Signore, persino gli scriccioli infreddoliti. “O buon Dio, pregava, se non è possibile ancora eliminare il male dal mondo, almeno lenisci le afflizioni di chi ha il cuore trafitto dalle spine”.

Libera nos a malo. Peccato che le preghiere per sé e per gli altri, per quanto provenienti dai precordi, per quanto cristalline come acque di sorgente, siano come i pacchi su cui è scritto il destinatario sbagliato. Sono restituiti, prima o dopo, a chi li ha spediti. Dio, se esiste, non è lì per esaudire le nostre richieste. Forse avevano ragione gli antichi greci che vedevano in Zeus il dispensatore delle sventure e delle gioie, ma nessuna logica soggiaceva e soggiace a questa attribuzione. E’ così e basta: la logica non appartiene alla realtà e non esiste atto più illogico che ostinarsi a cercarla là dove non esiste, là dove non può esistere. Eppure ci accontenteremmo di una risposta: nessuno vincola Dio a soddisfare anche uno solo dei nostri desideri, quelli disinteressati e nobili, ma almeno ricevessimo un segno soccorrevole, una parola di conforto, invece di dover sbattere sempre la testa contro questo muro di silenzio.

Non esiste un perché: è così e basta. All’improvviso lo aveva intuito. Fu una rivelazione, come svegliarsi al mattino e constatare all’improvviso, dopo qualche attimo d’incredulità, che il pianeta è stato devastato da una guerra nucleare.

Helena si sentì soffocare. Aria, aria… Uscì in giardino. Gli ultimi raggi di sole screziavano le foglie dell’ippocastano e radenti serpeggiavano fra l’erba in attesa della frescura serale. Andò a sedersi sull’altalena, sperando di potersi ritemprare. Avvertiva uno strano disagio, un senso di inutilità ed un’angoscia senza nome le stringeva la gola. Che cos’era successo? Le sue elucubrazioni sulla felicità l’avevano turbata. Forse era la ricorrenza del genetliaco a rendere i suoi pensieri tanto inquieti, come i brividi della brezza che ora alitava all’orizzonte. Sessant’anni… e dopo? Aveva capito. La mannaia del destino, di un destino perverso e crudele, stava per abbattersi su di lei, così senza motivo, solo perché il tempo della sua serenità era ormai scaduto, a somiglianza di un biglietto non più valido. “Scendere prego: il viaggio è finito. Siamo al capolinea”.

Vide innanzi a sé il futuro, nitido, stagliato, intollerabile nella sua ossessiva evidenza. Vide un futuro di malattie e di miseria. Vide ulcere dell’anima e del corpo. Visse anni di tribolazione che duravano eoni. Vide il declino, la senilità, la mano gelida della morte sulla fronte febbricitante.

Non fu il cielo a crollarle addosso, ma l’intero universo, scosso prima da fremiti subitanei, poi da venti giganteschi: vide i petali rosei delle nebulose volar via ed i rami delle galassie piegarsi sotto il peso delle raffiche. Poi le cadde addosso una pioggia di schegge, astri in frantumi, e dal soffitto nero degli spazi precipitarono blocchi di granito. Si sentì schiacciata. Era schiacciata da pietre di architravi: le toglievano la luce e l’ossigeno.

Con uno sforzo sovrumano si riscosse da quello stato di agghiacciante lucidità. Quanto tempo era passato? Era sera e sul volto del firmamento scorrevano lacrime argentee, mentre il silenzio era rigato di rintocchi lontani, profumato dalla fragranza dei fiori delle magnolie. Tra un po’ sarebbe rincasato il marito. Si sentiva meglio, anche se era come se fosse trascorsa un’eternità da quando era andata a sedersi sull’altalena.

- Helena, tesoro, perché sei rimasta qua in giardino? L’aria si è rinfrescata: ti buscherai un malanno.
Ella non rispose. L’uomo si avvicinò: il viso della donna rimaneva nella penombra.
-Tesoro, ti sei assopita… Vieni: ti porto nel letto. –
La donna era immobile, con le mani intrecciate sul grembo, gli occhi socchiusi e le labbra percorse da un fremito lieve, quasi impercettibile.

Gli si gelò il sangue nelle vene: Helena, la sua Helena era invecchiata di venticinque, trent’anni in poche ore: i capelli radi e canuti, la pelle vizza, lo sguardo spento, la bocca esangue. Che cosa era avvenuto? Da quale incubo era stato fagocitato? La vita gli parve un incubo dentro un altro incubo.

- Helena, amore, rispondi! Che ti è successo?- Gridò disperato.

Ella abbozzò un sorriso. Poi con un filo di voce:
- Non disperarti, Thomas. Mi è stato concesso di evitare infiniti tormenti. Ora ti abbatti, ma anche tu sei sfuggito a prove terribili. Addio, abbraccia e bacia i nipotini, Daniel, Kimberly. Forse un giorno ci rivedremo. Ti amo, Thomas…

Esalò l’ultimo respiro. L’uomo le toccò il polso: nessuna pulsazione. La pelle era già fredda. Tentò di rianimarla. Invano. Morta, era morta, all’improvviso! Thomas invocò decine di volte l’adorato nome, fra lacrime e singhiozzi che lo strozzavano, fra spasmi che gli squassavano il petto dove il cuore martellava impazzito.

La notte, profonda come l’ispirazione di un poeta, fredda come l’indifferenza degli dei, sovrastava il mondo.



[Modificato da macrino 21/02/2016 17:36]


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25/02/2016 13:30
 
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