IL CARNEVALE MACABRO
di Walko
Notte di luna piena, mezza estate.
Come per una strana sensazione,
forse un messaggio che non ha bisogno
né di parole, né di sguardi, o d'altro,
gli uomini sono nascosti nelle case:
persino un vagabondo, o un ubriaco,
anche a pagarlo, non lo trovereste
su una panchina, o al ciglio di una strada,
in questa notte, nel suo carnevale
fuori stagione e fuori ogni misura.
Chi vive ancora resta nel suo nido,
non si avvicina neanche a una finestra,
ha provveduto a sprangare la porta.
Nessuno ne ha parlato, lo ha annunciato,
ma i vivi hanno saputo, hanno capito
che questa notte appartiene ai morti.
Nel cimitero, dietro la collina,
a mezzanotte in punto, lentamente,
una pietra tombale si rimuove
sino a scoprire del tutto una fossa;
da questa esce uno scheletro, elegante,
si spolvera le ossa dal terriccio,
si guarda un poco intorno e poi comincia
il suo discorso, con certo vigore:
"Fratelli miei non so quanto lo foste
quando di carne ancora era l'aspetto
e il sangue vi pulsava nelle vene,
ma, certo, adesso mi siete fratelli,
congiunti nel ricordo e nel silenzio.
Noi tutti, qui, che qualche cosa fummo,
stanotte ancor saremo, ché ci è dato
per questa notte sola. Io l'ho chiesto,
me l'han concesso, e dunque si cominci
il grande carnevale dei defunti!"
A questo punto, tutte le altre tombe
si muovono, si aprono le fosse
e vi escono, un po' attonite, sorprese,
figure ricomposte e rianimate
di chi da tempo non ha carni addosso.
Colui che primo uscì, con poche frasi,
spiega ai presenti quella circostanza
e in breve tempo la festa comincia,
e lui, che ha organizzato il carnevale,
mentre dirige il tutto, si diverte
a raccontare al cielo ed alla luna
la cronaca di questa unica, assurda,
parata di mondanità notturna.
"Quando io vissi, e caspita se vissi,
quando io vissi fui detto gaudente,
amavo la bellezza e l'eleganza,
e amai non so più quante belle donne,
non paventai timori, né riguardi
e non conobbi mai rimorsi o dubbi.
Il secolo mi disse Don Giovanni.
Ora son qui, tra voi, cerimoniere,
e a questo punto do il via alle danze!
Colui che sulle corde del violino
preme, sublime, le sue dita d'ossa,
in vita sua fu detto Paganini,
di tutti i violinisti fu il più grande.
All'organo è Landino, detto il cieco,
anche se adesso gli è dato vedere
non perde punto la sua antica arte.
Ai quattro pianoforti che sentite
si alternano i più grandi tra i maestri
che la divina musa ha dato al mondo:
gli scheletri, lucenti al chiar di luna,
di Ludwig Van Beethoven, Peter Schubert,
Frydryk Chopin, e Mendelssohn, e Schumann,
e Richard Strauss, Brahms, Haydn, e Puccini,
e poi ancora Liszt, e Gustav Mahler,
e Mozart, che conosco molto bene.
Verdi dirige, da par suo, l'orchestra
di scheletri virtuosi e assai valenti;
fiati ed ottoni son lasciati a Bruckner,
e Richard Wagner presto gli si affianca;
Berlioz dirige il coro: una bellezza!
Cura gli archi Vivaldi, il prete rosso;
v'è infine al cembalo, ben temperato,
lo scheletro di Johann Sebastian Bach.
Pensate alla disdetta, voi che, vivi,
non siete qui presenti ad ascoltare
tanta beltà in un unico concerto!
Voi vi affannate ancora, per il mondo,
alla ricerca delle vane cose,
fatui piaceri e gioie provvisorie,
fuggendo inorriditi la figura
della Signora che regge la falce;
schiavi del gelo, come dell'arsura,
piegati dalla fame e dai bisogni,
soggetti alla fatica e alla stanchezza,
sconvolti dal dolore e dal rimpianto.
Poteste voi, avendone il coraggio
e l'opportunità, trovarvi qui
stanotte, sotto questa luna immensa,
avreste l'occasione di potere
assistere al trionfo della morte.
Perché così è, signori: questa morte,
che tanto vi spaventa, è una gran festa!
Ecco, si avanzano gli innamorati:
Paolo e Francesca, nuovamente uniti,
lontani dalle fiamme dell'inferno
cui li costrinse Dante nel poema,
anche lui, Dante, qui tra noi, contento
di rivedere la sua Beatrice.
Ci sono anche gli amanti di Verona,
Romeo e Giulietta, senza più veleni.
Desdemona accarezza il cranio liscio
di Otello che, davanti a lei, in ginocchio,
chiede perdono e giura eterno amore.
Lo scricchiolio di ossa che si avverte
proviene dall'abbraccio appassionato
tra il musicante Orfeo e la sua Euridice.
Ma tutto intorno è un dolce ritrovarsi
di amori mai finiti, allontanati
da reciproca antica vedovanza.
Ma infine, morte amore non disgiunge,
anzi, riunisce nell'eterno adesso.
Perché così è: romantica è la morte,
l'apoteosi è d'ogni sentimento!
E allora, non rallentino le danze,
chi vuol ballare balli, e chi si apparta
con il suo amore, goda sino in fondo!
Io stesso ho ritrovato molte amanti.
Ma non c'è solo musica ed amore,
c'è tutto questo, ma non basta ancora.
