Le rispondo subito signor Ambrogini (sono l'autore del post di partenza, solo con un altro nick): per capire il senso dei miei consigli, bisogna tener conto al pubblico ai quali sono indirizzati: i neofiti. Non ho stilato una serie di regole su cosa in poesia si possa o non si possa fare, ma su quello che un poeta alle prime armi dovrebbe evitare, due cose ben diverse. La mia idea di apprendistato poetico è questa: cominciare volando bassi, usando il minimo sindacale di figure retoriche, per prendere mano; poi ampliare poco alla volta, tenendo sempre conto delle reazioni di chi ci legge, per vedere se ciò che si aggiunge è funzionale o no. Per un poeta con un minimo di esperienza e di conoscenza della materia, creare una poesia di forma chiusa (chessò un sonetto classico) godibile non è un problema, per un neofita sì, perché per padroneggiare il verso canonico e lo schema delle rime in maniera disivolta, richiede un'applicazione che per un appassionato che ha preso da poco in mano la penna è sconfortante; quindi meglio affidarsi a forme libere, magari sbagliando la sillabazione, per poi accorgersi che quel verso che gli altri ti hanno segnalato perché "stona", suona male perché è un ottonario dove il primo accento cade alla 2° o alla 4° sillaba invece che alla 3°.
Allo stesso modo per l'effetto elenco: dopo il romanticismo gli elenchi sono diventati abituali in poesia, però una cosa è farne uno alla maniera del Pagliarani di "Per conto terzi" ("Volle dire ferro e carbone/ delle miniere/ del passo di Calais, Belgio, Ruhr, Slesia, Svezia, Galles") un altro è farne uno ingenuo, come se ne trova tanti nella poesia da web, tipo "la luna era pallida, azzura, lattiginosa, umbratile"; per un lettore con poca dimestichezza questi due elenchi sono perfettamente uguali, per un occhio un po' più esperto la differenza è abissale. Tutto qui, non avevo alcuna pretesa di fare un trattato di estica. Grazie per la lettura e il bel commento.
"Il poeta è puro acciaio, duro come una selce" Novalis
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