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Parole spezzate - I parte

Ultimo Aggiornamento: 27/01/2005 23:05
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PAROLE SPEZZATE
di Walko

Sono parole spezzate
di chi ha smarrito il filo del discorso,
di chi ha perduto il filo della voce.
Un crocevia di sillabe
disgiunte e ricomposte
che scrosciano dal cuore
e inciampano sull'orlo delle labbra.
Un dislivello cosciente
tra l'immaginazione e il dire
che non si può colmare;
un intervallo esitante
tra il suono e la cadenza,
tra la vergogna e il rischio,
tra la nota e il bemolle.
Un intermezzo senza
seria definizione,
come lo spazio
tra sopracciglia ed occhi,
come voler descrivere
con una sola frase
la goccia di sudore
che scende disegnandoti
un rigagnolo sul braccio.
Paròspezzàdamòchenonsodì:
tesòlosàchevorredìrchetì.
Sono proposizioni aggrovigliate,
attorcigliate
tra la lingua e i denti,
che stentano a staccarsi dalle dita.
E' come quando cerchi
di volare,
vorresti attraversare
una finestra,
nuotare nell'azzurro
dell'immenso,
e poi ti accorgi
che stai rimbalzando
tra le pareti bianche
di una stanza.
Sono momenti
vuoti di espressione,
visioni ed emozioni
troppo intense,
così che non diventano parole.
E a volte
basterebbe solamente
una piccola frase,
come dire
che dopo un tempo
spaventoso
rale,
appare l'arco
proprio tu
baleno.


...

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UN'ALBA DI QUESTE
di Walko


E finalmente,
finalmente l'alba.
Anche se è un'alba timida,
impacciata,
anche se un velo
copre il nuovo sole,
una di queste notti
se n'è andata:
una di queste notti
senza sonno,
una di queste notti,
come tante,
senza speranze,
senza soluzioni,
senza rimedi,
senza una parola.
E' andata via
la notte del buffone
che dà allegria
a chi non può sapere
come sia triste
piangere di notte,
ridere al sole
e piangere alla luna.
E finalmente,
finalmente l'alba!
La città, intorno,
si stira, sbadiglia
e si stroppiccia gli occhi
di finestre,
la folla si rovescia
nelle strade,
lo fa in punta di piedi,
lentamente.
L'unico suono,
a parte una sirena,
è quello del latrato
solitario
di un cane,
taglia minima,
ostinato.
Alza insistito,
altissimo,
un lamento:
più che abbaiare,
cigola nel vento.


...



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MEIN EINZIG TRAUM
di Walko


Anche nell'imbrunire
delle sere di fine stagione
è assai raro che il cielo s'incendi.
Uno strato sottile di piombo
mette in maschera i giorni,
le stagioni e i pensieri.
Quella voce che incalza
e che tuona
spezza l'anima in due;
chi lo sa se parlava
di ragione o di terra?
Già galoppano i cavalli di frisia
sulla pista
del circo d'Europa,
volano alte le aquile
sulle montagne,
sulle città fumose
e le campagne.

Non diresti che ha un cuore di fuoco
a guardarlo negli occhi
che conservano i sogni
dietro a un velo di cristallo
e di ghiaccio:
certe volte il suo sguardo
può congelare il sangue
e mutare il respiro
in singhiozzo.
Forse soltanto lei
riesce a cogliere
in fondo al suo sguardo
una storia, un silenzio,
un segreto.
Lei lo osserva e lo ascolta parlare
con uguale piacere,
anche se, ormai, da tempo
ha imparato
a non credere alle sue parole,
anche quando è sincero,
anche quando promette
"morgen, vielleicht...
ja... morgen..."
Lui le dice che ama i suoi occhi,
la sua bocca, i suoi fianchi,
le sue gambe, il suo seno,
e nient'altro.
Lei a volte lo ama
e altre volte lo odia,
certi giorni vorrebbe scordarsi di lui,
ma il suo cuore non regge il macigno
della sua lontananza,
e per lui è lo stesso.
Non è certo una storia
di teneri amanti,
ma anche questa
è una storia d'amore.
Raramente confessa di amarla,
non è tipo da romanticismi
col suo cuore ingessato,
con la sua aquila
tatuata sul cuore;
anche quando le parla d'amore
il suo sguardo è distante,
la sua voce è di pietra.
Però a volte la chiama
"mein einzig Traum".