Qui c'è il congresso dell'uman sapere
che non si vide mai, prima di adesso:
Copernico, Leonardo, Galileo,
tutte le scuole di filosofia;
i grandi esploratori, gli inventori;
Omero, Shakespeare, Goethe, Leopardi,
né può mancarvi Tirso de Molina;
Palladio, Michelangelo, Bernini
e tutti gli altri immensi luminari
dell'arte, del pensiero e dell'ingegno.
Perché così è la morte: il solo scrigno
con i tesori dell'intelligenza!
Che dire ancora, che altro può mancare
a questa festa, che ho sin qui taciuto?
Immagino che cosa chiedereste,
e vi rispondo subito: sì, c'è.
E' qui tra noi, stanotte, il Convitato,
col suo abbagliante scheletro di pietra:
passando tra la folla dei festanti
con passo lento e greve, mi ha raggiunto
nel mezzo del mio brindisi trionfante,
e non ha urlato "Pentiti!" stavolta,
ma ha sussurrato "Guardati." soltanto.
Non so se è stato il suo tono dimesso,
lo stato della nuova fratellanza,
ma non gli ho reso il "No!" come risposta
e, quasi senza rendermene conto,
quello che mi diceva io l'ho fatto.
Vuole il destino, per mia buona sorte,
che non abbia uno specchio tra le mani,
così che io non veda la mia faccia,
o quel che resta della sua rovina.
Mi basta lo spettacolo tremendo
del resto devastato del mio corpo.
Del nettare inebriante che ho bevuto
non ho sentito gusto, né profumo:
non ho palato, lingua, e neanche naso!
Lo stesso liquido che ho deglutito
mi è scivolato giù, lungo il costato,
sui femori, giù giù, sino a formare,
intorno a quel che resta dei miei piedi,
una stupida pozza spumeggiante:
non ho più stomaco per trattenere
dolci bevande, né gustoso cibo!
E tu, fanciulla che mi sei accanto,
dove hai lasciato i tuoi capelli biondi?
Perché non hai più cielo nei tuoi occhi,
ma mostri solamente, in questa notte,
come caverne, le orbite tue, vuote?
Non hai più pelle liscia, non hai carne,
ed io, per quanta volontà ci metta,
non riuscirei a baciarti sulle ossa!
E poi, misero me, come potrei
baciarti adesso, se non ho più labbra?
Non posso neanche amarti, come vedi,
perché, accidenti, non ho neanche il cuore!
Non ho più peli addosso, onor del mento,
né cosce, né bicipiti e polpacci,
non ho più glutei, non ho deretano!
Orrore! Non ho neanche, tra le gambe,
parvenza di testicoli, né vedo
il mio caro strumento di piacere!
Che fine ha fatto il mio nobile cazzo?
La morte è questa? Dov'è il suo trionfo?
E voi, viventi, perché costruite
discariche di resti di defunti
che dite cimiteri o camposanti?
Ma ditemi: vi sembra cosa giusta
lasciare a decomporre nella terra,
o tra fredde pareti di cemento,
quel che natura diede ai nostri corpi?
Se voi vedeste adesso quel che resta
della fanciulla che piange al mio fianco!
L'aveste vista il giorno in cui la morte
la rapì al mondo e alla sua giovinezza!
Ma come può apparirvi cosa umana
aver lasciato che la sua bellezza
marcisse nella terra, poco a poco,
sinché di lei restarono le ossa?
Ma non sarebbe meglio, da defunti,
sparire in cenere o, anche meglio, in fumo?
Voi uomini del secolo più ricco
di esperimenti e di tecnologia,
perché non inventate uno strumento
con cui disintegrare chi trapassa,
risparmiandogli l'onta, almeno quella,
della dissoluzione putrescente?
Già sottostiamo a tante umiliazioni,
fino all'estrema, all'ultima: la morte.
Perché così è, signori, date ascolto:
la morte è una solenne fregatura!"
Da quella notte è ormai passato un anno.
Lanciato al vento quell'ultimo grido,
il primo che era uscito dalla tomba,
come se l'incantesimo notturno
si fosse rotto per quelle parole,
per primo cadde a pezzi su se stesso,
e tutti gli altri, ormai disanimati,
si sgretolarono allo stesso modo,
lasciando trasformato il cimitero
in un immenso ossario desolato
di resti sparsi senza alcuna forma,
né ordine, né nome, né più storia.
La luna, che assistette a quella scena,
s'arrese al raccapriccio, e da quel giorno
percorse il cielo, notte dopo notte,
sempre nascosta dietro ad una nube,
per non dover vedere lo sfacelo
del carnevale macabro, lasciato
dagli uomini, impauriti, tale e quale:
le ossa sparse, fuori dalle tombe,
per mesi e mesi, quasi per un anno,
senza che alcuno osasse avvicinarsi.
Finché qualcuno, negli ultimi tempi,
riportò l'ordine nel cimitero,
ricomponendo le ossa, finalmente,
depositandole dentro la fossa,
e richiudendo questa con la pietra.
Gli uomini han pregato che la luna
ricomparisse in cielo come prima,
come se nulla fosse mai successo:
hanno pregato, hanno implorato e pianto,
specialmente i poeti, i musicisti,
i sognatori e gli innamorati.
Infine, dopo giorni di lamenti
e di occhi lucidi puntati al cielo,
forse per la pietà, forse per caso,
la nuvola si è sciolta lentamente:
e nella notte, alto e luminoso,
in cielo è apparso il teschio della luna.
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