Pubblicazione di scrittori dilettanti È vietato copiare senza l'autorizzazione dell'autore. redazionedifiori@hotmail.com    

 

Nuova Discussione
Rispondi
 
Pagina precedente | 1 2 | Pagina successiva
Stampa | Notifica email    
Autore

GIACOMO LEOPARDI- ANTOLOGIA

Ultimo Aggiornamento: 26/08/2007 12:21
27/07/2007 23:22
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota



XIX

AL CONTE CARLO PEPOLI



Questo affannoso e travagliato sonno

Che noi vita nomiam, come sopporti,

Pepoli mio? di che speranze il core

Vai sostentando? in che pensieri, in quanto

O gioconde o moleste opre dispensi

L'ozio che ti lasciàr gli avi remoti,

Grave retaggio e faticoso? È tutta,

In ogni umano stato, ozio la vita,

Se quell'oprar, quel procurar che a degno

Obbietto non intende, o che all'intento

Giunger mai non potria, ben si conviene

Ozioso nomar. La schiera industre

Cui franger glebe o curar piante e greggi

Vede l'alba tranquilla e vede il vespro,

Se oziosa dirai, da che sua vita

È per campar la vita, e per sé sola

La vita all'uom non ha pregio nessuno,

Dritto e vero dirai. Le notti e i giorni

Tragge in ozio il nocchiero; ozio il perenne

Sudar nelle officine, ozio le vegghie

Son de' guerrieri e il perigliar nell'armi;

E il mercatante avaro in ozio vive:

Che non a sé, non ad altrui, la bella

Felicità, cui solo agogna e cerca

La natura mortal, veruno acquista

Per cura o per sudor, vegghia o periglio.

Pure all'aspro desire onde i mortali

Già sempre infin dal dì che il mondo nacque

D'esser beati sospiraro indarno,

Di medicina in loco apparecchiate

Nella vita infelice avea natura

Necessità diverse, a cui non senza

Opra e pensier si provvedesse, e pieno,

Poi che lieto non può, corresse il giorno

All'umana famiglia; onde agitato

E confuso il desio, men loco avesse

Al travagliarne il cor. Così de' bruti

La progenie infinita, a cui pur solo,

Né men vano che a noi, vive nel petto

Desio d'esser beati; a quello intenta

Che a lor vita è mestier, di noi men tristo

Condur si scopre e men gravoso il tempo,

Né la lentezza accagionar dell'ore.

Ma noi, che il viver nostro all'altrui mano

Provveder commettiamo, una più grave

Necessità, cui provveder non puote

Altri che noi, già senza tedio e pena

Non adempiam: necessitate, io dico,

Di consumar la vita: improba, invitta

Necessità, cui non tesoro accolto,

Non di greggi dovizia, o pingui campi,

Non aula puote e non purpureo manto

Sottrar l'umana prole. Or s'altri, a sdegno

I vòti anni prendendo, e la superna

Luce odiando, l'omicida mano,

I tardi fati a prevenir condotto,

In se stesso non torce; al duro morso

Della brama insanabile che invano

Felicità richiede, esso da tutti

Lati cercando, mille inefficaci

Medicine procaccia, onde quell'una

Cui natura apprestò, mal si compensa.

Lui delle vesti e delle chiome il culto

E degli atti e dei passi, e i vani studi

Di cocchi e di cavalli, e le frequenti

Sale, e le piazze romorose, e gli orti,

Lui giochi e cene e invidiate danze

Tengon la notte e il giorno; a lui dal labbro

Mai non si parte il riso; ahi, ma nel petto,

Nell'imo petto, grave, salda, immota

Come colonna adamantina, siede

Noia immortale, incontro a cui non puote

Vigor di giovanezza, e non la crolla

Dolce parola di rosato labbro,

E non lo sguardo tenero, tremante,

Di due nere pupille, il caro sguardo,

La più degna del ciel cosa mortale.

Altri, quasi a fuggir volto la trista

Umana sorte, in cangiar terre e climi

L'età spendendo, e mari e poggi errando

Tutto l'orbe trascorre, ogni confine

Degli spazi che all'uom negl'infiniti

Campi del tutto la natura aperse,

Peregrinando aggiunge. Ahi ahi, s'asside

Su l'alte prue la negra cura, e sotto

Ogni clima, ogni ciel, si chiama indarno

Felicità, vive tristezza e regna.