E' una storia perduta
dal tempo
che misura l'azione di un passo
dal ciglio dell'abisso
al precipizio,
è una storia d'amore
perduta nel tempo.
Il futuro ha negato
non soltanto la vita,
ma anche il nome
dei protagonisti.
Forse lui si chiamava
Richard,
e faceva il garzone;
forse lei si chiamava
Marlene,
e faceva la sarta.
Cosa importa,
se nei giorni seguenti
forse lui si chiamava
Richard,
e faceva il soldato;
forse lei si chiamava
Marlene,
e cuciva divise?

Nel trentotto,
a Berlino,
a guardare le rose
che donavano il maggio
ai giardini,
non lo avresti mai detto
che sarebbe tornato l'inverno,
che sarebbe
venuta la morte.

Certe volte la vita
è un momento:
il presente, il futuro,
tutta l'eternità
contenuta in un attimo appena.
Richard fissa il suo sguardo
di ghiaccio
al vicino orizzonte,
guarda un po' più lontano,
e sussurra
"Marlene,
mein einzig Traum..."

...



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MELACERBA
di Walko

Non vi conviene
credere ai romanzi,
credere alle parole affascinanti
di chi s'inventa
una vita di carta.
Io, per esempio,
non sono rinsavito,
come racconta il finale
della storia:
passato è il tempo,
non so dire quanto,
ma sono sempre
lo stesso di allora,
io sono sempre lo stesso
di prima,
io sono sempre lo stesso
di sempre.
Semplicemente,
adesso sono solo,
perché anche il mio scudiero
mi ha lasciato,
insieme alla speranza
e al pentimento.
Ora giro nei boschi,
in mezzo ai campi,
senza fermarmi mai,
la notte e il giorno.
Il mio cavallo è vecchio,
cieco e zoppo,
è monca della punta
la mia spada,
la mia lancia spaccata
nel suo mezzo,
il mio scudo affogato,
sprofondato
o trascinato via
dalla corrente,
varcando un fiume
su un ponte di corde,
portando il mio cavallo
sulle spalle;
il mio elmo
l'ho dato a una ragazza
che mi ha concesso
un bacio sulla bocca
e una succhiata
dal suo seno caldo,
profumato di rosa
e melacerba.
Altro non ho,
né cerco, e neanche spero,
ma nonostante tutto
non mi arrendo;
proseguo,
non conosco la paura:
non mi spaventa il vento,
né la pioggia,
non temo gelo,
frastuono, silenzio,
né tempeste di grandine
o di sabbia,
né bufere di sangue
o di parole;
sfido la morte
in giochi di prestigio,
d'acrobazia e vario altro talento
e, non lo credereste,
ho sempre vinto;
non ho paura del buio,
della luce,
fisso negli occhi il sole,
molto a lungo,
sempre senza provare
alcun dolore,
e parlo con la luna,
con le stelle,
amo l'asfalto
e odio la mia ombra:
spesso la inseguo
quando mi precede,
spesso la fuggo
quando mi rincorre.
Ho fatto anche di peggio,
ma, lo giuro,
non m'importa più nulla
della gloria,
e giro al largo
dai mulini a vento.
Mi chiamano
Chisciotte de la Mancha,
ed è quello che sono,
solo questo,
ma avrei potuto essere
ben altro,
avrei dovuto essere
tutt'altro.
Avrei voluto essere
un eroe,
uno dei tanti:
Achille, Ajace, Ulisse;
avrei voluto,
avrei potuto avere
la forza, la bellezza,
la ricchezza,
anche più d'Ercole,
d'Apollo e Mida;
avrei potuto avere
la maestà
ed il segreto
della conoscenza,
anche più di re Artù
e di Merlino.
Non potendo trovarmi
fra le mani
queste virtù,
sono quello che sono,
perché un punto intermedio
non esiste:
fra tutto e niente
non c'è via di mezzo.
E forse, in fondo,
questo è il mio segreto:
