la chiave

Turbinio inane di corrotte armi,
stilettate incandescenti di invisibili lame
squarciano, impietose, le misere carni
squassate dalla tirannica e mai paga fame.

Freme il petto, custode d'orrore,
mentre le mani che bramano cupide
son colme solo di lacrime umide
stillanti, indocili, dall'occhio che muore.

Braccato come una fiera in gabbia,
scosso da vani e impotenti singulti,
avvelenato d'impotente rabbia,
grida a se stessso disgusto ed insulti.

Stretto il suo pugno che percuote il petto,
baluginante di un silente potere,
serra un metallico, oscuro oggetto
che spera ascolti le sue tetre preghiere.

La fioca luce lo blandisce appena
eppur ne fa zampillare il riflesso
che, come un'eco, rimbalza da esso
spandendo attorno un'orribile pena.

Con foga cieca il suo palmo s'abbranca
attorno al sottile corpo argentato
da cui, soltanto, la sua anima stanca
crede che lui possa esser salvato.

Gli occhi infossati in orbite scure
s'apprestan allor sulla lama affilata
alle cui infide e seducenti cure
s'affrettava a cedere l'esistenza sua odiata.

Assai incerto tra sollievo e sconforto
si rese conto, aprendo le dita,
che non una lama stringeva accorto
ma una chiave sottile e brunita.

Il grembo del fato, miraggio insolente,
gli ha rifiutato il suo dolce nepente
all'incertezza l'eterno tributo
dovrà pagare con orrore muto.

Inesausto e perenne rovello:
usare o meno quel chiavistello?
Uscire o meno da quella prigione,
ad un tempo tormento e protezione?