Havvi chi le crudeli opre di marte

Si elegge a passar l'ore, e nel fraterno

Sangue la man tinge per ozio; ed havvi

Chi d'altrui danni si conforta, e pensa

Con far misero altrui far sé men tristo,

Sì che nocendo usar procaccia il tempo.

E chi virtute o sapienza ed arti

Perseguitando; e chi la propria gente

Conculcando e l'estrane, o di remoti

Lidi turbando la quiete antica

Col mercatar, con l'armi, e con le frodi,

La destinata sua vita consuma.

Te più mite desio, cura più dolce

Regge nel fior di gioventù, nel bello

April degli anni, altrui giocondo e primo

Dono del ciel, ma grave, amaro, infesto

A chi patria non ha. Te punge e move

Studio de' carmi e di ritrar parlando

Il bel che raro e scarso e fuggitivo

Appar nel mondo, e quel che più benigna

Di natura e del ciel, fecondamente

A noi la vaga fantasia produce

E il nostro proprio error. Ben mille volte

Fortunato colui che la caduca

Virtù del caro immaginar non perde

Per volger d'anni; a cui serbare eterna

La gioventù del cor diedero i fati;

Che nella ferma e nella stanca etade,

Così come solea nell'età verde,

In suo chiuso pensier natura abbella,

Morte, deserto avviva. A te conceda

Tanta ventura il ciel; ti faccia un tempo

La favilla che il petto oggi ti scalda,

Di poesia canuto amante. Io tutti

Della prima stagione i dolci inganni

Mancar già sento, e dileguar dagli occhi

Le dilettose immagini, che tanto

Amai, che sempre infino all'ora estrema

Mi fieno, a ricordar, bramate e piante.

Or quando al tutto irrigidito e freddo

Questo petto sarà, né degli aprichi

Campi il sereno e solitario riso,

Né degli augelli mattutini il canto

Di primavera, né per colli e piagge

Sotto limpido ciel tacita luna

Commoverammi il cor; quando mi fia

Ogni beltate o di natura o d'arte,

Fatta inanime e muta; ogni alto senso,

Ogni tenero affetto, ignoto e strano;

Del mio solo conforto allor mendico,

Altri studi men dolci, in ch'io riponga

L'ingrato avanzo della ferrea vita,

Eleggerò. L'acerbo vero, i ciechi

Destini investigar delle mortali

E dell'eterne cose; a che prodotta,

A che d'affanni e di miserie carca

L'umana stirpe; a quale ultimo intento

Lei spinga il fato e la natura; a cui

Tanto nostro dolor diletti o giovi:

Con quali ordini e leggi a che si volva

Questo arcano universo; il qual di lode

Colmano i saggi, io d'ammirar son pago.

In questo specolar gli ozi traendo

Verrò: che conosciuto, ancor che tristo,

Ha suoi diletti il vero. E se del vero

Ragionando talor, fieno alle genti

O mal grati i miei detti o non intesi,

Non mi dorrò, che già del tutto il vago

Desio di gloria antico in me fia spento:

Vana Diva non pur, ma di fortuna

E del fato e d'amor, Diva più cieca.

XX

IL RISORGIMENTO

Credei ch'al tutto fossero

In me, sul fior degli anni,

Mancati i dolci affanni

Della mia prima età:

I dolci affanni, i teneri

Moti del cor profondo,

Qualunque cosa al mondo

Grato il sentir ci fa.

Quante querele e lacrime

Sparsi nel novo stato,

Quando al mio cor gelato

Prima il dolor mancò!

Mancàr gli usati palpiti,

L'amor mi venne meno,

E irrigidito il seno

Di sospirar cessò!

Piansi spogliata, esanime

Fatta per me la vita

La terra inaridita,


Chiusa in eterno gel;

Deserto il dì; la tacita

Notte più sola e bruna;

Spenta per me la luna,

Spente le stelle in ciel.

Pur di quel pianto origine

Era l'antico affetto:

Nell'intimo del petto

Ancor viveva il cor.

Chiedea l'usate immagini

La stanca fantasia;

E la tristezza mia

Era dolore ancor.