avrei voluto essere soltanto
giusto quello che sono,
o ancora meglio,
quello che sono diventato adesso,
senza mulini a vento
da attaccare,
senza, con me,
la stupida saggezza
del benpensante Sancho
che mi affianca,
con quel suo ragionevole bagaglio
di lenti dubbi
e di vigliaccheria
che, nel confronto,
esalta il mio coraggio.
Ebbene sì, lo ammetto,
lo confesso:
tutto quello che sono
io l'ho scelto,
anche se a volte piango,
a volte urlo
il mio risentimento
e il mio rimpianto,
mi specchio
su pozzanghere di ghiaccio
e sputo sull'immagine riflessa.
Eppure,
nonostante tutto questo,
sono quello che sono
e me ne vanto;
quanto ai rimorsi,
è un altro discorso.
Non cerco Dulcinea,
non la rincorro
sulle strade che sceglie
per sfuggirmi;
spesso la sua presenza,
o il suo miraggio,
mi riempie l'orizzonte
del pensiero,
della stessa mia vista
e del ricordo,
però non la amo più,
non ne ho più voglia,
forse nemmeno fosse lei,
un giorno,
a venire a cercarmi,
ad inseguirmi,
come ho fatto con lei
per molte strade,
come ho fatto con lei
per troppo tempo.
Non tento neanche più
di sostituirla,
son quasi pronto
per un nuovo amore,
sebbene non lo cerchi
e non mi manchi.
Proseguo il mio cammino
d'ogni giorno,
senza voltarmi
e alzando alto nel vento
il mio stendardo
e la sua nuova insegna:
una clessidra,
simbolo del tempo
che passa sul mio viso,
sul mio corpo,
lasciandolo coperto
di ferite,
che passa sui pensieri,
sul mio cuore,
lasciandomelo intatto,
sempre uguale,
immacolato nella giovinezza.
Altro non chiedo
al tempo ed alla vita:
come non cerco
stima e compassione,
non cerco l'immortalità
di un gesto,
non cerco lo stupore
degli sguardi,
non cerco il mito, il sogno,
la fortuna,
così non cerco più
neanche un amore.
Per il momento
può bastarmi un bacio,
una vetrina spalancata d'occhi,
una cascata di capelli sciolti,
l'ebrezza di una voce
e di un sorriso,
un profumo di rosa
e melacerba.


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TORQUEMADA
di Walko

Del male non ne ho fatto,
deliberatamente,
almeno non ricordo.
Anzi, sinceramente,
davvero non mi pare
d'aver mai fatto male.
Ma sì, ho bruciato i piedi
a qualche centinaio
di eretici e di streghe,
forse ho strappato gli occhi
con le mie proprie mani
a un paio di blasfemi
che avevan bestemmiato
la santa madre chiesa,
ma, giuro, non l'ho fatto
con astio e cattiveria,
non ho provato affatto
soddisfazione o gioia,
ma, per primo, ho sofferto
di fronte a tanta pena.
Voi non mi crederete,
ma tutto quel che ho fatto,
comprese le torture
e i roghi, e le garrote
sovente comminate,
l'ho fatto con amore,
l'ho fatto per amore.
Quelle anime traviate,
povere peccatrici,
non le ho forse salvate
con certe pene atroci
dal fuoco dell'inferno?
E allora, ho fatto male?
In fondo ho rispettato,
e fatto rispettare,
la volontà divina
per cui, per guadagnare
l'eternità beata,
occorre assai penare.
Pensate a quanto amore
muoveva la mia frusta,
quando battevo il dorso,
fino a levar la pelle,
del prossimo che amo,
nel nome del precetto,
quanto e più di me stesso!
Sapeste che sollievo
per l'anima mia, pura,
e per la mia coscienza,
negli ultimi momenti
pensare a quanta gente,
spegnendole il sorriso,
ho spalancato l'uscio
del dolce paradiso!



...



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IL CARNEVALE MACABRO
di Walko


Notte di luna piena, mezza estate.
Come per una strana sensazione,
forse un messaggio che non ha bisogno
né di parole, né di sguardi, o d'altro,
gli uomini sono nascosti nelle case:
persino un vagabondo, o un ubriaco,
anche a pagarlo, non lo trovereste
su una panchina, o al ciglio di una strada,
in questa notte, nel suo carnevale
fuori stagione e fuori ogni misura.
Chi vive ancora resta nel suo nido,
non si avvicina neanche a una finestra,
ha provveduto a sprangare la porta.
Nessuno ne ha parlato, lo ha annunciato,
ma i vivi hanno saputo, hanno capito
che questa notte appartiene ai morti.
Nel cimitero, dietro la collina,
a mezzanotte in punto, lentamente,
una pietra tombale si rimuove
sino a scoprire del tutto una fossa;
da questa esce uno scheletro, elegante,
si spolvera le ossa dal terriccio,
si guarda un poco intorno e poi comincia
il suo discorso, con certo vigore:
"Fratelli miei non so quanto lo foste
quando di carne ancora era l'aspetto
e il sangue vi pulsava nelle vene,
ma, certo, adesso mi siete fratelli,
congiunti nel ricordo e nel silenzio.
Noi tutti, qui, che qualche cosa fummo,
stanotte ancor saremo, ché ci è dato
per questa notte sola. Io l'ho chiesto,
me l'han concesso, e dunque si cominci
il grande carnevale dei defunti!"
A questo punto, tutte le altre tombe
si muovono, si aprono le fosse
e vi escono, un po' attonite, sorprese,
figure ricomposte e rianimate
di chi da tempo non ha carni addosso.
Colui che primo uscì, con poche frasi,
spiega ai presenti quella circostanza
e in breve tempo la festa comincia,
e lui, che ha organizzato il carnevale,
mentre dirige il tutto, si diverte
a raccontare al cielo ed alla luna
la cronaca di questa unica, assurda,
parata di mondanità notturna.
"Quando io vissi, e caspita se vissi,
quando io vissi fui detto gaudente,
amavo la bellezza e l'eleganza,
e amai non so più quante belle donne,
non paventai timori, né riguardi
e non conobbi mai rimorsi o dubbi.
Il secolo mi disse Don Giovanni.
Ora son qui, tra voi, cerimoniere,
e a questo punto do il via alle danze!
Colui che sulle corde del violino
preme, sublime, le sue dita d'ossa,
in vita sua fu detto Paganini,
di tutti i violinisti fu il più grande.
All'organo è Landino, detto il cieco,
anche se adesso gli è dato vedere
non perde punto la sua antica arte.
Ai quattro pianoforti che sentite
si alternano i più grandi tra i maestri
che la divina musa ha dato al mondo:
gli scheletri, lucenti al chiar di luna,
di Ludwig Van Beethoven, Peter Schubert,
Frydryk Chopin, e Mendelssohn, e Schumann,
e Richard Strauss, Brahms, Haydn, e Puccini,
e poi ancora Liszt, e Gustav Mahler,
e Mozart, che conosco molto bene.
Verdi dirige, da par suo, l'orchestra
di scheletri virtuosi e assai valenti;
fiati ed ottoni son lasciati a Bruckner,
e Richard Wagner presto gli si affianca;
Berlioz dirige il coro: una bellezza!
Cura gli archi Vivaldi, il prete rosso;
v'è infine al cembalo, ben temperato,
lo scheletro di Johann Sebastian Bach.
Pensate alla disdetta, voi che, vivi,
non siete qui presenti ad ascoltare
tanta beltà in un unico concerto!