Fra poco in me quell'ultimo

Dolore anco fu spento,

E di più far lamento

Valor non mi restò.

Giacqui: insensato, attonito,

Non dimandai conforto:

Quasi perduto e morto,

Il cor s'abbandonò.

Qual fui! quanto dissimile

Da quel che tanto ardore,

Che sì beato errore

Nutrii nell'alma un dì!

La rondinella vigile,

Alle finestre intorno

Cantando al novo giorno,

Il cor non mi ferì:

Non all'autunno pallido

In solitaria villa,

La vespertina squilla,

Il fuggitivo Sol.

Invan brillare il vespero

Vidi per muto calle,

Invan sonò la valle

Del flebile usignol.

E voi, pupille tenere,

Sguardi furtivi, erranti,

Voi de' gentili amanti

Primo, immortale amor,

Ed alla mano offertami

Candida ignuda mano,

Foste voi pure invano

Al duro mio sopor.

D'ogni dolcezza vedovo,

Tristo; ma non turbato,

Ma placido il mio stato,

Il volto era seren.

Desiderato il termine

Avrei del viver mio;

Ma spento era il desio

Nello spossato sen.

Qual dell'età decrepita

L'avanzo ignudo e vile,

Io conducea l'aprile

Degli anni miei così:

Così quegl'ineffabili

Giorni, o mio cor, traevi,

Che sì fugaci e brevi

Il cielo a noi sortì.

Chi dalla grave, immemore

Quiete or mi ridesta?

Che virtù nova è questa,

Questa che sento in me?

Moti soavi, immagini,

Palpiti, error beato,

Per sempre a voi negato

Questo mio cor non è?

Siete pur voi quell'unica

Luce de' giorni miei?

Gli affetti ch'io perdei

Nella novella età?

Se al ciel, s'ai verdi margini,

Ovunque il guardo mira,

Tutto un dolor mi spira,

Tutto un piacer mi dà.

Meco ritorna a vivere

La piaggia, il bosco, il monte;

Parla al mio core il fonte,

Meco favella il mar.

Chi mi ridona il piangere

Dopo cotanto obblio?

E come al guardo mio

Cangiato il mondo appar?

Forse la speme, o povero

Mio cor, ti volse un riso?

Ahi della speme il viso

Io non vedrò mai più.

Proprii mi diede i palpiti,

Natura, e i dolci inganni.

Sopiro in me gli affanni

L'ingenita virtù;

Non l'annullàr: non vinsela

Il fato e la sventura;

Non con la vista impura

L'infausta verità.

Dalle mie vaghe immagini

So ben ch'ella discorda:

So che natura è sorda,

Che miserar non sa.

Che non del ben sollecita

Fu, ma dell'esser solo:

Purché ci serbi al duolo,

Or d'altro a lei non cal.

So che pietà fra gli uomini

Il misero non trova;

Che lui, fuggendo, a prova

Schernisce ogni mortal.

Che ignora il tristo secolo

Gl'ingegni e le virtudi;

Che manca ai degni studi

L'ignuda gloria ancor.

E voi, pupille tremule,

Voi, raggio sovrumano,

So che splendete invano,

Che in voi non brilla amor.

Nessuno ignoto ed intimo

Affetto in voi non brilla:

Non chiude una favilla

Quel bianco petto in sé.

Anzi d'altrui le tenere

Cure suol porre in gioco;

E d'un celeste foco

Disprezzo è la mercè.

Pur sento in me rivivere

Gl'inganni aperti e noti;

E, de' suoi proprii moti

Si maraviglia il sen.

Da te, mio cor, quest'ultimo

Spirto, e l'ardor natio,

Ogni conforto mio

Solo da te mi vien.

Mancano, il sento, all'anima

Alta, gentile e pura,

La sorte, la natura,

Il mondo e la beltà.

Ma se tu vivi, o misero,

Se non concedi al fato,

Non chiamerò spietato

Chi lo spirar mi dà.














Amministra Discussione: | Chiudi | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 2 | Pagina successiva
Nuova Discussione
Rispondi
Feed | Forum | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 05:03. Versione: Stampabile | Mobile | Regolamento | Privacy
FreeForumZone [v.6.1] - Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com