Voi vi affannate ancora, per il mondo,
alla ricerca delle vane cose,
fatui piaceri e gioie provvisorie,
fuggendo inorriditi la figura
della Signora che regge la falce;
schiavi del gelo, come dell'arsura,
piegati dalla fame e dai bisogni,
soggetti alla fatica e alla stanchezza,
sconvolti dal dolore e dal rimpianto.
Poteste voi, avendone il coraggio
e l'opportunità, trovarvi qui
stanotte, sotto questa luna immensa,
avreste l'occasione di potere
assistere al trionfo della morte.
Perché così è, signori: questa morte,
che tanto vi spaventa, è una gran festa!
Ecco, si avanzano gli innamorati:
Paolo e Francesca, nuovamente uniti,
lontani dalle fiamme dell'inferno
cui li costrinse Dante nel poema,
anche lui, Dante, qui tra noi, contento
di rivedere la sua Beatrice.
Ci sono anche gli amanti di Verona,
Romeo e Giulietta, senza più veleni.
Desdemona accarezza il cranio liscio
di Otello che, davanti a lei, in ginocchio,
chiede perdono e giura eterno amore.
Lo scricchiolio di ossa che si avverte
proviene dall'abbraccio appassionato
tra il musicante Orfeo e la sua Euridice.
Ma tutto intorno è un dolce ritrovarsi
di amori mai finiti, allontanati
da reciproca antica vedovanza.
Ma infine, morte amore non disgiunge,
anzi, riunisce nell'eterno adesso.
Perché così è: romantica è la morte,
l'apoteosi è d'ogni sentimento!
E allora, non rallentino le danze,
chi vuol ballare balli, e chi si apparta
con il suo amore, goda sino in fondo!
Io stesso ho ritrovato molte amanti.
Ma non c'è solo musica ed amore,
c'è tutto questo, ma non basta ancora.
Qui c'è il congresso dell'uman sapere
che non si vide mai, prima di adesso:
Copernico, Leonardo, Galileo,
tutte le scuole di filosofia;
i grandi esploratori, gli inventori;
Omero, Shakespeare, Goethe, Leopardi,
né può mancarvi Tirso de Molina;
Palladio, Michelangelo, Bernini
e tutti gli altri immensi luminari
dell'arte, del pensiero e dell'ingegno.
Perché così è la morte: il solo scrigno
con i tesori dell'intelligenza!
Che dire ancora, che altro può mancare
a questa festa, che ho sin qui taciuto?
Immagino che cosa chiedereste,
e vi rispondo subito: sì, c'è.
E' qui tra noi, stanotte, il Convitato,
col suo abbagliante scheletro di pietra:
passando tra la folla dei festanti
con passo lento e greve, mi ha raggiunto
nel mezzo del mio brindisi trionfante,
e non ha urlato "Pentiti!" stavolta,
ma ha sussurrato "Guardati." soltanto.
Non so se è stato il suo tono dimesso,
lo stato della nuova fratellanza,
ma non gli ho reso il "No!" come risposta
e, quasi senza rendermene conto,
quello che mi diceva io l'ho fatto.
Vuole il destino, per mia buona sorte,
che non abbia uno specchio tra le mani,
così che io non veda la mia faccia,
o quel che resta della sua rovina.
Mi basta lo spettacolo tremendo
del resto devastato del mio corpo.
Del nettare inebriante che ho bevuto
non ho sentito gusto, né profumo:
non ho palato, lingua, e neanche naso!
Lo stesso liquido che ho deglutito
mi è scivolato giù, lungo il costato,
sui femori, giù giù, sino a formare,
intorno a quel che resta dei miei piedi,
una stupida pozza spumeggiante:
non ho più stomaco per trattenere
dolci bevande, né gustoso cibo!
E tu, fanciulla che mi sei accanto,
dove hai lasciato i tuoi capelli biondi?
Perché non hai più cielo nei tuoi occhi,
ma mostri solamente, in questa notte,
come caverne, le orbite tue, vuote?
Non hai più pelle liscia, non hai carne,
ed io, per quanta volontà ci metta,
non riuscirei a baciarti sulle ossa!
E poi, misero me, come potrei
baciarti adesso, se non ho più labbra?
Non posso neanche amarti, come vedi,
perché, accidenti, non ho neanche il cuore!
Non ho più peli addosso, onor del mento,
né cosce, né bicipiti e polpacci,
non ho più glutei, non ho deretano!
Orrore! Non ho neanche, tra le gambe,
parvenza di testicoli, né vedo
il mio caro strumento di piacere!
Che fine ha fatto il mio nobile cazzo?
La morte è questa? Dov'è il suo trionfo?
E voi, viventi, perché costruite
discariche di resti di defunti
che dite cimiteri o camposanti?
Ma ditemi: vi sembra cosa giusta
lasciare a decomporre nella terra,
o tra fredde pareti di cemento,
quel che natura diede ai nostri corpi?
Se voi vedeste adesso quel che resta
della fanciulla che piange al mio fianco!
L'aveste vista il giorno in cui la morte
la rapì al mondo e alla sua giovinezza!
Ma come può apparirvi cosa umana
aver lasciato che la sua bellezza
marcisse nella terra, poco a poco,
sinché di lei restarono le ossa?
Ma non sarebbe meglio, da defunti,
sparire in cenere o, anche meglio, in fumo?
Voi uomini del secolo più ricco
di esperimenti e di tecnologia,
perché non inventate uno strumento
con cui disintegrare chi trapassa,
risparmiandogli l'onta, almeno quella,
della dissoluzione putrescente?
Già sottostiamo a tante umiliazioni,
fino all'estrema, all'ultima: la morte.
Perché così è, signori, date ascolto:
la morte è una solenne fregatura!"
Da quella notte è ormai passato un anno.
Lanciato al vento quell'ultimo grido,
il primo che era uscito dalla tomba,
come se l'incantesimo notturno
si fosse rotto per quelle parole,
per primo cadde a pezzi su se stesso,
e tutti gli altri, ormai disanimati,
si sgretolarono allo stesso modo,
lasciando trasformato il cimitero
in un immenso ossario desolato
di resti sparsi senza alcuna forma,
né ordine, né nome, né più storia.
La luna, che assistette a quella scena,
s'arrese al raccapriccio, e da quel giorno
percorse il cielo, notte dopo notte,
sempre nascosta dietro ad una nube,
per non dover vedere lo sfacelo
del carnevale macabro, lasciato
dagli uomini, impauriti, tale e quale:
le ossa sparse, fuori dalle tombe,
per mesi e mesi, quasi per un anno,
senza che alcuno osasse avvicinarsi.
Finché qualcuno, negli ultimi tempi,
riportò l'ordine nel cimitero,
ricomponendo le ossa, finalmente,
depositandole dentro la fossa,
e richiudendo questa con la pietra.
Gli uomini han pregato che la luna
ricomparisse in cielo come prima,
come se nulla fosse mai successo:
hanno pregato, hanno implorato e pianto,
specialmente i poeti, i musicisti,
i sognatori e gli innamorati.
Infine, dopo giorni di lamenti
e di occhi lucidi puntati al cielo,
forse per la pietà, forse per caso,
la nuvola si è sciolta lentamente:
e nella notte, alto e luminoso,
in cielo è apparso il teschio della luna.



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